Navigare come Ulisse verso il tramonto. Derek
Walcott (1930),originario di St. Lucia nelle Antille, Premio Nobel
per la Letteratura nel 1992, ha cantato le isole del Caribe come
metafora della condizione umana. Il vento largo della vita
riecheggia nei suo versi.
Walter
Siti
L'Itaca di Walcott è
un'isola caraibica
Se c'è un trauma contro
cui Walcott ha dovuto lottare per tutta la vita, è la propria
origine geografica: Saint Lucia, nelle Piccole Antille, è solo uno
dei grani di quella collana di isole che si inarca da Portorico fino
alla costa sudamericana.
Senza una vera identità
culturale che non derivi dalla colonizzazione, passata di mano
quattordici volte tra Francia e Inghilterra prima del definitivo
dominio inglese (ancora oggi nello stemma conserva il giglio di
Francia insieme alla rosa dei Tudor), selvatica e montuosa, dotata di
un patois creolo senza ambizioni letterarie, rappresenta uno di quei
luoghi da cui uno scrittore non può che emigrare; ma è anche l'eden
da cui è duro staccarsi, la natura prima che Adamo la nominasse, la
sinfonia d'acqua luce e colori che regala un imprinting indelebile
tra rimpianto, tenerezza e complesso di inferiorità.
La luce, prima di tutto
(Lucia è nome di luce, anche nel motto della loro bandiera oltre che
in Dante); una luce così pastosa e solida che la vela inclinata
sembra appoggiarvisi — stanca di peregrinare tra troppe isole. Si
presuppone un tramonto, un navigante che rientra; i pescatori
tornavano a sera, quando Walcott era piccolo, ed era un passaggio
pericoloso tra gli scogli; "più ci si avvicinava a casa",
scrive nel poema Omeros, "più crescevano le paure/e i pescatori
lo temono proprio come Ulisse/ finché non vedono lampeggiare l'unico
occhio del faro".
La nostalgia (intesa alla
greca come desiderio del "nòstos" cioè del ritorno)
appartiene anche a lui, ogni volta che si trova all'estero per
studiare o insegnare; l'archetipo mitico non può essere che Ulisse/
Odisseo — e le isole caraibiche si duplicano nell'identità
letteraria delle isole egee.
In tutta l'opera di
Walcott agisce questo meccanismo di traduzione, o nobilitazione: ogni
forma naturale, o persona, della sua isola senza storia viene
paragonata a un elemento della grande cultura europea — i poemi
omerici prima di tutto ma anche la Bibbia, e Dante e Shakespeare e la
pittura del Rinascimento. È una specie di esotismo all'incontrario,
che attira in periferia le figure del Centro.
Quel che lo affascina è
l'impasto tra vitalità selvaggia e raffinatezza, tra l'Africa nera
dei suoi antenati e la Grecia classica; il sangue vergine può
rinforzare l'esausta Europa, mentre la maturità della cultura
europea può educare le nature troppo semplici ("i nostri miti
sono ignoranza, i loro letteratura").
Un esempio di
integrazione come piace a noi del Primo Mondo, che per questo nel
1992 gli abbiamo conferito il Nobel; un riconoscimento della nostra
supremazia, sia pure con qualche perdonabile scatto d'orgoglio
("questo non è l'Egeo viola-uva,/ non c'è vino qui, né
formaggio, le mandorle sono verdi,/ le uve di mare aspre, la lingua è
quella degli schiavi"; "il progresso è la barzelletta
sporca della Storia").
L'uva di mare (nome
comune della Coccoloba uvifera ) è un arbusto tropicale che dà
bacche acidule di color rosso scuro, simili agli acini d'uva o alle
olive. Perfetto esempio di condensazione: selvatico quanto basta ma
anche allusivo di mediterraneità classica (gli olivi, appunto, e il
"mare colore del vino" di omerica memoria).
Sotto i suoi stenti
grappoli l'anonimo padre e marito sente nell'onomatopeico grido dei
gabbiani il nome di Nausicaa; la profondità dell'amore familiare non
esclude l'avventura erotica, con forzatura libertina del casto
episodio odisseico. Walcott in genere è poeta epico e visivo ma qui
si avvicina alla psicologia drammatica e romanzesca: la guerra tra
ossessione e responsabilità significa ammettere in se stessi una
duplicità non sanabile — la duplicità è un altro tema di Walcott
(nato gemello): due sono i picchi montani della sua isola, due le
lingue che parla e usa nei testi, doppio il cammino di conoscenza che
impone a se stesso ("ci sono due viaggi/ in ogni odissea, uno
sulle acque agitate,/ l'altro accovacciato e immobile nel silenzio").
Il dissidio non ha
soluzione se non poetica: con un volo pindarico il pellegrino dei
mari e l'umile pescatore caraibico sono ricondotti alla vicenda
leggendaria, dall'incendio di Troia all'episodio di Polifemo — e
dal masso che il gigante scaglia nasce un'onda (fatta di esametri, di
cui uno viene mimato al v.17) che attraverso chilometri e secoli
viene a spegnersi sulla battigia di Saint Lucia. Lì cultura e natura
arrivano alla sola possibile conclusione: la cultura serve a
temperare le ossessioni più crude ma la vita proporrà sempre nuove
spine.
L'isola di Saint Lucia è
stata contesa storicamente come Elena lo fu a Troia; l'unico occhio
di Polifemo è anche l'occhio del faro di cui si parla in Omeros ("
il faro cieco/ si soffermò come un gigante, una nuvola di marmo
nelle mani,/ per scagliare il suo macigno/…/ poi un pescatore negro
alzò la vela di sacco/ e scandì il primo verso del nostro epico
orizzonte").
Rete sotterranea di
metafore, coerenze forse celate al loro stesso autore; che in un
tessuto metrico libero ma fitto di echi ("name/same/flame"
rimati in tre terzine successive, e anche "war/shore", poi
le rime visive "home/come" "trough/enough",
lamezza-rima "islands/husband's") sa chiudere intere una
coscienza, un'antropologia, una storia.
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