Scoperto un anno fa, restaurato, emerge dagli archivi il filmato girato nel 1945 dal grande regista.
Paolo Mereghetti
La Shoah nelle immagini di Hitchcock
L’idea era quella di fare un documentario «didattico» che ricordasse ai tedeschi quello che volevano non vedere: gli orrori compiuti nei campi di concentramento. Un film «politico», come si sarebbe detto oggi. Ma eravamo nel 1945, la guerra era finita da pochissimo e l’alleato sovietico stava già diventando il nemico numero uno dell’Occidente: non si poteva caricare sulle spalle della Germania, almeno quella alleata di americani ed europei, un ulteriore senso di colpa.
E così, nonostante a
firmare quel documentario fosse stato chiamato Alfred Hitchcock, che
vi aveva lavorato per sei settimane, tra giugno e luglio del 1945,
il progetto era stato accantonato sine die e German Concentration
Camps Factual Survey («Un’indagine fattuale sui campi di
concentramento tedeschi», questo il titolo di lavorazione) fu
archiviato insieme ai materiali ancora non montati nei depositi
dell’Imperial War Museum di Londra, sotto la sigla F3080.
Alcune di quelle immagini erano poi state mostrate, oltre a quelle girate da altri registi che avevano accompagnato la marcia degli Alleati, come gli americani George Stevens e Samuel Fuller, ma le scene che Hitchcock aveva montato sono rimaste nascoste per settant’anni, finché André Singer — già produttore di Werner Herzog e regista in proprio — non ha ottenuto il permesso di lavorare sui materiali «F3080». Ne è uscito un documentario sconvolgente, che per la prima volta mostra il lavoro fatto da Hitch, accompagnato dalla voce narrante di Helena Bonham Carter e intitolato Night Will Fall («La notte scenderà», citazione dalla serie Doctor Who : «Demons run when a good man goes to war / Night will fall and drown the sun / When a good man goes to war»).
È andato in onda sulla rete franco-tedesca Arte martedì 13 (col titolo Images de la libération des camps ) e verrà programmato dall’inglese Channel 4 sabato 24 febbraio. Augurandoci che presto arrivi anche in Italia. Che cosa si vede nel documentario? Le immagini, in gran parte inedite, della liberazione di undici campi, tra cui di Bergen-Belsen, Dachau, Buchenwald, Ebensee, Mauthausen, Majdanek, filmate da quattro operatori militari: gli inglesi Mike Lewis e William Lawrie, l’americano Arthur Mainzen e il sovietico Aleksandr Vorontsos, intervistati da Singer insieme ad altri testimoni, sopravvissuti ai campi, e al pubblico ministero che parlò per l’accusa al processo di Norimberga.
Sfortunatamente non
esistono riprese dell’incontro, avvenuto all’inizio degli anni
Settanta, tra Hitchcock e il fondatore della Cinémathèque
française Henri Langlois, che però nelle sue memorie riporta
quello che gli aveva confidato il regista: «Alla fine della guerra,
ho fatto un film che doveva mostrare la realtà dei fatti avvenuti
nei campi di concentramento nazisti. Atroce. Era ancora più atroce
del peggior film d’orrore. Nessuno lo ha voluto vedere. Ma quel
film non mi ha più abbandonato».
Come mai proprio Hitchcock, che lavorava stabilmente a Hollywood dove aveva appena terminato Prigionieri dell’oceano e Io ti salverò era stato coinvolto in quel progetto? Il merito è tutto di Sidney Bernstein, co-fondatore nel 1925 della London Film Society, dove aveva stretto amicizia con il giovane Hitchcock, «infaticabile antifascista e militante contro l’antisionismo», collaboratore negli anni Trenta del ministero dell’Informazione e poi, nel 1954, tra i fondatori di Grenada Television.
Quando all’inizio del
1945 i primi campi sono liberati e le prime atroci immagini vengono
inviate a Londra, Bernstein convince la Divisione guerra psicologica
del Quartier generale delle forze di spedizione alleate a produrre
un film «destinato in maniera specifica ai tedeschi, che fosse la
prova inattaccabile delle loro atrocità». E Hitchcock accetta la
proposta dell’amico, pronto a sobbarcarsi un viaggio in nave dagli
Usa in Inghilterra dormendo — ha raccontato — «in un dormitorio
con altre trenta persone».
Segno che il lavoro lo interessava e infatti appena arrivato a Londra si mette al lavoro, insieme allo scrittore inglese Richard Crossman (che scrisse un primo trattamento) e al corrispondente di guerra australiano Colin Wills (che invece stese una vera e propria sceneggiatura). Hitchcock da parte sua dedicò quasi tutto il suo tempo a guardare i materiali che arrivavano dall’Europa, insieme al montatore Peter Tanner.
Il regista, forte della
sua esperienza cinematografica, cercava soprattutto le riprese in
continuo, le panoramiche, «perché nessuno potesse dire che quelle
immagini erano state manipolate per falsificare la realtà». Un
compito non facilissimo, visti i brevi caricatori delle cineprese
16mm in dotazione all’esercito, ma nel film di Singer ci sono
molti esempi di quello che Hitchcock aveva selezionato e affidato a
un primo montaggio.
Sono immagini
strazianti, difficili da sostenere anche a settant’anni di
distanza. E più ancora dei volti dei morti, scavati dalle piaghe e
dalla fame o maciullati dagli aguzzini, sconvolgono le scene in cui
i soldati tedeschi prigionieri sono costretti a caricare i corpi dei
morti, li trascinano e li gettano nelle fosse comuni, come se si
trattasse di manichini, perché i rischi delle epidemie (soprattutto
tifo) rischiavano di propagarsi e non lasciavano spazio né tempo
nemmeno per un po’ di pietà.
Poi, nell’agosto del ’45, le convenienze della politica fermarono il lavoro, Hitchcock tornò a Hollywood per girare Notorius - L’amante perduta e il materiale girato e in parte montato finì in uno scatolone dell’Imperial War Museum. È riemerso settant’anni dopo, con tutta la sua forza di sconvolgente testimonianza, a confermare quello che Bernstein andava continuamente ripetendo ai suoi collaboratori: «Un giorno capirete che tutto questo valeva la pena».
Il Corriere della sera –
15 gennaio 2015
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