Radici antiche di un rito benaugurale diventato
festa consumistica. Ma, come ci ricorda Eliade, il mito non muore mai
e riappare là dove meno lo si aspetta.
Claudio Corvino
Befana, la donna che vola nel cielo
Con la Befana si chiude il ciclo dei doni,
iniziato con la commemorazione dei defunti il 2 novembre, quando,
almeno in Sicilia, i bambini ricevono doni e dolcetti dai loro
parenti. Forse da qualche anno l’inizio di questa vorticosa
circolazione di doni sembra essere stata anticipata al 31 ottobre,
notte di Halloween, quando i bambini li «pretendono» con il loro
«trick or treat?», «dolcetto o scherzetto?», variante
abbreviata delle più ricche e fantasiose formule carnevalesche
italiane (di diffusione europea) che suonavano più o meno così:
«Racce ’no capo re sausicchio / e se no me lo vuoi rà, te
pozza nfracetà» o, ancora più crudelmente, «si niente ne
vuò dà, a l’anno chi bbene no puozzi arrivà!». Cioè si
augurava il marcire dei beni o addirittura la morte a chi non
ricambiasse il «dono» della visita dei bambini.
Regali, o più genericamente abbondanza e beni, vengono o venivano portati anche da altri santi personaggi, come san Martino (11 novembre), santa Caterina (25), san Nicola (6 dicembre) e santa Lucia (13) che, a bordo del suo asinello, ancora qualche settimana fa, attraversava le stradine di alcuni paesi del bresciano e del bergamasco. Senza dimenticare Babbo Natale, ovviamente.
Il nuovo inizio
Abbiamo ricordato questi santi, per sottolineare
un aspetto di questo tempo donatizio che talvolta viene
sottovalutato: non sono i personaggi citati che creano questa
circolazione di doni, ma è la circolazione dei doni che ha
creato loro. In altre parole, già prima della loro esistenza, o
magari della loro conversione al cristianesimo, in tutto il
periodo di fine autunno/inizio inverno durava un intenso scambio
di doni, che cominciava con le feste romane dei Saturnalia (dal 17
al 23 dicembre), quando, terminati i lavori agricoli, non si
poteva far altro che aspettare, sperare e pregare che i semi
sepolti sotto la neve facessero il loro dovere.
Freddo e neve che non sono punizioni divine, ma
frutto di un complesso episodio astronomico chiamato solstizio
d’inverno, durante il quale il sole diminuisce, come anche le
ore di luce che ci regala: è il freddo, il buio e soprattutto la
paura che il sole possa morire o esaurirsi, cui segue però
l’immancabile e rassicurante costatazione che da qui a poco le
giornate si allungheranno nuovamente e il sole scalderà di
nuovo. È la fine di un ciclo e l’inizio di un altro,
antropologicamente definito Capodanno, ovviamente non
etnocentricamente ristretto al primo gennaio.
Siamo allora in un periodo «di margine», in cui
il mondo deve essere rifondato e le relazioni umane ri-create, o
perlomeno rinsaldate. Allora alla terra addormentata sotto la neve
si donano offerte primiziali, affinché siano di buon augurio, e
agli uomini strenae (dalla dea romana Strenia), perché i doni
avvicinano gli uomini tra loro e al tempo stesso ristabiliscono i
ruoli gerarchici tra chi dona e chi riceve. Se c’è bisogno di
rifondare il tempo, a maggior ragione si dovrà rifondare anche
la società.
La Befana, tra i donatori citati, è certamente
la figura più complessa, multiforme, la meno contaminata dal
consumismo e inoltre rigorosamente e inequivocabilmente laica.
Vola nei cieli europei assumendo nomi differenti e tratti anche
familiari, ma inquietanti. In Veneto, fino a pochi decenni fa, si
credeva che la Redesola, una donna non battezzata costretta ad
errare per l’eternità, scendesse nelle case attraverso il
camino, ma solo dove questo era pulito. Nel Bellunese questo
mitico essere prende il nome di Redodesa e ha dodici figli, i
Redodesegòt. In alcune zone si crede ancora che al passaggio di
questa grande famiglia le acque dei fiumi si fermino, e che
chiunque si trovi nei paraggi corra il rischio di essere mangiato.
Nel Trevigiano le bambine disubbidienti potevano ritrovarsi le
forcine della Befana piantate nella carne, mentre la Giampa
Altoatesina si aggira ancora oggi furiosa nelle notti che
precedono il Natale con una mostruosa schiera di cani latranti e
di spettri. Nel Vicentino era detta stria, strega, e i bambini
nella notte a lei dedicata mettevano la paglia fuori dalle case
per il suo mussèto, l’asinello, nell’infantile illusione che
una permanenza più lunga avrebbe significato più regalini.
Dall’altro capo d’Italia, in Puglia, l’ambiguità di questa mitica donatrice si sdoppia, creando una Pasqua Befanì e una Morta Befanì, benevola la prima, terrificante la seconda: aveva con sé un libro in cui erano scritti i nomi di coloro che sarebbero morti entro l’anno. Queste temibili figure femminili volanti non furono una scoperta dei ricercatori di cose popolari dell’Ottocento, e già Anton Francesco Doni (1513-1574) nei suoi Marmi avvertiva i bambini di difendersi dalla Befana, che bucava le pance o «la notte de’ sei di gennajo, a quelli che non avean ben ben cenato, forasse il corpo collo stidione», aggiungeva Michelangelo Buonarroti (1568-1646).
Nel secolo seguente il filologo fiorentino
Domenico M. Manni scriveva: «(la Befana) abita di soppiatto nelle
gole de’ cammini: che ella va a zonzo magicamente in tal notte,
perché festa de’ Magi: che pregata lascia regaletti ad alcuni
putti nelle loro calze; ed altri nullameno ne cerca per forare
loro il corpo: ad evitare il qual male, il rimedio è trovato di
mangiar fave, lo che si usa tuttora da molte persone in quella
sera; siccome il porsi un mortaio sul corpo; ed il pregare buono
evento per via d’un’orazione apposta, detta Avemmaria della
Befana». Avemmaria ancora oggi conosciuta nelle zone toscane.
Ma, a questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi:
come nascono queste donne volanti? Se il suo nome la Befana lo
deve a un’evidente corruzione di Epiphàneia, «manifestazione»,
festeggiata il 6 gennaio e diffusasi in Occidente tra IV e V
secolo, la sua figura la ritroviamo già molto diffusa nell’età
di mezzo: l’Europa centrale conosceva Frau Holda, descritta da
Burcardo di Worms nell’XI secolo come colei che vola a cavallo
di «alcune bestie» in compagnia dei demoni e, stando a un tardo
processo di stregoneria, del 1630, bella come una fata se vista di
fronte, ma con una schiena ruvida come la corteccia di un albero.
Simile a lei era Perchta o Bertha, la sorprendentemente longeva
protagonista del nostro modo di dire «quando la Berta filava…».
Anche Frau Bertha deve il suo nome al giorno in cui la si
ricordava, la «luminosa notte», nell’antico tedesco giperhata
naht, in cui la stella cometa apparve.
Ancora, un importante inquisitore
quattrocentesco, Johann Nider, nel suo Formicarius riportava la
confessione di una donna che parlava di domina Perchta e del suo
rumorosissimo carro.
Domina abundia
Tali credenze si confondono e si fondono con
quelle nelle simili cavalcate di altre figure, generose e
malefiche, conosciute come bonae mulieres o bonae dominae di cui
è ricca la letteratura e di cui parla, forse un po’
confusamente anche Tacito nella Germania. Guglielmo d’Alvernia,
vescovo di Parigi morto nel 1249, raccontava nel suo De universo
di queste «buone donne» che visitavano le case e, trovandovi da
mangiare e da bere, elargivano «abbondanza e sazietà».
Da quest’abitudine, la donna che le guidava era
chiamata Domina Abundia o Satia. Lo stesso tipo di protobefana la
ritroviamo come Dame Abonde nel Roman de la rose o in uno scherzo
narrato negli exempla di Stefano di Bourbon, della metà del
Duecento: un gruppo di buontemponi travestiti da donne si
introdussero di notte nella casa di un contadino, saccheggiando
tutto quello che potevano.
Alle proteste della moglie, il contadino tentò
di tranquillizzarla spiegandole: «Stai zitta, e chiudi gli occhi.
Saremo ricchi, perché sono le bonae res e centuplicheranno le
nostre sostanze» (Unum accipe, centum redde). A queste,
bisognerà aggiungere almeno Erodiade, o domina Heordiana, che il
mito popolare confonde con la figlia Salomé, colei che chiese ad
Erode Antipa la testa di Giovanni Battista, come ricompensa del
suo danzare. Portata in un bacile dinanzi alla donna, una leggenda
medievale vuole che la testa cominciasse a soffiare sollevando in
alto Erodiade, che da allora è costretta a vagare rabbiosa e
senza posa nei cieli notturni.
Un carosello di nomi, quello accennato, che
turbinosamente volava la notte seguito da una moltitudine di anime
di donne, speculare a quello delle anime degli uomini, che
formavano il più virile exercitus mortuorum: soldati morti
anzitempo che avrebbero dovuto vagare, confusi e sofferenti, per
gli anni che gli sarebbero rimasti da vivere sulla terra se la
morte non fosse sopraggiunta. Era conosciuta anche come familia
Herlechini, l’antenato del nostro Arlecchino. Entrambe le masnade, quella femminile e quella
maschile, vennero considerate infernali e diaboliche quando verso
il XII secolo cominciò ad affermarsi il concetto di
Purgatorio.
Fu allora che queste anime furono tirate giù dai cieli notturni, per essere ridotte e segregate nel più ordinato Purgatorio. Coloro che resistettero si ritrovarono condannate ad essere considerate schiere demoniache o demoni esse stesse, oppure favole e spauracchi per bambini. In questa seconda forma, di babau e generose donatrici al tempo stesso, le ritroviamo ancor oggi nelle culture popolari e nei camini.
“il manifesto” del 4 gennaio 2014
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