17 gennaio 2015

SCIASCIA DALLA PARTE DEGLI INFEDELI


Dalla parte di Sciascia


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Tra memorie e inquisizioni. La necessità di leggere Sciascia

Esce il secondo volume delle Opere. Che contiene scritti ancora attualissimi: dalla cronaca di Rosetta, giovane mondana milanese massacrata dalla polizia, all’Affaire Moro.

di Teo Lorini

Agli sciasciani di stretta osservanza la storia è nota: malato da tempo, Leonardo Sciascia non ebbe modo di veder stampata l’ultima sua opera, Una storia semplice, che tuttavia Adelphi riuscì a far arrivare in libreria proprio nel giorno – il 20 novembre 1989 – in cui l’autore di Racalmuto moriva.
Quasi a celebrare questo sodalizio d’impegno, il secondo volume delle Opere curate da Paolo Squillacioti esce a ridosso del 25° anniversario della scomparsa di Sciascia. Meno colossale del primo (che superava le 2000 pagine), questo volume s’articolerà in due tomi. In quello che abbiamo fra le mani sono raccolte due categorie di testi. Intanto le “Memorie”: il lessico erudito dell’uso racalmutese Occhio di Capra e il mirabile diario in pubblico Nero su nero, zibaldone di pensieri apparsi in vari quotidiani sull’arco del cruciale decennio 1969-’79. Poi, ed è il boccone più ghiotto, le “Inquisizioni”. Il termine, mutuato dalle inquisiciones dell’amato Borges, ma anche dalle inquisizioni filologiche di Salvatore Battaglia, identifica quelle opere in cui narrativa e saggistica si coniugano e il saggio storico viene temprato dallo strumento inesausto di una lingua che intaglia tenacemente parole e frasi alla ricerca di quella concisione che per Sciascia è stata, sino alla fine, obiettivo inderogabile della scrittura. Troviamo dunque in questa sezione opere fondamentali, e carissime al Racalmutese, come la Morte dell’inquisitore, Il teatro della memoria, L’Affaire Moro e il dittico La strega e il capitano e 1912 + 1, con cui Sciascia omaggiò in ragguardevole sequenza Manzoni prima e Pirandello poi.
Grandi riproposte dunque, in un’edizione suntuosa e condotta con lo scrupolo filologico di cui Squillacioti ha già dato prova nel primo volume delle Opere (ma anche in Il fuoco nel mare, riedizione adelphiana dei racconti extravaganti). Sarebbe tuttavia un errore ridurre questa al monumento con cui si mummifica un autore ormai canonico ascrivendolo alla categoria del classico. Anzi, proprio le “Inquisizioni” dimostrano l’attualità del messaggio di Sciascia, la necessità di rileggere Sciascia, a un quarto di secolo dalla sua scomparsa. Alcuni esempi, e non necessariamente tra i più famosi. Le Cronachette (apparse nel 1985 per Sellerio, come 100a uscita della collana “La memoria”, che proprio Sciascia inventò e che oggi è diventata una specie di riconoscibilissimo brand per gialli di successo) includono la storia della Povera Rosetta, «giovane mondana» milanese con velleità di cantante, massacrata da un brutale pestaggio poliziesco in piazza Vetra e morta in ospedale «dopo dieci ore di atroce agonia e senza un familiare che l’assistesse»: come non sentire risuonare in questa storia (di cui fra l’altro il siciliano Sciascia riesce a restituire in pieno la profonda milanesità) i nomi di più recenti “morti di Stato” per i quali – come per la povera Rosetta – non è stato trovato alcun colpevole.
E ancora L’affaire Moro, libro su cui nacque il nostro amore per Sciascia e che l’autore ricorda spesso tra i suoi più travagliati («Questo libro mi ha dato l’insonnia»). Sciascia entrò infatti come deputato a Montecitorio l’anno successivo al rapimento e all’omicidio di Moro; fu membro della commissione parlamentare d’inchiesta su Via Fani e redasse una relazione di minoranza (stampata in coda all’Affaire Moro), non solo per prendere le distanze dalle conclusioni di quel comitato, ma anche per rendere fruibili ai cittadini le migliaia di pagine contorte e, di fatto, illeggibili che la commissione aveva prodotto. Proprio quel gesto, assieme alla lettura che nell’Affaire egli diede dei passaggi del sequestro e delle lettere del Presidente DC dal carcere brigatista, gli valsero cospicue critiche di quello che oggi si chiamerebbe «complottismo», accuse che lo accompagnarono per il resto della vita con lunghe polemiche, talora isteriche, spesso pretestuose, ma che nella sostanza non inficiano le conclusioni a cui Sciascia era pervenuto già nel 1978, tanto che a Domenico Porzio dirà nel 1989: «Di quel libro non ho da mutare una virgola. E visto che tutto ciò che è avvenuto in seguito mi ha dato ragione, io ne sono soddisfattissimo. Naturalmente ci sono stati degli attacchi feroci. Ma hanno avuto torto loro».
La (ri)lettura di una delle più preziose tra le “Inquisizioni” sciasciane si arricchisce, nel volume di Adelphi, dell’appendice curata da Squillacioti che riepiloga con abbondanza di interessanti testimonianze e documenti la storia del libro, le difficoltà e le controversie che ne accompagnarono la stesura e l’uscita per i tipi di Sellerio.
Ciò che più inquietava Sciascia, attento lettore pirandelliano, e che più inquieta ancor oggi il pubblico dell’Affaire, è la progressiva delegittimazione di Moro e dei suoi scritti, un misconoscimento che, pirandellianamente appunto, congela Moro nella “forma” dello statista e al contempo lo condanna a morte come uomo. Ma, come si legge in Occhio di capra, «non c’è fatto pirandelliano che, prima o dopo Pirandello, non sia realmente accaduto». Così è sulla controversa identità dello “Smemorato di Collegno” che Sciascia ripercorse nel Teatro della memoria e che, mentre il fascismo definitivamente si consolidava, occupò l’Italia, divisa tra “bruneriani” e “canelliani”. Così è ancora per 1912 + 1, l’omaggio a Pirandello con cui Sciascia inaugurò la propria collaborazione con Adelphi e che riepiloga un anno che avrebbe dovuto cambiare tutto in Italia, tutta l’Italia. Il suffragio universale, il patto Gentiloni, la fine del non expedit: un salto nel buio? Il trionfo del socialismo? La nascita di un’Italia nuova? Naturalmente no. Quella rivoluzione non doveva compiersi e, puntualmente, non si compì, come altre rivoluzioni più prossime a noi. E Sciascia si lascia andare a un ricordo personale, rievocando il suo unico incontro con Giorgio La Pira che «ripeteva “Si dev’essere d’accordo”. Tutti d’accordo. Muoveva le piccole mani come a modellarlo materialmente l’accordo: docile e dolcissimo impasto».

Articolo apparso su “Pagina99” del 3 gennaio 2015. Noi l'abbiamo ripreso da http://www.nazioneindiana.com/


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