L' attuale Ministro della Pubblica Istruzione
Premesso che non capisco cos' abbia da ridere il Ministro Giannini - a quanto pare, comunque, di questi tempi ridono soltanto Ministri e sottosegretari! - spero che legga anche Lei questo bel pezzo pubblicato dal sito http://www.leparoleelecose.it/
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Come scrivono al Ministero dell’Istruzione?
di Claudio Giunta
Il governo, il ministro dell’Istruzione,
i collaboratori del ministro, i funzionari del ministero decidono che
serve qualcuno che insegni agli insegnanti a insegnare meglio, perciò
stanziano una certa quantità di denaro per formare questi formatori: il
denaro verrà dato alle scuole (una per regione) che organizzeranno dei
corsi ad hoc, e da questi corsi verranno fuori dei «docenti
esperti» che poi dissemineranno la loro esperienza e le cognizioni
acquisite nelle scuole del territorio.
A mio parere non è una buona idea, anzi è un’idea pessima, ma non è di questo che parliamo adesso.
Presa la decisione, stanziato il denaro, restano da curare i dettagli: informare i media,
mettere la notizia sul sito del ministero, scrivere la circolare che
verrà mandata ai dirigenti scolastici. C’è un ufficio per tutto.
L’ufficio che s’incarica di scrivere la circolare deve intanto dare un titolo, un oggetto, al documento che sta per produrre. Potrebbe essere qualcosa come Formazione degli insegnanti-tutor, oppure Piano per la formazione di insegnanti che aiutino i colleghi ad insegnare meglio, o persino Piano per la formazione di personale docente che migliori la qualità dell’insegnamento nelle scuole.
È probabile che all’estensore del documento vengano subito in mente
formule del genere; ma con la stessa tempestività capisce che queste
formule non vanno bene. Ci pensa su un attimo, quindi scrive:
Piano di formazione del
personale docente volto ad acquisire competenze per l’attuazione di
interventi di miglioramento e adeguamento alle nuove esigenze
dell’offerta formativa.
Risolto il problema dell’oggetto,
l’estensore del documento non può passare subito all’informazione, alla
cosa che vuole comunicare, non può dire qualcosa come «il ministero ha
deciso che bisogna formare dei – diciamo – super-insegnanti che aiutino i
colleghi meno esperti (o più demotivati) a far bene il loro lavoro,
perciò ha stanziato la somma X, somma che verrà assegnata a scuole che
presentino dei buoni progetti di formazione e aggiornamento». Così è
troppo veloce, ci vuole il preambolo. Il preambolo dura circa una
pagina, e comincia così:
I mutamenti verificatisi
nell’ambito della società e nella scuola implicano che i docenti
acquisiscano e sviluppino con continuità nuove conoscenze e competenze.
Occorre perciò avviare e sostenere con apposite attività formative
processi di crescita dei livelli ed ambiti di competenza coerenti con un
profilo dinamico ed evolutivo della funzione professionale.
Si chiama coazione al dicolon,
ed è tipica dei temi in classe. Lo scolaro vorrebbe scrivere «Ci vuole
molta cura», ma è irresistibilmente portato a scrivere «Ci vuole molta
cura e molta attenzione»; vorrebbe limitarsi a dire che «Restano vari
problemi aperti», ma la coazione al dicolon lo trascina ad
aggiungere «e varie questioni irrisolte». Nelle cinque righe che ho
citato, queste zeppe si presentano con la frequenza di un tic nervoso:
«nell’ambito della società e nella scuola», «acquisiscano e sviluppino», «conoscenze e competenze», «avviare e sostenere», «processi ed ambiti», «dinamico ed
evolutivo». L’aggiunta di senso è minima, impercettibile, a volte nulla
(«dinamico ed evolutivo»); e a volte in realtà ad essere aggiunta è una
dose di nonsenso: il secondo periodo, da processi di crescita
in poi, è quasi incomprensibile, perché la sintassi è slabbrata e i
sostantivi astratti formano una nebulosa quasi impenetrabile: cosa sono i
«processi di crescita dei livelli»?
I preamboli sono sempre difficili. Il
documento migliora andando avanti, le cento righe successive sono meglio
di queste prime cinque? Veramente no. Ciò che si potrebbe dire
chiaramente in una parola continua ad essere detto confusamente in due o
in tre. Il dicolon regna sempre sovrano; spuntano qua e là aggettivi puramente decorativi («attivare a livello nazionale percorsi articolati di formazione in servizio…»), o pletorici («predisporre una trama di reciproca
cooperazione»); la nebulosa dei termini astratti si fa ancora più
fitta, la realtà arretra, gli studenti i banchi le lavagne svaniscono in
una calda luce crepuscolare («una base comune di competenza sulla
progettazione e sulla organizzazione degli interventi con l’acquisizione
di tecniche avanzate e metodi didattici che siano al tempo stesso
rigorosi, innovativi e coinvolgenti ed includa l’uso di strumenti
pratici indispensabili per gestire aule efficaci»), gli elenchi si fanno
onnicomprensivi e scriteriati: «[competenze] di grande importanza per
lo sviluppo dell’autonomia scolastica, l’arricchimento dell’offerta
formativa, l’efficienza di tutta una serie di servizi decisivi per la
scuola, gli studenti e le famiglie, la comunità di riferimento». Quando
salta fuori l’espressione tutta una serie, la patacca non è
lontana. E quando dallo sfondo indistinto dei possibili beneficiari si
stacca «la comunità di riferimento», potrebbe anche scorrere del sangue.
Che cos’è questo? Non è esattamente quello che si chiama burocratese.
Non è esattamente, come recita la definizione del vocabolario, «il
linguaggio scarsamente comprensibile che talvolta si usa nella pubblica
amministrazione». Nel documento ministeriale c’è anche il burocratese – per esempio:
Supportare i processi di
valutazione e farsi carico del monitoraggio della loro corretta
applicazione in base ai criteri definiti dal C.d.D.
anziché, parlando più chiaro:
Aiutare nella valutazione e controllare che essa sia in linea con i criteri stabiliti dal Collegio dei Docenti.
Queste – i «processi di valutazione» al posto delle «valutazioni», i «farsi carico del monitoraggio» invece di «verificare», le problematiche e le tematiche al posto dei problemi e dei temi
– queste sono bruttezze abituali, sciocchezze abituali, che ormai non
chiamano più l’attenzione: uno potrebbe persino dire che sono i ferri
del mestiere, un idioletto non più dissonante e arbitrario degli
idioletti di tanti altri ambiti professionali.
Non è neppure esattamente l’antilingua di cui ha parlato una volta Calvino. L’antilingua, secondo Calvino, era «l’italiano di chi non sa dire ho fatto ma deve dire ho effettuato»,
l’italiano del brigadiere dei carabinieri che, anziché scrivere così la
deposizione di un teste: «Stamattina presto andavo in cantina ad
accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la
cassa del carbone», la scrive così: «Il sottoscritto, essendosi recato
nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire
l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente
incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli,
situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento
del combustibile».
La lingua della circolare ministeriale
non è esattamente questo. Certo, anche qui c’è quella che Calvino
definiva «la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso
un significato, come se fiasco stufa carbone fossero parole oscene, come se andare trovare sapere indicassero azioni turpi». Ma la sostituzione di fiasco con prodotti vinicoli, di stufa con impianto termico, di carbone con combustibile,
per quanto idiota, non impediva di venire a capo, alla fine, di un
senso: ritradotto in un italiano ‘reale’, il messaggio passava.
Il messaggio della circolare ministeriale, invece, non passa. Non tanto perché la scuola viene chiamata servizio scolastico e la regione diventa l’ambito territoriale, quanto perché, nel suo insieme, la circolare ministeriale non sembra scritta in italiano,
o meglio perché le parole che contiene sono certamente italiane, ma i
rapporti tra le parole non sembrano produrre un senso compiuto: è come
se la pressione delle parole – che sono troppe, e troppo pesanti –
avesse fatto evaporare i nessi sintattici (che sono anche nessi logici).
Il risultato sono locuzioni senza senso come «processi di crescita dei
livelli» (‘tentativi di migliorare la qualità degli insegnanti’?), o
interi periodi che sembrano scritti estraendo a caso dal sacchetto delle
parole astratte, come
Reti di istituzioni scolastiche
ben organizzate, facendo ricorso ove possibile alle risorse interne,
favoriscono la valorizzazione delle specificità professionali presenti
nel territorio in funzione di supporto alle esigenze di rinnovamento e
arricchimento dei curricoli, di iniziative progettuali, di miglioramento
dell’azione educativa e dell’efficienza organizzativa del servizio
scolastico.
O come
La formazione degli insegnanti
contribuisce ad esempio, ad attuare significativi interventi nel campo
di un orientamento che guardi alle connotazioni delle professioni, che
possono trovare spazio con l’utilizzo delle quote di flessibilità
praticabili dalle scuole autonome.
Qui c’è tutto: la punteggiatura messa a caso (la virgola dopo esempio, ma non prima), gli aggettivi esornativi («significativi
interventi»), le perifrasi astruse (cosa sono mai le «connotazioni
delle professioni»?), i tecnicismi inutili («quote di flessibilità
praticabili»); quelli che mancano sono i nessi sintattici: a cosa si
riferisce il che di «che possono trovare spazio», agli
interventi, alle connotazioni o alle professioni? E cosa vuol dire che
gli interventi (o le connotazioni, o le professioni) «possono trovare
spazio con l’utilizzo»? Sarà ‘attraverso l’utilizzo’ (vulgo: ‘adoperando’)? Ma cosa vuol dire, comunque? E una «quota di flessibilità», qualsiasi cosa sia, si «pratica»?
Pare che una volta, mentre era negli
Stati Uniti, abbiano detto a Salvemini che stavano traducendo Vico in
inglese. E pare che Salvemini abbia risposto: «L’inglese è una lingua
onesta: di Vico non resterà niente». Intendendo – non importa se a
ragione o a torto – che Vico aveva idee fumose, e che l’inglese è invece
una lingua chiara e distinta, che le idee fumose le smaschera, le
dissolve.
Chissà se è vero. Chissà se esiste
davvero uno spirito delle lingue, che ne rende alcune oneste e altre
disoneste, o se invece le lingue non c’entrano, e l’onestà e la
disonestà stanno nella coscienza di chi le adopera. Ma l’etichetta è
trovata. Né burocratese né antilingua: quella della circolare del MIUR
del 27/11/2014 (prot. 0017436) è la lingua disonesta di chi non sa bene
che fare, non ha le idee chiare, non vuole assumersi le responsabilità
che gli competono (e che il discorso chiaro impone a chi lo
pronuncia), e lascia a chi deve leggere (e soprattutto: a chi deve
obbedire) il compito di decifrare, di leggere fra le righe, di
stiracchiare le parole e i concetti dalla parte che vuole, anzi di
interpretare le parole e i concetti come s’interpreta il Talmud,
cercando d’indovinare le intenzioni di un padrone invisibile e
capriccioso, che dice e non dice, che lascia agli altri il compito di
riempire con qualcosa lo spazio che lui ha lasciato vuoto non per liberalità ma per inabilità a parlar chiaro, ossia a decidere, e cioè per codardia.
La lingua disonesta. In un suo
saggio sull’educazione, Neil Postman sosteneva che la cosa davvero
importante era insegnare non tanto ad essere intelligenti, quanto a non
essere stupidi, e che quindi una buona didattica avrebbe dovuto mirare,
più che a riempire la testa degli studenti di buone idee e buone
abitudini, a togliere dalla testa degli studenti le idee e le abitudini
dimostrabilmente sbagliate o sciocche. Se questo è vero, un’ora di
lettura in classe della circolare MIUR del 27/11/2014, un’ora di lingua disonesta, potrebbe giovare più di un’ora di Manzoni, e certamente più di tante regole astratte su come si scrive e non si scrive.
(Nel frattempo, suggerirei al ministro
Giannini, che prima di essere ministro è una glottologa, di convocare la
Direttrice Generale del Ministero, dottoressa Maria Maddalena Novelli, e
di rileggere insieme a lei piano piano, parola per parola, solecismo
per solecismo, la circolare suddetta, che la dottoressa Novelli ha
firmato, così come l’hanno dovuta leggere tutti i dirigenti scolastici
d’Italia, una mattina della scorsa settimana).
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