Eastwood, l’Iraq e la fine della storia
Note sulla guerra e il fuori campo
di Pietro Bianchi
È ancora possibile che il cinema sia
capace di stupirci? Che possa farci vedere un’immagine che non abbiamo
mai visto? È ancora possibile provocare il nostro sguardo e svegliarlo
da quella giungla di immagini di social network, serie televisive e
blablabla visivo dentro il quale pare essere intrappolati? Sono in molti
ormai a dire che il cinema abbia già detto tutto, abbia già fatto
vedere tutto: non c’è più nulla da inventare, solo da ripercorrere
quello che è già stato. E in effetti se pensiamo alla sua storia, è
dalla controrivoluzione conservatrice hollywoodiana che alla fine degli
anni Settanta ha spazzato via l’ultimo baluardo di innovazione
rappresentato dalla New Hollywood, che non esistono più movimenti
formali in grado di rivoluzionare nel profondo il linguaggio
cinematografico. È il destino beffardo di un’arte di cui si è sempre
dichiarata la gioventù e che invece pare essere improvvisamente
invecchiata, se è vero come dicono in tanti, che le nuove frontiere
tecnologiche degli smartphone e di Netflix ci stanno già portando verso
un mondo compiutamente post-cinematografico.
Diversi importanti e intelligenti critici cinematografici, tra gli altri Bruno Fornara di Cineforum,
ce lo ripetono spesso, e non senza ragioni: una volta che sono state
sperimentate tutte le possibilità del montaggio e dei movimenti della
macchina da presa è difficile pensare a delle grandi rivoluzioni
formali. Forse il cinema deve allora proprio mettersi il cuore in pace, e
riconoscere che la Storia con la maiuscola – quanto meno nel mondo del
visivo – è proprio finita, e che l’unica cosa che ci è rimasta da fare è
ricominciare a raccontare semplicemente delle storie (con la
minuscola)?
È questa ansia di fine della storia,
questa impossibilità di uscire dal già visto e dal già detto e questa
incapacità di riuscire ancora a stupirsi per un’immagine che Alejandro
González Iñárritu ci fa vedere in modo toccante e tuttavia lucido in Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza),
uno dei film più belli e intelligenti dello scorso anno (in uscita in
Italia il 5 febbraio). Ne parlava Roberto Manassero all’indomani della
premiere del film a Venezia[1]
sottolineando come il regista avesse voluto mettere nel film
“praticamente tutto ciò che rimanda all’universo della cultura
americana, Hollywood, Broadway, Carver, New York, il jazz, Twitter, i
supereroi, il metodo, il mito della seconda possibilità, la
disintossicazione, la fine degli amori, la rivalsa…”. Birdman è
infatti un film angosciato della progressiva sparizione di un fuori e
di un vuoto: non è un caso che lo vediamo dispiegarsi di fronte ai
nostri occhi nella forma di un lungo piano-sequenza. Quando tutto è già
stato detto ed è già stato visto è inutile operare una partizione o una
scelta nel flusso continuo del reale, perché tutto deve starci dentro,
dai film di supereroi a Twitter, da Broadway a Raymond Carver, da
Michael Bay al teatro, dal comico al tragico. Tutto è senza soluzione di
continuità: tutto deve essere tuttoattaccato. È pieno di momenti in Birdman
dove un personaggio dice qualcosa di estremamente drammatico e poi
subito dopo si corregge “no, ma scherzavo” (indistinzione comico-reale);
o in cui qualcuno si mette a provare delle battute per uno spettacolo e
poi quando entra in un’altra stanza lo vediamo direttamente alla serata
della prima, senza stacchi di montaggio (indistinzione
passato-presente). Ma se l’intero mondo del visivo si dispiega di fronte
ai nostri occhi lungo una linea continua, senza tempo e senza
differenza di registro, è davvero ancora possibile che un’immagine si stacchi
e si differenzi dalle altre? È ancora possibile che un’immagine possa
materializzare nel visivo un evento completamente nuovo e non la
ripetizione del già detto e del già visto?
Birdman ci parla di una delle
questioni politicamente più importanti oggi e che interrogano
direttamente il visivo contemporaneo: la scomparsa del fuori campo;
ovvero l’idea che la visibilità sia stata tutta definitivamente
appropriata dai nostri occhi; che tutto sia stato definitivamente
illuminato; che l’intero nostro mondo sia finalmente stato deprivato da
qualsivoglia zona d’ombra. Non ci parla forse di questo la continua
messa in discussione del confine tra pubblico e privato? Il fatto che
l’intimità di qualsivoglia personaggio pubblico venga data continuamente
in pasto all’occhio assoluto dell’informazione? Non sono forse i social
network l’esempio più eclatante di una visibilità assoluta, che non
mette più alcuna gerarchia d’importanza all’interno di quello che si
vede, ma che livella tutto su un medesimo registro dell’esperienza?
D’altra parte è solo attraverso la re-introduzione di una minima zona
d’ombra e di un minimo di invisibilità che quello che appartiene al
visivo potrebbe ritornare a essere distinto al suo interno, a dividere i luoghi del visibile per far sì che emergano delle immagini differenti.
E tuttavia quest’idea della scomparsa
definitiva del fuori campo rischia di essere una trappola, un’illusione
ideologica più che una vera e propria realtà. A guardar bene, è stato
infatti il cinema stesso negli ultimi anni a mostrarci come tra le
pieghe del visibile ci fosse qualcosa che veniva sistematicamente
lasciato fuori. Innanzitutto il mondo della produzione e del lavoro –
cioè, il capitalismo – che scomparso dal campo del visibile europeo e
nordamericano (e di conseguenza scomparso dal discorso pubblico) veniva
invece continuamente evocato nel cinema cinese contemporaneo di Jia
Zhang-Ke, di Wang Bing o di Zhao Liang, ovvero in una parte del mondo
dove quella scomparsa era tutt’altro che un dato di fatto. E poi
drammaticamente l’evento cardine degli anni duemila: la guerra in Iraq e
in Afghanistan, la cui opacità è finita solo per aumentare nel corso
degli anni.
È stato l’Iraq in effetti uno dei grandi
coni d’ombra della società americana recente: nessuna immagine di
prigionieri di guerra, nessuna narrazione soggettiva, nessuna
rappresentazione diretta di quella che è la sostanza di cui sono fatte
tutte le guerre, ovvero la morte. Non è un caso che due dei più grandi
scandali mediatici della guerra in Iraq fossero legati a due eventi
capaci di squarciare quest’opacità: le tristemente note foto delle
torture di Abu-Graib, e il meno noto scandalo delle foto delle bare
americane che tornavano dall’Iraq. Quest’ultimo alcuni se lo
ricorderanno: il Pentagono si impegnò a impedire che le foto delle bare
dei soldati morti in Iraq avvolte nella bandiera americana venissero in
alcun modo mostrate, fino a che un’impiegata (poi prontamente
licenziata) non passò illegalmente queste foto ad un giornale quando
alcune bare di soldati americani arrivarono nel più grande obitorio
militare, alla base aerea di Dover, nel Delaware. L’intenzione era
chiara: la guerra in Iraq non si deve vedere. Dobbiamo solo
sentirne parlare nella forma del bollettino delle news e della
propaganda bellica, ma non possiamo dare sostanza a questo evento. Non
possiamo far sì che l’Iraq si incarni in un’immagine (ad esempio non
dobbiamo mai e poi mai vedere il controcampo, ovvero gli iracheni).
E tuttavia, nonostante la sua natura strutturalmente ideologica, il cinema spesso è costretto a cercare le proprie immagini fuori dal campo del visibile nel quale siamo immersi. Inventandosi un visibile nuovo, che prima non esisteva. Appunto, fuori-campo.
Perché la gente bisogna farla andare al cinema e dunque bisogna essere
capaci di attrarre i loro sguardi e la loro attenzione. Il visibile sarà
pure l’eterna ripetizione del già detto e del già visto, ma per far sì
che i nostri occhi si posino proprio lì dove ci sono quegli schermi dei
cinema e degli smartphone è necessario farci illudere continuamente che
lì qualcosa di nuovo possa accadere (così che si possano spendere soldi
in biglietti, telefoni, abbonamenti Netflix, eccetera).
Il film americano paradigmatico in questo senso è stato Redacted di Brian De Palma: ovvero l’idea che la guerra in Iraq fosse già visibile
nell’eterno blablabla delle immagini presenti nel nostro campo visivo.
Bisognava solo andarla a scovare. Quelle storie di guerra erano già
diventate immagini, semplicemente si erano perse nei meandri dei nostri
social network, delle nostre e-mail, in storie che magari erano passate
distrattamente sui nostri televisori ma che la nostra bassa soglia
d’attenzione non aveva nemmeno considerato. Per vedere quello che era
già di fronte ai nostri occhi, bisognava montarlo diversamente.
Perché la visione non è un’esperienza immediata dei nostri sensi ma è
data da una mediazione linguistica, cioè da un montaggio. E in
effetti Brian De Palma fece proprio questo: un finto documentario dove
venivano messe una accanto all’altra diverse immagini di smartphone di
soldati, pezzi di news, telecamere a circuito chiuso, conversazioni su
Skype. Il suo era un atteggiamento in un certo senso rovesciato rispetto
a quello di Iñárritu: il visibile è davvero finito ed è già tutto
dispiegato di fronte ai nostri occhi, tuttavia noi non siamo più capaci
di vedere perché non abbiamo qualcuno ce lo monti nel mondo
giusto. E quello deve fare il cinema, mentre l’editing dei telegiornali
della CNN e di Foxnews sono pensati per non farci vedere le immagini che
noi potremmo già vedere.
Eppure poi ci sono state altre
operazioni in questo senso a Hollywood, che hanno tutte spostato un po’
più in là il confine ideologico della visibilità della guerra irakena.
Kathryn Bigelow con il suo splendido Zero Dark Thirty c’ha fatto vedere i dietro le quinte dei servizi segreti durante i lavori per la cattura di Bin Laden, mentre Homeland ha mostrato quello di cui questa guerra, al contrario del Vietnam sembrava essere priva: un prigioniero americano.[2] Ma dove sta American Sniper in tutto questo, l’ultimo grande film di Clint Eastwood?
Eastwood decide di non farci vedere il campo e il contro-campo della guerra, come aveva fatto con Flags of Our Fathers e Letters From Iwo Jima
e come forse qualcuno si sarebbe aspettato. In questo film infatti il
contro-campo degli irakeni, rappresentati nella maniera più aberrante e
manichea che uno si possa immaginare, non esiste. Eastwood però decide
di fare una cosa davvero straordinaria: ci mostra l’una accanto
all’altra, la realtà cruda della battaglia – quella dove vediamo i
soldati americani ammazzare a ripetizione donne e bambini – e
l’internità di un’ideologia, monomaniaca e ossessiva, come è stata
quella dell’America conservatrice, che la guerra ha deciso fino in fondo
di non volerla vedere nonostante abbia politicamente deciso in tutti i
modi di farla. Abbiamo in un certo senso nello stesso spettro del
visibile due contrari: l’ideologia bellicista più retriva e il suo
fuori-campo denegato.
American Sniper è la storia
vera di Chris Kyle, un cecchino dei corpi speciali della marina (i Navy
SEALs), che andò per ben quattro diverse missioni in Iraq dove si
calcola che abbia ucciso qualcosa come 250 persone (160 i morti
accertati del pentagono). Insignito di medaglie e onorificenze, fu
considerato uno dei migliori soldati del contingente americano in Medio
Oriente o, come si vanta candidamente lui stesso nel titolo della sua
autobiografia, the most lethal sniper in U.S. military history. Kyle è un personaggio a dir poco controverso: nel suo libro dice che in Iraq uccidere era fun
e di fronte all’accusa di aver ucciso dei civili confessa: “I don’t
shoot people with Koran, I’d like to, but I don’t” (non uccido gente con
il Corano, mi piacerebbe ma non lo faccio); o ammette assai
prosaicamente in un altro passaggio: “I couldn’t give a flying fuck
about the Iraqis. I hate the damn savages” (non me ne frega un beneamato
cazzo degli irakeni, li odio quei selvaggi). Millantatore comprovato
(perse una causa milionaria per diffamazione per aver falsamente
dichiarato nella sua autobiografia di avere preso a botte in un bar
l’ex-wrestler ed ex-governatore del Minnesota, oltre che veterano della
guerra in Vietnam, Jesse Ventura), Kyle è un tipo che si vanta di essere
stato ex-contractor a New Orleans nel post-Katrina (per capirci, quei
militari privati che andavano a sparare ai poveracci che rubavano nei
negozi nell’inferno dei giorni dopo l’uragano) o di aver ucciso due
persone che avevo tentato di rapinarlo nella sua macchina in Texas.
Con una biografia del genere non era
difficile mettere in luce le zone grigie della sua personalità, magari
con un bio-pic sfumato e problematico come Eastwood aveva già fatto con J. Edgar. Invece in American Sniper
vediamo un personaggio assolutamente monotòno: Chris Kyle è quello che
scopre una vocazione ferma, inscalfibile e confusamente biblica per la
“difesa del gregge di indifesi” da parte dei “lupi cattivi” e che decide
così, senza essere attraversato dal benché minimo dubbio, di andare in
Iraq dove lo vedremo per tutta la durata del film fare quello che un
soldato dell’esercito deve fare nella maniera più efficace possibile,
cioè eseguire degli ordini e farlo bene.
Attorno a lui però tutto il mondo pian
piano collassa ed è attraversato da dubbi: la moglie che non capisce la
sua attrazione per queste missioni e che lo vorrebbe vicino a lei a
casa; il fratello che all’inizio lo segue in Iraq ma che dopo poco tempo
quando lo incontra gli dice “fuck this place!” (per l’incredulità di
Kyle, che non riesce a capacitarsi che qualcuno non voglia difendere “il
gregge” dai “lupi”); e i sempre più numerosi veterani, sempre più
scossi, sempre più soli e sempre più incapaci di tornare a fare una vita
normale. American Sniper è allora tutto attraversato dal
tentativo di mettere l’una accanto all’altra queste due dimensioni della
guerra: quella vera, sporca di sangue e di polvere, che nel mondo
contemporaneo viene costantemente e volontariamente lasciata
fuori-campo; e quella che invece popola il nostro campo del visibile
nella forma di un’ideologia igienica e ipocrita. È quest’ultima la
guerra irakena che abbiamo conosciuto negli anni Duemila: senza storie,
senza sguardo soggettivo, senza (immagini di) morti né prigionieri. È la
guerra pulita e “umanitaria”, magari guidata da dei droni telecomandati
in qualche base militare lontana migliaia di chilometri, che dovrebbe
garantire di avere le campagne di conquista del Medio Oriente senza
spargere nemmeno una goccia di sangue. Ma il problema è che invece la
guerra a un certo punto qualcuno la deve pur fare, e che di solito si
tratta della working class americana, che non solo di sangue ne
finisce per versarne ben più di qualche goccia, ma che da questa guerra
non ci caverà fuori assolutamente nulla, se non una bara avvolta nella
bandiera americana.
Gli stacchi di montaggio di American Sniper,
brutalmente tagliati con l’accetta, ci danno il senso di come questi
due mondi siano lontani mille miglia. Non riescono nemmeno a parlarsi,
come vediamo in tutte le conversazioni con il telefono satellitare tra
Chris e Amy che finiscono sempre con un’interruzione improvvisa, come se
il riconoscimento tra i due non possa mai consumarsi. Uno di fronte
all’altra ci sono un America che non vuole sapere e vedere questa
guerra, e dei veterani menomati nel fisico o nella mente, incapaci di
ritornare a una vita normale. Il nostro campo ideologico del visibile la
verità della guerra non la vuole proprio vedere. E non c’è nemmeno
possibilità di mettere insieme i due mondi nell’unità del popolo
americano, se non nella forma bellissima e struggente del funerale
finale, che ovviamente non è un’unità, ma un lutto ex-post che riconosce
in una specie di sintesi negativa come questi due mondi non possano
strutturalmente fare Uno. È per questo che Eastwood non ci ha fatto
vedere la vita controversa e a luci e ombre di Chris Kyle: a lui non
interessa l’umanità del cecchino (uno dei personaggi meno “umani” che ci
sia capitato di vedere al cinema ultimamente) ma il fatto che Kyle
incarni l’unità impossibile di questi due mondi: si tratta di un uomo
che anche quando era in Iraq aveva la testa anestetizzata rispetto alla
realtà che aveva di fronte ai suoi occhi; e la sua ripetizione ossessiva
del “voglio proteggere i miei compagni” o “voglio proteggere l’America”
diventa sempre più subliminalmente psicotica man mano che procede il
film.
Ma se molti cinefili di sinistra in
Italia hanno difeso questo film in nome di un’analisi formale, è
interessare notare come in America sia accaduto l’opposto: la sinistra
americana sembra infatti incapace di digerire il fatto che Eastwood
abbia fatto un film così apertamente di destra. Bisognerebbe però forse
iniziare ad accettare il fatto che l’ideologia conservatrice, religiosa e
machista – per quanto insopportabile essa sia, e Dio solo sa quanto
nauseabonda e inqualificabile sia la destra americana – abbia ormai
egemonizzato nel profondo l’America blue-collar: quel popolo di
lavoratori, militari e veterani dell’America rurale che andranno a
vedere nelle multisale di provincia questo film e che come scrive il
Village Voice[3]
andranno a chiedere al film la domanda che tutto questo popolo si sta
chiedendo in tutti i modi da anni: ne è valsa davvero la pena di versare
il nostro sangue per questa guerra (sottinteso: questa guerra che tutti
i liberal e gli universitari snob di New York o San Francisco dicono
che è stata così brutta e terribile)? E vogliono sentirsi dire solo una
riposta: sì, lo è stata. E pure comprensibilmente.
Eastwood, che pur essendo di destra di
quella guerra è sempre stato un esplicito oppositore, non gli negherà la
risposta che cercano, perché si dimostra come sempre anche con questo
un film, un regista che approccia con un enorme rispetto il proprio
pubblico. Ma gliela darà nella forma che loro non si aspettano: tirando
fuori la guerra da quell’ideologia igienica e ipocrita di chi non ha
voluto sentirne la puzza di morte e non ha voluto vederne le immagini.
Gliela farà vedere con i veterani che soffrono di Stress Post-Traumatico
o che hanno perso un braccio o una gamba al fronte, e che pure
mantengono la dignità di chi continua a essere grato con chi in Iraq c’è
stato. Gliela farà vedere attraverso uno degli eventi più
incomprensibili e spaventosi di una guerra: una morte che viene data da
un proprio compagno e non dal nemico. E se non è un gesto di cinema
politico questo, allora non sappiamo davvero che cosa il cinema politico
possa essere oggi.
[1] http://www.cineforum.it/FocusesTexts/view/Birdman
[2] Devo questo spunto ad Andrea Bellavita, che ne parlò nella conferenza Schermi rovesciati. Lacan tra cinema e televisione, organizzata a Milano dalla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi il 27 Novembre 2013.
[3] http://www.villagevoice.com/2014-12-24/film/amerincan-sniper/full/
Articolo tratto da http://www.leparoleelecose.it/
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