24 gennaio 2015

CURARE PERSONE




Sempre più il medico è chiamato a fronteggiare non solo la malattia, ma il senso di disgregazione della persona malata, la sua perdita d’immagine e spesso (come nel caso degli anziani) la solitudine di fronte alla sofferenza e alla morte. Curare le persone, non le malattie: questo, per noi, il terreno di una autentica riforma dell'assistenza in un paese in cui sanità vuol dire spesso sprechi e ruberie.

Giangiacomo Schiavi
Curare persone, non malattie 
Non è facile dire a un paziente che il suo tempo è finito. Non è facile parlare di morte. Ma è giusto prolungare l’agonia a tutti i costi, aumentando le sofferenze anziché alleviarle? Fare il medico vuol dire entrare in un campo seminato di dubbi e assumersi il coraggio di una scelta. Anche quella di staccare la spina. Domandatevi se aiutare a morire è sempre eutanasia, e preparatevi a scegliere da che parte stare.

Giuseppe Remuzzi, medico e scienziato, scuote l’albero sul quale sono rimasti appollaiati per anni molti suoi colleghi e invita la categoria a un esame di coscienza: «Vediamo sempre la morte come una sconfitta, non dovrebbe più essere così… Aver aiutato qualcuno a morire bene, a casa sua, con un po’ di morfina se ha dolore, fra le sue cose e chi gli vuole bene è un grande traguardo a cui dovremmo tendere sempre».

Ci vuole coraggio a esporsi denunciando ipocrisie e retorica sulla dignità della vita, ma per Remuzzi è ora di uscire da un equivoco che in Italia provoca conflitti etici e politici. «C’è dignità nell’agonia in un reparto di rianimazione, dopo mesi di incoscienza e di ventilazione meccanica?». La sua fiducia nei medici, negli ospedali, nella battaglia quotidiana per vincere il male, non cancella un giudizio che diventa severa autocritica: per i malati non abbiamo fatto abbastanza. «Quanti medici del mio ospedale hanno voglia di andare al di là di quello che devono fare comunque?», si chiede Remuzzi.

Spesso l’adempimento tecnico prevale sulla partecipazione umana: si cura la malattia, non la persona. I pazienti però non sono macchine in avaria. Se non c’è umanità, comprensione della sofferenza, presa in carico, se non ci sono pietas e un po’ di empatia, non c’è buona medicina.

La scelta (Sperling & Kupfer) non è un libro sulla sanità. È il bilancio di un primario, immunologo, ricercatore, autore di oltre 1.200 pubblicazioni scientifiche, unico italiano a far parte dei board di «The Lancet» e «New England Journal of Medicine».

Quasi un radar per una professione che deve ritrovare passione e competenza. E un grido di rabbia, per la burocratizzazione che ha spersonalizzato un’arte, ridotto l’ascolto, miniaturizzato il tempo a disposizione per una visita. «Dobbiamo cambiare noi per primi, i nostri medici migliori dovrebbero poter ritrovare le motivazioni che oggi negli ospedali sono venute meno».

Il medico ideale di Remuzzi non è un santo guaritore: è un uomo o una donna chiamato a fronteggiare non solo la malattia, ma il senso di disgregazione della persona malata, la sua perdita d’immagine, l’emarginazione e la solitudine. Deve prendere decisioni rapide, magari di notte, quando si è troppo stanchi e si ha paura di sbagliare. Gli si chiede di dire la verità senza togliere la speranza. Di interrompere o continuare una terapia.

Lo fa? Non sempre, secondo Remuzzi. Spesso non decide. Si affida alla legge o lascia il compito al magistrato di turno. Ma certe scelte non si possono delegare. «Scegliere, decidere, fa parte delle nostre responsabilità, a tutela di chi non dovrebbe subire trattamenti inappropriati e dei tanti che, invece, delle cure intensive hanno bisogno per vivere».

C’è anche la rivendicazione di una coscienza medica, una coscienza che i casi di Eluana, Stamina e Di Bella hanno scosso e turbato. E un richiamo all’università: non si diventa dottori con i quiz. È meglio saper parlare senza arroganza con chi sta dall’altra parte che conoscere chi ha scritto Barbablu .

Remuzzi ci mette la faccia e l’esperienza: come quella volta con Celentano, che definì “una cazzata” la legge sui trapianti. Lui reagì e andò in tv. «Il trapianto vuole dire vita», scrisse sul «Corriere». Il molleggiato si scusò. Vuol dire che manca la giusta informazione, disse. A volte è vero, a volte è solo un alibi.

Oggi difendiamo il diritto universale alla salute, ma dopo anni di sprechi i budget sono sempre più stretti. «È un errore spendere il 30% dei bilanci della Sanità per gli ultimi sei mesi di vita di persone molto malate», afferma Remuzzi. «Capita che in certi ospedali non si trovi posto in rianimazione per un ragazzo con la meningite. O meglio: il posto ci sarebbe ma è occupato da qualcuno molto anziano, quasi sempre incosciente, che non ha nessuna prospettiva di vivere o di avere una vita di relazione anche minima...».

La morte resta il convitato di pietra di un libro duro e tenero insieme. «Il più delle volte ce l’hai di fronte. E devi sapere cosa fare». Il mio miglior amico è il campanello, gli ha detto un giorno un malato in dialisi. Era Natale e doveva andare a casa. «Lasciatemi qui, è triste il Natale a casa, da solo con una badante...». Nessuno pensa a questi esodati della vita. «Medici e infermieri non dedicano quasi mai abbastanza attenzioni a chi sta per morire», scrive Remuzzi. Faceva meglio Oscar, il gatto dello Steere Hause Nursing Center di Providence, Usa. Tra i malati di Alzheimer aveva imparato a prevedere chi stava per andarsene e si accucciava davanti al suo letto. In quell’ospedale c’è una targa: «Per Oscar e la sua attenzione a quelli che hanno più bisogno». Non si dovrebbe mai morire soli.

Il Corriere della sera – 23 gennaio 2015

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