Dalla parte di Sciascia
Tra memorie e inquisizioni. La necessità di leggere Sciascia
Esce
il secondo volume delle Opere. Che contiene scritti ancora
attualissimi: dalla cronaca di Rosetta, giovane mondana milanese
massacrata dalla polizia, all’Affaire Moro.
di Teo Lorini
Agli
sciasciani di stretta osservanza la storia è nota: malato da tempo,
Leonardo Sciascia non ebbe modo di veder stampata l’ultima sua opera, Una storia semplice,
che tuttavia Adelphi riuscì a far arrivare in libreria proprio nel
giorno – il 20 novembre 1989 – in cui l’autore di Racalmuto moriva.
Quasi a celebrare questo sodalizio d’impegno, il secondo volume delle Opere
curate da Paolo Squillacioti esce a ridosso del 25° anniversario della
scomparsa di Sciascia. Meno colossale del primo (che superava le 2000
pagine), questo volume s’articolerà in due tomi. In quello che abbiamo
fra le mani sono raccolte due categorie di testi. Intanto le “Memorie”:
il lessico erudito dell’uso racalmutese Occhio di Capra e il mirabile diario in pubblico Nero su nero,
zibaldone di pensieri apparsi in vari quotidiani sull’arco del cruciale
decennio 1969-’79. Poi, ed è il boccone più ghiotto, le “Inquisizioni”.
Il termine, mutuato dalle inquisiciones dell’amato Borges, ma
anche dalle inquisizioni filologiche di Salvatore Battaglia, identifica
quelle opere in cui narrativa e saggistica si coniugano e il saggio
storico viene temprato dallo strumento inesausto di una lingua che
intaglia tenacemente parole e frasi alla ricerca di quella concisione
che per Sciascia è stata, sino alla fine, obiettivo inderogabile della
scrittura. Troviamo dunque in questa sezione opere fondamentali, e
carissime al Racalmutese, come la Morte dell’inquisitore, Il teatro della memoria, L’Affaire Moro e il dittico La strega e il capitano e 1912 + 1, con cui Sciascia omaggiò in ragguardevole sequenza Manzoni prima e Pirandello poi.
Grandi
riproposte dunque, in un’edizione suntuosa e condotta con lo scrupolo
filologico di cui Squillacioti ha già dato prova nel primo volume delle Opere (ma anche in Il fuoco nel mare,
riedizione adelphiana dei racconti extravaganti). Sarebbe tuttavia un
errore ridurre questa al monumento con cui si mummifica un autore ormai
canonico ascrivendolo alla categoria del classico. Anzi, proprio le
“Inquisizioni” dimostrano l’attualità del messaggio di Sciascia, la necessità di rileggere Sciascia, a un quarto di secolo dalla sua scomparsa. Alcuni esempi, e non necessariamente tra i più famosi. Le Cronachette (apparse nel 1985 per Sellerio, come 100a
uscita della collana “La memoria”, che proprio Sciascia inventò e che
oggi è diventata una specie di riconoscibilissimo brand per gialli di
successo) includono la storia della Povera Rosetta, «giovane
mondana» milanese con velleità di cantante, massacrata da un brutale
pestaggio poliziesco in piazza Vetra e morta in ospedale «dopo dieci ore
di atroce agonia e senza un familiare che l’assistesse»: come non
sentire risuonare in questa storia (di cui fra l’altro il siciliano
Sciascia riesce a restituire in pieno la profonda milanesità) i nomi di
più recenti “morti di Stato” per i quali – come per la povera Rosetta –
non è stato trovato alcun colpevole.
E ancora L’affaire Moro,
libro su cui nacque il nostro amore per Sciascia e che l’autore ricorda
spesso tra i suoi più travagliati («Questo libro mi ha dato
l’insonnia»). Sciascia entrò infatti come deputato a Montecitorio l’anno
successivo al rapimento e all’omicidio di Moro; fu membro della
commissione parlamentare d’inchiesta su Via Fani e redasse una relazione
di minoranza (stampata in coda all’Affaire Moro), non solo per
prendere le distanze dalle conclusioni di quel comitato, ma anche per
rendere fruibili ai cittadini le migliaia di pagine contorte e, di
fatto, illeggibili che la commissione aveva prodotto. Proprio quel
gesto, assieme alla lettura che nell’Affaire egli diede dei
passaggi del sequestro e delle lettere del Presidente DC dal carcere
brigatista, gli valsero cospicue critiche di quello che oggi si
chiamerebbe «complottismo», accuse che lo accompagnarono per il resto
della vita con lunghe polemiche, talora isteriche, spesso pretestuose,
ma che nella sostanza non inficiano le conclusioni a cui Sciascia era
pervenuto già nel 1978, tanto che a Domenico Porzio dirà nel 1989: «Di
quel libro non ho da mutare una virgola. E visto che tutto ciò che è
avvenuto in seguito mi ha dato ragione, io ne sono soddisfattissimo.
Naturalmente ci sono stati degli attacchi feroci. Ma hanno avuto torto
loro».
La (ri)lettura di una delle
più preziose tra le “Inquisizioni” sciasciane si arricchisce, nel volume
di Adelphi, dell’appendice curata da Squillacioti che riepiloga con
abbondanza di interessanti testimonianze e documenti la storia del
libro, le difficoltà e le controversie che ne accompagnarono la stesura e
l’uscita per i tipi di Sellerio.
Ciò che più inquietava Sciascia, attento lettore pirandelliano, e che più inquieta ancor oggi il pubblico dell’Affaire,
è la progressiva delegittimazione di Moro e dei suoi scritti, un
misconoscimento che, pirandellianamente appunto, congela Moro nella
“forma” dello statista e al contempo lo condanna a morte come uomo. Ma,
come si legge in Occhio di capra, «non c’è fatto pirandelliano
che, prima o dopo Pirandello, non sia realmente accaduto». Così è sulla
controversa identità dello “Smemorato di Collegno” che Sciascia
ripercorse nel Teatro della memoria e che, mentre il fascismo
definitivamente si consolidava, occupò l’Italia, divisa tra “bruneriani”
e “canelliani”. Così è ancora per 1912 + 1, l’omaggio a
Pirandello con cui Sciascia inaugurò la propria collaborazione con
Adelphi e che riepiloga un anno che avrebbe dovuto cambiare tutto in
Italia, tutta l’Italia. Il suffragio universale, il patto Gentiloni, la
fine del non expedit: un salto nel buio? Il trionfo del
socialismo? La nascita di un’Italia nuova? Naturalmente no. Quella
rivoluzione non doveva compiersi e, puntualmente, non si compì, come
altre rivoluzioni più prossime a noi. E Sciascia si lascia andare a un
ricordo personale, rievocando il suo unico incontro con Giorgio La Pira
che «ripeteva “Si dev’essere d’accordo”. Tutti d’accordo. Muoveva le
piccole mani come a modellarlo materialmente l’accordo: docile e
dolcissimo impasto».
Articolo apparso su “Pagina99” del 3 gennaio 2015. Noi l'abbiamo ripreso da http://www.nazioneindiana.com/
Nessun commento:
Posta un commento