Albero d'olivo secolare nella Valle dei templi di Agrigento. Foto di fv
Guido Ceronetti
L’olio
dimezzato nel Paese che dimentica
Un giorno, una quarantina
d’anni fa, d’estate, nello spazio di una grande azienda che
produce in generosa quantità olio extravergine d’olivo regionale
tipico italiano, in buona parte destinato all’esportazione, trovai
che tutti i bidoni che l’occupavano, scaricati là da uno o due
giorni, erano certificati come extravergine di provenienza
d’Andalusia. disposti a pagarlo qualunque prezzo, i clienti di
ristoranti di New York o di San Francisco, o dell’allora
Nomenklatura di Mosca, gli appassionati del vero olio italiano,
andalusi compresi, avrebbero gustato Olio garantito italiano
miscelato, se va bene, dai chimici della Ditta, al cinquanta per
cento. Nelle famiglie della stessa regione ti offrivano l’olio
incontestabile di loro produzione come gioielli della corona. Non fu
mai sovrabbondante l’olio d’oliva italiano. Quando finiva la
scorta bisognava aspettare la nuova annata.
Quasi mezza Italia, la
settentrionale, non ne produce che in Liguria — un resto, perché
oscenamente cementificata — e in qualche fazzoletto ad ulivi lo
suscita miracolosa la riviera, specie la orientale, del Garda, una
benedizione per le diete più leggere. In Liguria l’olivo più
invidiabile è il taggiasco. Quanti ettari saranno? Ma gli ettolitri
in commercio li trovi ovunque: tutto di taggiasco!
In queste annate di sciagura, l’olio extravergine italiano, già flagellato dal taglio degli uliveti e reso dubbio dalle miscelature crescenti, ha subìto il castigo da arca noachide dei diluvi alluvionali. Il raccolto del 2014 è stato come, nel secolo XIX, in Irlanda, la peste delle patate. Una perdita straziante, eppure... L’olio con cui si condisce di più la pasta il coltivatore privato, è esposto con tutte le garanzie di legge, senza una goccia persa, nelle scansie dei supermercati. Vuoi vedere che, non bastando più l’imbastardimento andaluso (e da un pezzo, ormai) l’extravergine dopo aver divorato l’olio del Maghreb, è arrivato a sgattigliare, sempre più italianato, l’imperturbabile, sempre pronta a fornire di tutto, Cina?
L’Italia anela a far zampillare petrolio (olio di pietra, la parola significa) mentre la sua gloria millenaria, più tenace di un muraglione d’acquedotto romano, l’Ulivo, grazie alla finissima sensibilità ecologica dei suoi petrolchimici governi, difende alla disperata i suoi spazi da cui è sparito il sole, su cui macabre nubi cariche pendono come drappi funebri mesi interi, stagioni intere, annate intere! E c’è ancora qualche regale metaforista che definisce “paese del sole” questa insozzata penisola? Ripizzicare il sole verso l’Appennino non sarebbe tanto facile; ripulire ambiente, tamponare il disastro ambientale, impegnarci il servizio civile volontario, soccorrere l’ulivo, sarebbe invece più che possibile se si avesse una percezione vera di quel che sia un insieme di priorità, etiche e materiali, non dilazionabili.
Alla fine del secolo scorso, un grande pensatore contemporaneo, il greco Cornelius Castoriadis scriveva questa semplice, lucida verità: “la questione dell’ambiente implica, evidentemente, la totalità della vita sociale. Dire che bisogna salvare l’ambiente è dire che bisogna cambiare radicalmente il modo di vivere della società tutta quanta, e rinuncia a questa sfrenata corsa ai consumi. E questo non è niente di meno che porre l’autentica Questione politica: l’insieme di problemi politici, psicologici, antropologici, filosofici che investono, in tutta la loro profondità, l’umanità contemporanea”.
Questi sono gli appelli da fare ai giovani, invece di insaccarli nel nulla arcinichilista della società tecnologica in vista di una economia senza l’uomo, contraria al genio della vita.
Esisteva in Toscana, non ricordo dove, fino a pochi anni fa, un ulivo piantato, si diceva, al tempo dell’imperatore Tiberio. Una notte, alcuni imbecilli vennero, lo segarono, lo bruciarono. Gli Dei della terra raccolsero e non dimenticarono il sangue dell’ulivo di Tiberio.
La repubblica - 5 gennaio 2015
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