29 gennaio 2015

DIO HA MOLTI NOMI




Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo ed ottimo; il quale non deve posser essere compreso; e però infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato, e per conseguenza inmobile.” Giordano Bruno


Massimo Nava

Per John Hick l’unico dio ha molti nomi


In tempi di profeti di sventure e previsioni dello scontro di civiltà, giunge a proposito il saggio di John Hick Dio ha molti nomi (Fazi, pp. 139, e 17,50), il grande teologo inglese, noto anche per posizioni controcorrente che suscitarono aspre critiche nelle gerarchie. È un libro profondo, ma di facile lettura, come se soluzioni a problemi immensi fossero alla portata di tutti, una volta sgombrato il campo dall’ignoranza, dal pregiudizio, dal fanatismo ideologico. Ed è un libro che andrebbe adottato nelle scuole e nei luoghi di preghiera di ogni confessione, soprattutto dopo la tragedia di Parigi.

Hick parte dalla constatazione che la realtà è cambiata, anche se molti fingono di non vedere o sognano impossibili ritorni al passato. La globalizzazione economica, l’immigrazione, l’integrazione europea e americana hanno messo a stretto contatto culture, esperienze spirituali e pratiche religiose che un tempo rimanevano distanti, circoscritte al proprio ambito d’influenza.

Oggi bambini di ogni razza e convinzione frequentano le stesse scuole, vivono negli stessi quartieri e i loro genitori fanno la spesa negli stessi negozi. Religioni poco conosciute, a volte minate da ostilità reciproca e pregiudizio, si trovano a convivere, mescolandosi al dibattito sulle radici della società, sull’identità collettiva, sulla diversità.

Dibattito senza via d’uscita, che alza la soglia dell’intolleranza ogni volta che le possibilità di confronto vengono ridotte o azzerate da fatti criminali, episodi di terrorismo, cronache dell’«invasione». E ogni volta che una provocazione intellettuale (è il caso del libro di Houellebecq) raggiunge più la pancia che il cervello dei lettori.

Fortemente influenzato dalla filosofia kantiana, Hick sostiene che sia possibile e auspicabile andare oltre la tolleranza e il dialogo fra le diverse fedi, per cogliere il senso ultimo di un’esperienza spirituale comune che superi millenni di dogmi. Allo stesso modo in cui l’universalità dei diritti umani dovrebbe conciliare culture e sistemi diversi, la teologia universale di Hick non pretende di annullare le diversità, bensì di togliere di mezzo le pretese superiorità di una religione sull’altra.

A ben vedere — secondo Hick — dovrebbe sembrare assurdo che il Dio «signore e creatore di tutte le cose» non sia lo stesso per tutti, al di là delle tradizioni diverse nel corso dei secoli. Così come dovrebbe suonare assurdo — anche per i cristiani — che l’unico Dio abbia poi favorito una sorta di gerarchia dell’umanità, per cui alcuni miliardi di fedeli sarebbero esclusi dal paradiso. Hick ricorda il Concilio di Firenze del 1438, in cui si sostenne che «né pagani, né ebrei, né eretici o scismatici parteciperanno alla vita eterna, ma andranno al fuoco eterno».

Da allora, la Chiesa ha fatto passi giganteschi verso il dialogo interreligioso, ma l’ultimo passo, quello decisivo secondo Hick, è una reinterpretazione delle Scritture in chiave moderna, distinguendo fra valori etici del messaggio e sovrastrutture della tradizione.

Un cammino immenso, che dovrebbe essere percorso anche dalle altre religioni, in grado di riconciliare gli uomini con la fede propria e degli altri, con la scienza e la tecnica, con l’insegnamento dei grandi maestri dell’umanità: Gesù, Maometto, Buddha, Mosè e i profeti. 

Il Corriere della sera – 28 gennaio 2015
 
 

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