Da sito http://www.nazioneindiana.com/2015/01/28/sciascitudine/ riprendiamo la recensione di un libro fresco di stampa:
Domenico Della Monica, Sciascia uomo solo. La vita e le battaglie civili di uno scrittore “scomodo”, Comunità Casa del Giovane, novembre 2014.
Sciascitudine
di Romano A. Fiocchi
Libro
anomalo. Autore un medico, da trent’anni appassionato di letteratura,
scrittore di saggi e di racconti alla Čechov, collaboratore di pagine
culturali, insomma uno di quelli che il nostro Effeffe
chiama “volontari della cultura”. Come editore, non un editore vero ma
semplicemente una comunità: quella della Casa del Giovane, dove si
recuperano ragazzi sbandati e si insegna loro un mestiere – fra cui,
appunto, stampare i libri. Eppure Sciascia uomo solo non è un libro da poco, basti dire che è stato presentato all’Archivio di Stato di Pavia insieme a Nicoletta Trotta del Fondo Manoscritti,
il mitico fondo creato da Maria Corti, da cui sono emerse ovviamente
anche lettere di Sciascia. Ma a tutto ciò l’autore sembra non dare
importanza: per Della Monica queste cento pagine (guarda caso cento
erano le pagine annue che scriveva quasi regolarmente Sciascia) sono
solo un modo per pagare il suo debito di lettore a un maestro di vita,
di scrittura, di nobiltà d’animo come non ce ne sono più. Sono cento
pagine che sanno sintetizzare con scorrevolezza di linguaggio chi era e
chi non era Leonardo Sciascia, i suoi rapporti con la politica, con i
preti, con la religione, il suo amore viscerale per la Sicilia e per
l’Italia, e i suoi libri, naturalmente: da quella Civetta, che lui non amava, sino A ciascuno il suo, a L’affaire Moro, al suo Candido, scritti come quasi tutti gli altri nella sua casa di Racalmuto.
Recensire
quello che di per sé è già la recensione di una vita non aggiungerebbe
nulla a quanto Domenico Della Monica ha già detto con parole ben
calibrate. Ecco allora la scelta di proporre qui di seguito le pagine di
introduzione, tra le più belle del libro. Pagine che racchiudono tutto
il rammarico per un’assenza. Quasi ci rendessimo conto dell’autentica
importanza di un bene solo quando l’abbiamo perso.
***
Da Sciascia uomo solo di Domenico Della Monica
Quella
voce che nell’aula del Parlamento e nelle pagine dei giornali si
scontrava aspramente nel giudizio sui rapporti tra Stato e Brigate Rosse
e sui cosiddetti “professionisti dell’antimafia” con giornali e
giornalisti famosi.
Era
stato l’ultimo degli intellettuali italiani “impegnati” a vestire con
onore questo aggettivo, dai primi anni Sessanta fino alla sua morte. Ci
manca quella voce che non era mai prevedibile, la voce di un uomo che
non stava né di qua né di là ma sempre a ridosso della ragione critica e
illuminista; un uomo che veniva dalla sinistra ma che era impietoso con
“i cretini di sinistra”, un uomo che ci ha insegnato a decrittare la
parola mafia ma di cui erano inesorabili le sferzate nei confronti dei
“professionisti dell’antimafia”.
È
morto prima di vedere Tangentopoli e Giulio Andreotti accusato di
essere in combutta con la mafia, e la consacrazione di Indro Montanelli
da parte dell’opinione pubblica di sinistra laddove, anni prima,
Sciascia era stato uno dei pochissimi a dirne bene. Non ha potuto vedere
il degrado e la crisi dei nostri partiti, travolti dagli scandali, ben
più squallidi e tristi di altri precedenti. Ci mancano le pagine che
avrebbe scritto Sciascia, eccome se ci mancano.
Delle
generazioni di intellettuali siciliani che hanno lasciato il loro
marchio sulla storia letteraria e civile del nostro paese, veniva dopo
Vitaliano Brancati, nato nel 1907, e dopo Elio Vittorini, nato nel 1908.
Era
quasi coetaneo di Gesualdo Bufalino, nato a Comiso nel 1920, di cui era
stato proprio Sciascia a scoprire e rivelare il talento.
Era
siciliano al cento per cento, sicilianissimo. Lui, così parco di
parole, sceglieva volentieri una parola siciliana a confidare un
giudizio o un’emozione agli amici più fidati. Aveva conosciuto e amato
Parigi ma anche la Spagna come nessun altro intellettuale italiano del
secondo dopoguerra, ma era in quella sua casa di campagna della “Noce”
che si ritirava a trovare il ritmo e l’arabesco di quelle cento pagine
annue che erano divenute il suo stemma narrativo. Era stato lui una
volta a ricordare una lettera di Blaise Pascal a un amico, dove Pascal
si scusava di avere scritto così tanto: di scrivere breve non aveva
trovato tempo.
Cento pagine o poco più. A cominciare da quel gioiello del 1956, Le parrocchie di Regalpetra, un libro che faceva i conti con il Neorealismo e li chiudeva. E poi i quattro magnifici racconti riuniti con il titolo Gli zii di Sicilia, i saggi dedicati a Luigi Pirandello e al pirandellismo, romanzi come Il contesto o Todo modo
che facevano da metafora di un’epoca della politica italiana. E poi
quei libri che si situavano a metà tra l’invenzione narrativa e
l’indagine poliziesca, e a farne da spunto era la morte di un geniale
fisico siciliano o il suicidio dello scrittore francese Raymond Roussel.
E poi quel libro-pamphlet che non è forse il suo più bello, L’affaire Moro
del 1978, ma certo quello che più facilmente torna alla memoria. E gli
innumerevoli atti d’amore alla sua Sicilia, talvolta quei libri nati
dalla sua collaborazione con Ferdinando Scianna, un siciliano di
Bagheria, tra i più noti fotografi italiani. E poi le collaborazioni ai
giornali, dal Mondo nuovo diretto da Lucio Libertini negli anni Sessanta alla Stampa degli anni Ottanta, passando per il Corriere della Sera.
Sulla
prima pagina del quotidiano milanese, si era alla metà degli anni
Ottanta, apparve un suo articolo il cui titolo e il cui contenuto gli
sarebbero stati rinfacciati per sempre: “I professionisti
dell’antimafia”. Questo articolo criticava in maniera severa un
magistrato siciliano che era stato promosso perché appariva
particolarmente meritevole nella “lotta alla mafia”. Quel magistrato si
chiamava Paolo Borsellino, anni dopo dilaniato da una bomba mafiosa.
Al
siciliano Sciascia non piacevano le consorterie, neppure quella dei
“professionisti dell’antimafia” che aveva tra i suoi esponenti anche il
sindaco di Palermo Orlando, un ex democristiano che aveva ottenuto
notevoli consensi con le sue denunce dei misfatti della mafia (ma
qualche magistrato palermitano ha avuto modo di raccontare che mai era
venuta dal sindaco un’informazione importante, una pista valida a
contrastare e combattere la mafia in concreto).
Agli
occhi di Sciascia i professionisti dell’antimafia erano retori che
sfruttavano a loro favore la rabbia sacrosanta dell’opinione pubblica
contro la “piovra”.
Il criterio polemico era giusto, ma il nome scelto (Borsellino) quanto di più sbagliato.
“Sono stato mal consigliato” confesserà più tardi Sciascia a Gianni Riotta.
Lo scrittore e Borsellino si incontrarono qualche anno dopo e Sciascia riconobbe di aver sbagliato.
Ho
sempre trovato ignobile che alla morte di Borsellino i nemici di
Sciascia abbiano potuto scrivere che quell’articolo abbia contribuito a
“isolare” Borsellino, quasi a rendere più agevole l’azione dei suoi
assassini. E dell’accanimento dei suoi nemici restano memorabili gli
interventi di Arlacchi in due numeri successivi di Repubblica.
Parole
non di critica ma quasi di insulto alla memoria di Sciascia, e che
suscitarono furibonde reazioni tra gli amici dello scrittore.
E
mi dispiace che il quotidiano romano (di cui sono assiduo lettore) fece
più volte da punta di diamante dello schieramento avverso a Sciascia.
Quest’ultimo e il direttore di Repubblica
avevano più volte incrociato le lame della polemica: dissapori nati nel
1978, al tempo del rapimento di Moro, quando Sciascia venne tacciato di
essere uno dei creatori dello slogan “Né con lo Stato né con le Brigate
Rosse”, ciò che non aveva mai scritto né pensato. Innumerevoli volte
smentirà che quello slogan gli appartenesse e lo condividesse.
Giudicava, questo sì, che la classe dirigente italiana del tempo di Moro
era moralmente indifendibile. E ognuno può essere d’accordo o meno con
questo giudizio.
Sciascia
era un uomo imprevedibile, come ogni spirito libero, al confine tra gli
schieramenti e le opposte verità. Era sempre stato di sinistra, ma
rinunciando alla sua vena liberale e libertaria; da intellettuale
siciliano celeberrimo i comunisti avrebbero voluto utilizzarlo come una
bandiera: riuscirono infatti a convincerlo nel 1975 a sedere in
consiglio comunale di Palermo nelle loro file: ma si trovarono ben
presto puntata in volto la sua lama polemica. E infatti l’esperienza
durò poco, pochissimo.
Da
antifascista, fu attratto dal destino di un intellettuale siciliano
fascistissimo, Telesio Interlandi. A lui avrebbe dedicato le consuete
cento pagine annue, se la morte non lo avesse fermato. La casa editrice
Sellerio ha lasciato bianco quello che avrebbe dovuto essere il numero
200 della collana “La Memoria”, il libro su Interlandi. Poco prima di
morire Sciascia consegnò a un suo amico, il giudice Enzo Vitale, i fogli
e gli appunti che aveva preparato, tanto ci teneva a che un giorno quel
libro venisse alla luce. Sciascia, uomo al confine tra due culture, era
incuriosito dal personaggio Interlandi: si chiedeva com’è che un
siciliano di talento avesse sconfinato nel reame dell’abiezione, quello
della predicazione antisemita. Ai suoi occhi era un indizio tra i tanti
di come i colori della vita siano chiaroscurali, di come ben poco sia
interamente nero o interamente bianco.
La
malattia era entrata da tempo nel suo sangue. Gli ultimi mesi furono
molto dolorosi: fu un suo amico siciliano a battere a macchina il testo
del suo ultimo libro Una storia semplice,
pubblicato postumo da Adelphi. A Ferdinando Scianna un paio di giorni
prima di morire confidò che vivere a quel modo non aveva più senso. Con
la sua morte scomparivano i mille tratti della sua umanità, perché
l’uomo Sciascia non era meno nobile dello scrittore, il suo cuore e la
sua mente erano una sola armoniosa macchina di conoscenza e di vita.
Spenti l’uno e l’altra, non ci resta che cercarli su uno scaffale. È il
solo conforto che rimane a noi che l’abbiamo tanto amato.
Ma non ci basta. Non mi basta.
Domenico Della Monica
Riprendo dal mio diario di facebook un commento pervenuto:
RispondiEliminaPiero Melati: Francesco, grazie del post. bellissimo. fa venire voglia di piantarla di scrivere su sciascia e lasciare tutto al prof. Una sola notazione: non furono cantori del post borsellino a contrapporre sciascia alla morte del giudice bensì lo stesso magistrato a citarlo nel discorso pubblico dopo capaci e prima di via d'amelio. il che rende la storia una tragedia greca, secondo me non liquidabile con il ricorrente "poi si chiarirono". cosa che piacerebbe al nostro cuore ma (sciascianamente) non rispetterebbe i fatti. ma questa è solo una mia opinione.
Francesco Virga: Caro Piero, c'ero anch' io nell' atrio della Biblioteca del Comune di Palermo ad ascoltare le ultime tragiche parole di Borsellino. Grazie per la cortese attenzione