13 gennaio 2015

PICO DELLA MIRANDOLA RUBACUORI



Il mondo moderno nasce nel segno della magia più che della scienza. Pico della Mirandola, studioso della magia naturale e della Qabbalah è un interprete fedele di questo snodo fondamentale della civiltà occidentale.

Giorgio Montefoschi

Asceta, cabalista e anche rubacuori, Pico inseguito da un marito tradito 
«Eccentrico già agli occhi dei contemporanei. Troppo ricco ed esibizionista, un dilettante di genio difficile da collocare». Così Giulio Busi — uno dei maggiori esperti di ebraismo medievale e rinascimentale — abbozza un primo ritratto di Giovanni Pico della Mirandola all’inizio della splendida introduzione del Millennio Einaudi (curato poi da lui stesso e Raphael Ebgi) intitolato, appunto, Giovanni Pico della Mirandola. Mito, magia, qabbalah .

Non è un ritratto semplice. Perché se c’è un personaggio enigmatico, un «camaleonte» spavaldo e sfuggente, un «ospite illustre e scomodo della cultura italiana», quello è proprio il Conte della Mirandola. Protetto da Lorenzo de Medici — uno «tra i pochissimi che riuscì a confrontarsi con lui (quasi) alla pari» — e amico del Poliziano e del Savonarola (severo, costui, nei suoi confronti, per non essersi voluto fare frate domenicano, dunque convinto che la sua anima si sarebbe fermata in Purgatorio); sodale e rivale di Marsilio Ficino, il filosofo che a Firenze stava introducendo gli studi platonici; dotato di una memoria fuori del comune; conoscitore di tutto quello che si poteva conoscere della cultura classica e insieme «scopritore» della qabbalah; attratto dalla magia e dai maghi (poiché «come il contadino marita gli olmi alle viti, così il mago la terra al Cielo»); frequentatore precoce delle più importanti aule universitarie italiane e francesi, nonostante uscisse da un ambiente provinciale e da una famiglia feudale «più dedita alle armi che agli ozi letterari»; autore di opere — come l’ Orazione sulla dignità dell’uomo e le 900 Conclusiones — che per l’intreccio dei saperi provocano una vera «vertigine intellettuale», Pico è nel medesimo tempo uomo di mondo e mistico, asceta e rubacuori, ma la sua scala va dritta verso il cielo: alla ricerca delle perle smarrite.

Il 1486 — racconta Giulio Busi, che nei confronti di Pico nutre ogni indulgenza — è un anno cruciale e frenetico per il Conte della Mirandola. Appena ventitreenne, ha già un posto di rilievo nell’ambiente culturale fiorentino.

È anche molto bello. Così lo descrive il nipote Gianfrancesco: «Fu di aspetto insigne e nobile, di statura alta e retta, di carnagione delicata, di viso bello sotto ogni aspetto, cosperso di un colorito che tendeva al pallido e di un rosso che bene gli si addiceva, di occhi grigio azzurri e svegli, di capigliatura bionda e di un biondo naturale, di denti bianchi ed eguali». Come non innamorarsi di un giovane di tal fatta: bello, colto, ricco?

Nella sua rete è caduta Margherita — pure lei bellissima —, vedova di uno speziale, sposata in seconde nozze con un rappresentante di un ramo minore dei Medici: gabelliere che, per sbarcare il lunario (o forse per por fine alla subodorata tresca che va avanti già da qualche tempo), si trasferisce ad Arezzo. Giovanni non demorde. Si presenta ad Arezzo con una scorta non indifferente e rapisce Margherita che sta andando a messa. Il marito si infuria, convince il capitano della città all’inseguimento, con ben duecento uomini armati; diciotto accompagnatori del Conte rimangono sul campo; Pico e il suo segretario riescono a riparare nella rocca di Marciano; la «sposa salvata» ritorna mestamente ad Arezzo.

Scoppia uno scandalo, di cui è naturalmente informato il Magnifico. Ma Lorenzo ama il Conte della Mirandola: quel ragazzo scapestrato che sa milioni di cose, con il quale può conversare di Platone e San Tommaso, di Ovidio e Omero, della bellezza che è nel mondo, di quella che è invisibile, e di Dio. Fa capire che a lui di quel suo «parente povero» non importa più di tanto e che Giovanni va lasciato in pace.

Quindi, Giovanni, liberato da ogni preoccupazione, si ritira in campagna e si butta a capofitto nel lavoro. È il mese di luglio: conclude l’epistola sul Canzoniere di Lorenzo, prepara a tappe forzate le Conclusiones , inizia lo studio dell’arabo, e soprattutto dell’ebraico e della mistica giudaica.

Gli fa da guida, in questa impresa assolutamente nuova per la cultura del tempo, che di mistica ebraica non sapeva nulla, una figura altrettanto originale e controversa — alla quale, non a caso, Giulio Busi ha dedicato, in più opere, notevole attenzione. Costui è figlio di una colta famiglia ebraica siciliana di Caltabellotta. Col nome del suo padrino di battesimo prima, Guglielmo Raimondo Moncada, poi con quello di Flavio Mitridate, si è convertito al cristianesimo. Ordinato prete, dopo gli studi di teologia a Napoli, insegna all’università e fa velocemente carriera nella corte papale, finché il coinvolgimento in un delitto lo costringe (come Caravaggio) ad abbandonare Roma e a ritirarsi oltralpe.
Rientrato a Firenze, frequenta Ficino e conosce Pico. L’incontro fa scoccare una scintilla. Mitridate ha bisogno di aiuto: Pico gli mette a disposizione le sue ricchezze perché traduca dall’ebraico in latino tutto quello che può della mistica ebraica. È un lavoro forsennato quello al quale si sottopone il sofisticato ebreo siciliano convertito. Ma, in tal modo, l’imponente corpus della mistica ebraica, la qabbalah, fa il suo ingresso nel mondo umanistico europeo. Rischiarandolo con una sbalorditiva luce. Perché — secondo Pico — questa millenaria sapienza ebraica, sconosciuta e sospetta, sebbene nascostamente, ha un cuore antico di verità cristiana.

«Ridotto all’essenziale — scrive Busi — il ragionamento di Pico suona così. Se si mettono in controluce il Libro di Esdra , il Vangelo, le allusioni di Paolo nella Lettera ai Romani , e le affermazioni più esplicite di grandi Padri della Chiesa, si scopre che gli ebrei possiedono una sapienza segreta, consegnata da Dio a Mosè sul Sinai e poi passata di generazione in generazione.

Questa è la qabbalah propriamente detta, ora custodita con gelosia dalla gente di Israele, che si rifiuta di schiuderla agli altri. Ed è un danno, perché colui che se ne impadronisce, com’è riuscito al giovane mirandolano, ottiene una chiave formidabile per leggere la Scrittura con occhi nuovi e per capirla più profondamente».

Pico vi legge i segreti della storia, le origini di ogni mito, e, soprattutto, l’avvento del vero Messia. E vede — usando la chiave del simbolo — che tutto è contenuto in tutto; ogni grano di realtà è abbastanza capiente per accogliere il mondo intero; e l’uomo, che è al centro della creazione, ritraendosi in se stesso — esattamente come Dio si è ritirato in se stesso, contraendosi, per far posto alla creazione — può arrivare a Dio.

La visione rivoluzionaria di Pico e i suoi talvolta spericolati accostamenti (come quello fra magia e qabbalah e i miracoli di Cristo) non potevano non allarmare la Chiesa, e il Papa, Innocenzo VIII, istituì una commissione di prelati e di esperti per giudicare la verità delle Conclusiones . La prima seduta si tenne nell’appartamento del vescovo Jean de Monissart il 2 marzo 1487, quando il fastoso carnevale romano era da poco finito. I giudici ponevano domande su domande. Il Conte della Mirandola rispondeva stizzito. I reverendi padri si irritavano sempre di più.

Il culmine della irritazione reciproca fu raggiunto alla fine della giornata quando venne presa in esame la seguente dichiarazione: «Non v’è scienza che ci dia maggiore certezza della divinità di Cristo della magia e della Cabala». Che mai voleva dire quel ragazzo impudente? Pico, altezzoso com’era, si beffò dei padri e dette una risposta elusiva (lui — disse — intendeva quella parte della «Cabala» che non è scienza né teologia rivelata) che sconcertò ulteriormente il severo consesso. La condanna era inevitabile.

Il libro di Busi e Ebgi «nasce dalla frustrazione», come scrive nella sua introduzione Giulio Busi. Vale a dire, dal senso di sgomento che si coglie di fronte alla foresta di luoghi simbolici, citazioni mitologiche, corrispondenze, intrecci, allusioni, parole segrete o indecifrabili poiché provenienti da lingue del tutto sconosciute, che costituisce l’opera di Pico della Mirandola.

L’unica strada da percorrere — ed è stata quella che hanno imboccato i due autori — era quella di organizzarlo per argomenti, come una specie di dizionario, facendo seguire ai testi pichiani un loro commento. Detto questo, il lettore non deve scoraggiarsi. Tutt’altro. Sappia che leggerà pagine bellissime. Conoscerà l’ambrosia: il nettare divino che concede a chi lo assume la vita eterna. Saprà che non si può incontrare impunemente un dio, e che per questo motivo (per aver visto Pallade nuda) Tiresia divenne cieco (ma ebbe il dono della profezia). Saprà che anche Omero divenne cieco per aver chiesto, sul tumulo di Achille, che gli apparisse come era da vivo. Saprà che l’isola di Ogigia battuta dai flutti è l’isola delle fantasie e dei desideri terreni, mentre Penelope è l’approdo alla patria celeste. Saprà che Dio è avvolto nella caligine. Saprà che il bacio è la più perfetta copula fra gli amanti. Ma che esistono anche baci che superano il corpo, come i baci del Cantico dei Cantici . E che si può morire di baci. Purché si faccia molta attenzione nel non baciare chiunque: estranei che possano impedire la salita al Cielo.

Il Corriere della sera – 3 gennaio 2015

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