Abbiamo visto e ammirato il Meraviglioso Boccaccio dei
fratelli Taviani e ne abbiamo già parlato. Oggi riprendiamo da http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/ questa
bella ricerca sulla fortuna del Decamerone
nel cinema italiano.
Maraviglioso Boccaccio, recente opera
cinematografica degli ottuagenari fratelli Taviani, ha riportato l’attenzione
sulle tante trasposizioni cinematografiche di cui il Decameron di
Boccaccio è stato oggetto nel Novecento. La loro quantità si spiega proprio
per le suggestioni della complessa architettura strutturale della raccolta, una
sorta di “ Commedia” laica e terrena, che, dentro una ben precisa
cornice, accoglie il vasto campionario di cento storie, varie per impianto
(comico, tragico, patetico o avventuroso) e per temi, dall’amore alla fortuna,
dalla morte all’eros. Tante pellicole, dunque, tra le quali spicca come
immancabile termine di paragone il film Decameron girato da
Pasolini nel 1971, quale primo episodio della cosiddetta Trilogia della
vita, poi proseguita con I racconti di Canterbury (1972) e
completata da Il fiore delle Mille e una notte (1974).
Erika Bettin, sul magazine on line degli studenti dell’Università di Padova (www.ilvivipadova.it), ricostruisce in modo agile ma documentato la storia di questo filone cinematografico “boccacciano” di cui vale la pena scorrere i diversi momenti e contesti, dal film d’autore a quello dichiaratamente commerciale e di consumo. Una ricognizione interessante che è stata ripresa anche dal sito www.padovanews.it e che qui pubblichiamo, con qualche taglio. Di seguito, un ulteriore contributo di Gianfranco Bogliari dell’Università per stranieri di Perugia, che con vasta completezza indaga l’intrigante fenomeno, il quale costituisce un capitolo anche della “fortuna” critica del capolavoro narrativo di Boccaccio.
Erika Bettin, sul magazine on line degli studenti dell’Università di Padova (www.ilvivipadova.it), ricostruisce in modo agile ma documentato la storia di questo filone cinematografico “boccacciano” di cui vale la pena scorrere i diversi momenti e contesti, dal film d’autore a quello dichiaratamente commerciale e di consumo. Una ricognizione interessante che è stata ripresa anche dal sito www.padovanews.it e che qui pubblichiamo, con qualche taglio. Di seguito, un ulteriore contributo di Gianfranco Bogliari dell’Università per stranieri di Perugia, che con vasta completezza indaga l’intrigante fenomeno, il quale costituisce un capitolo anche della “fortuna” critica del capolavoro narrativo di Boccaccio.
Micro-storia di un “genere” boccacciano di cinema
di Erika Bettin
di Erika Bettin
www.padovanews.it – 28 febbraio 2015
[…] La struttura del Decameron ben si
presta alla trasposizione cinematografica, ma quello che non si aspettava il
Boccaccio, di certo, è di essere uno degli autori più citati al cinema.
Gli ottuagenari fratelli Taviani sono gli ultimi in ordine di tempo a parlare del Decameron, tornando al cinema, dopo tre anni da Cesare deve morire, con Maraviglioso Boccaccio. Molto fedele all’opera del Boccaccio, il film ruota attorno a cinque novelle: la novella sull’amore tra Ghismunda e Guiscardo osteggiato dal padre di lei, il duca Tancredi, Federigo degli Alberighi, la novella di Calandrino, la badessa e le brache del prete e la novella di Messer Gentil de’ Carisendi e Monna Catalina. I fratelli Taviani mantengono intatti i loro caratteri cinematografici, dirigendo una pellicola”’dipinta” con un magistrale uso della camera e, nonostante il loro essere fuori generazione, hanno un occhio di riguardo verso i giovani e i tempi difficili che stanno vivendo ora.
Gli ottuagenari fratelli Taviani sono gli ultimi in ordine di tempo a parlare del Decameron, tornando al cinema, dopo tre anni da Cesare deve morire, con Maraviglioso Boccaccio. Molto fedele all’opera del Boccaccio, il film ruota attorno a cinque novelle: la novella sull’amore tra Ghismunda e Guiscardo osteggiato dal padre di lei, il duca Tancredi, Federigo degli Alberighi, la novella di Calandrino, la badessa e le brache del prete e la novella di Messer Gentil de’ Carisendi e Monna Catalina. I fratelli Taviani mantengono intatti i loro caratteri cinematografici, dirigendo una pellicola”’dipinta” con un magistrale uso della camera e, nonostante il loro essere fuori generazione, hanno un occhio di riguardo verso i giovani e i tempi difficili che stanno vivendo ora.
“Maraviglioso
Boccaccio” dei fratelli Taviani (2015)
Il film dei
fratelli Taviani è solo l’ultimo titolo di una lunga serie. L’opera del Boccaccio
al cinema non è legata a uno specifico genere o momento storico della
produzione, ma si presta a molte letture e punti di vista. Il primo a citare il
Boccaccio è Il decamerone di Gennaro Righelli del 1912 che
sviluppa solo tre storie: Andreuccio da Perugia, il conte di Anguersa e il
palafreniere e la principessa. Negli anni Quaranta, in piena era fascista, il
cinema d’autore andò scomparendo a favore della propaganda, e dunque quasi
inosservato passò Boccaccio di Marcello Albani.
Decameron Nights – Le notti del Decamerone di Hugo Fregonese spostò poi l’azione in Spagna e fuse alcune novelle con la vita del Boccaccio e il suo amore per Fiammetta, con una giovane Joan Collins nel ruolo di Pampinea.
Il Decameron più famoso è senza dubbio quello di Pier Paolo Pasolini. Il regista stava vivendo un periodo di cambiamenti e di ricerca, quindi la sua opera ne risentì molto, creando scandalo per alcune scene di nudo e per i temi trattati. Pasolini ambientò il suo Decameron a Napoli, perché, a suo dire, quella era l’unica città che non era stata corrotta dai cambiamenti storico-sociali, ma aveva mantenuto intatta la sua identità vitale e popolare. Le novelle citate sono quelle di Andreuccio, Masetto, Peronella, l’episodio “dell’usignolo”, Lisabetta, Gemmata, Tingoccio e Meuccio con due novelle, quella di Ser Ciappelletto e infine, a fare da cornice alle altre, di un allievo di Giotto.
Pasolini è stato sempre un autore controverso, ma molto amato in Italia, e il suo Decameron lanciò negli anni Settanta il filone decamerotico. Dell’opera letteraria non rimase molto, ma i film entrarono nell’immaginario collettivo grazie a dei titoli evocativi (Una cavalla tutta nuda, Decameron proibitissimo (Boccaccio mio statte zitto), Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno e Quel gran pezzo dell’ Ubalda tutta nuda e tutta calda) e alle sensuali e provocanti attrici che vi parteciparono, come Barbara Bouchet e Edwige Fenech. Già verso il 1975 la spinta narrativa di questo filone si esaurì, specialmente a causa del numero eccessivo dei film in sala e della deriva volgare e della ripetitività delle situazioni narrative.
Vale la pena di menzionare anche due titoli che si collocano al di fuori della produzione nazionale. Il cuore del tiranno. Boccaccio in Ungheria di Miklós Jancsó, girato in Ungheria nel 1981, racconta la storia di una troupe di attori che cerca di mettere in scena una novella di Boccaccio. Tra gli interpreti troviamo anche Ninetto Davoli, che aveva recitato anche nel Decameron di Pasolini.
Una delle ultime trasposizioni è Decameron pie di David Leland nel 2007. Il titolo, che nella versione originale è Virgin Territory, richiama il filone di American pie. Decisamente una trasposizione imbarazzante e prodotta per non meglio precisati motivi. Negli Stati Uniti è uscito solo in Dvd, mentre in Italia ha avuto una distribuzione nelle sale a causa degli attori del bel paese presenti, come Anna Galiena ed Elisabetta Canalis.
Decameron Nights – Le notti del Decamerone di Hugo Fregonese spostò poi l’azione in Spagna e fuse alcune novelle con la vita del Boccaccio e il suo amore per Fiammetta, con una giovane Joan Collins nel ruolo di Pampinea.
Il Decameron più famoso è senza dubbio quello di Pier Paolo Pasolini. Il regista stava vivendo un periodo di cambiamenti e di ricerca, quindi la sua opera ne risentì molto, creando scandalo per alcune scene di nudo e per i temi trattati. Pasolini ambientò il suo Decameron a Napoli, perché, a suo dire, quella era l’unica città che non era stata corrotta dai cambiamenti storico-sociali, ma aveva mantenuto intatta la sua identità vitale e popolare. Le novelle citate sono quelle di Andreuccio, Masetto, Peronella, l’episodio “dell’usignolo”, Lisabetta, Gemmata, Tingoccio e Meuccio con due novelle, quella di Ser Ciappelletto e infine, a fare da cornice alle altre, di un allievo di Giotto.
Pasolini è stato sempre un autore controverso, ma molto amato in Italia, e il suo Decameron lanciò negli anni Settanta il filone decamerotico. Dell’opera letteraria non rimase molto, ma i film entrarono nell’immaginario collettivo grazie a dei titoli evocativi (Una cavalla tutta nuda, Decameron proibitissimo (Boccaccio mio statte zitto), Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno e Quel gran pezzo dell’ Ubalda tutta nuda e tutta calda) e alle sensuali e provocanti attrici che vi parteciparono, come Barbara Bouchet e Edwige Fenech. Già verso il 1975 la spinta narrativa di questo filone si esaurì, specialmente a causa del numero eccessivo dei film in sala e della deriva volgare e della ripetitività delle situazioni narrative.
Vale la pena di menzionare anche due titoli che si collocano al di fuori della produzione nazionale. Il cuore del tiranno. Boccaccio in Ungheria di Miklós Jancsó, girato in Ungheria nel 1981, racconta la storia di una troupe di attori che cerca di mettere in scena una novella di Boccaccio. Tra gli interpreti troviamo anche Ninetto Davoli, che aveva recitato anche nel Decameron di Pasolini.
Una delle ultime trasposizioni è Decameron pie di David Leland nel 2007. Il titolo, che nella versione originale è Virgin Territory, richiama il filone di American pie. Decisamente una trasposizione imbarazzante e prodotta per non meglio precisati motivi. Negli Stati Uniti è uscito solo in Dvd, mentre in Italia ha avuto una distribuzione nelle sale a causa degli attori del bel paese presenti, come Anna Galiena ed Elisabetta Canalis.
Il
“Decameron” al cinema. Un’opera all’origine di tanti film
di Gianfranco Bogliari
Università per stranieri di Perugia
di Gianfranco Bogliari
Università per stranieri di Perugia
http://altritaliani.net
– 11 dicembre 2013
Boccaccio
700. «Quale altro libro può vantare di essere stato all’origine di così tanti
film? Addirittura di un sottogenere, il cosiddetto “decamerotico”? Nessuno,
nemmeno Le mille e una notte. Nessun libro è così “cinematografico”
come il Decamerone…. E che la sua fortuna non sia solo legata a una
stagione piuttosto scollacciata della nostra produzione nazionale… lo dimostra
il fatto che i primi film ispirati al capolavoro di Boccaccio risalgono al
cinema muto» [P. Mereghetti, “Corriere della Sera”, 3 novembre 2003].
“Boccaccio”
di Marcello Albani (1940)
«Non è di
Pasolini, certo, il primo film dedicato a Boccaccio e alle sue novelle. Gia nel
1910 Enrico Guazzoni – che diventerà famoso in Europa e negli Stati Uniti per
il suo kolossal Quo vadis? del 1913 – aveva girato un Andreuccio
da Perugia dalla durata di poco meno di dieci minuti. Sarà seguito nel
1912 da Gennaro Righelli – regista del primo film sonoro italiano, La
canzone dell’amore,1930, tratto da Pirandello, autore che Righelli portò
altre volte sullo schermo: ricordiamo Il viaggio,1921, e Pensaci,
Giacomino!, 1936, protagonista Angelo Musco, primo interprete della
commedia pirandelliana – con Decamerone, tre episodi che
comprendono ancora Andreuccio da Perugia assieme alle novelle del Conte
d’Anguersa e del palafreniere del re Agilulfo. Una curiosità è il Boccaccio austriaco
del 1920, firmato da un regista ungherese di nome Mihaly Kertész, che in
seguito sarà universalmente conosciuto come Michael Curtiz, autore del
mitico Casablanca. Il film è una versione dell’operetta omonima di
Franz von Suppé (1879), che immagina la vita di Boccaccio mescolata alle
avventure delle sue novelle. Le musiche di Suppé fanno da accompagnamento al
film muto.
Sempre nell’ambito del cinema muto citiamo Il Decamerone (1921) con Manlio Mannozzi – attore di un certo rilievo se lo ritroviamo anche nei Promessi sposi di Camerini (1941) e in Riso amaro di De Santis (1948) – e Claudia Pawlova, fotografia di Sandro Bianchini. Non si hanno notizie sul regista.
Ancora von Suppé nel 1940 in un Boccaccio di Marcello Albani, che attesta la scarsa attenzione del cinema fascista per l’autore certaldese («fiacca trasposizione di un’operetta polverosa», lo giudica Morandini), pur vantando un cast di tutto rispetto: ricordiamo Luigi Almirante e Osvaldo Valenti, ma soprattutto Clara Calamai, che di lì a poco acquisterà fama imperitura per la sua apparizione a seno nudo nella Cena delle beffe di Blasetti (1941). Arriviamo al 1953 con Decameron Nights – Notti del Decamerone, del regista argentino Hugo Fregonese, dove la coppia formata da Louis Jourdan e Joan Fontaine, oltre che interpretare i ruoli di Boccaccio e Fiammetta, è anche protagonista delle tre novelle d’amore che vengono raccontate, liberamente tratte dalle storie di Paganino da Monaco e Bartolomea, di Bernabò da Genova, di Giletta di Nerbona e Beltramo di Rossiglione; interpreta Pampinea una ventenne Joan Collins. Girato in Spagna (Alhambra di Granada, Andalusia…), il film è un parziale remake di Decameron nights del 1924 diretto da Herbert Wilcox, produzione anglo/tedesca – Regno Unito e Repubblica di Weimar – con Lionel Barrymore nel ruolo di Saladino.
Mario Monicelli affermò che Pasolini non avrebbe pensato né realizzato Il Decameron se non ci fosse stata nel 1966 la sua Armata Brancaleone, e l’opinione del grande regista dei Soliti ignoti si può anche accettare, ma integrata da alcune osservazioni.
Sempre nell’ambito del cinema muto citiamo Il Decamerone (1921) con Manlio Mannozzi – attore di un certo rilievo se lo ritroviamo anche nei Promessi sposi di Camerini (1941) e in Riso amaro di De Santis (1948) – e Claudia Pawlova, fotografia di Sandro Bianchini. Non si hanno notizie sul regista.
Ancora von Suppé nel 1940 in un Boccaccio di Marcello Albani, che attesta la scarsa attenzione del cinema fascista per l’autore certaldese («fiacca trasposizione di un’operetta polverosa», lo giudica Morandini), pur vantando un cast di tutto rispetto: ricordiamo Luigi Almirante e Osvaldo Valenti, ma soprattutto Clara Calamai, che di lì a poco acquisterà fama imperitura per la sua apparizione a seno nudo nella Cena delle beffe di Blasetti (1941). Arriviamo al 1953 con Decameron Nights – Notti del Decamerone, del regista argentino Hugo Fregonese, dove la coppia formata da Louis Jourdan e Joan Fontaine, oltre che interpretare i ruoli di Boccaccio e Fiammetta, è anche protagonista delle tre novelle d’amore che vengono raccontate, liberamente tratte dalle storie di Paganino da Monaco e Bartolomea, di Bernabò da Genova, di Giletta di Nerbona e Beltramo di Rossiglione; interpreta Pampinea una ventenne Joan Collins. Girato in Spagna (Alhambra di Granada, Andalusia…), il film è un parziale remake di Decameron nights del 1924 diretto da Herbert Wilcox, produzione anglo/tedesca – Regno Unito e Repubblica di Weimar – con Lionel Barrymore nel ruolo di Saladino.
Mario Monicelli affermò che Pasolini non avrebbe pensato né realizzato Il Decameron se non ci fosse stata nel 1966 la sua Armata Brancaleone, e l’opinione del grande regista dei Soliti ignoti si può anche accettare, ma integrata da alcune osservazioni.
“Le
piacevoli notti” di Armando Crispino e Luciano Lucignani (1966)
La prima è
che sempre nel 1966 era uscito Le piacevoli notti di Armando
Crispino e Luciano Lucignani, dalla raccolta omonima dello scrittore
cinquecentesco Giovan Francesco Straparola e con un cast spettacolare: Vittorio
Gassman, Gina Lollobrigida, Ugo Tognazzi. Senza dimenticare Maria Grazia
Buccella, dall’avvenenza generosa che anticipa quella delle colleghe più
disinvolte, e discinte, del filone “decamerotico” degli anni Settanta.
Nel 1965 Alberto Lattuada aveva inoltre girato, negli splendidi scenari di Urbino, La mandragola, elegante versione del capolavoro di Machiavelli giocata su un registro di raffinato erotismo grazie alla bellezza di Rosanna Schiaffino; e di un grottesco di alta classe grazie alla bravura di Romolo Valli nei panni di messer Nicia e di Totò, indimenticabile fra’ Timoteo. Questi e altri titoli (si potrebbe almeno citare La bisbetica domata di Franco Zeffirelli, 1967, con Elizabeth Taylor e Richard Burton) mostrano come negli anni Sessanta era molto diffuso e di successo il genere film in costume, con opere spesso tratte da capolavori della letteratura.
Nel 1965 Alberto Lattuada aveva inoltre girato, negli splendidi scenari di Urbino, La mandragola, elegante versione del capolavoro di Machiavelli giocata su un registro di raffinato erotismo grazie alla bellezza di Rosanna Schiaffino; e di un grottesco di alta classe grazie alla bravura di Romolo Valli nei panni di messer Nicia e di Totò, indimenticabile fra’ Timoteo. Questi e altri titoli (si potrebbe almeno citare La bisbetica domata di Franco Zeffirelli, 1967, con Elizabeth Taylor e Richard Burton) mostrano come negli anni Sessanta era molto diffuso e di successo il genere film in costume, con opere spesso tratte da capolavori della letteratura.
“Boccaccio
’70” di Fellini-Visconti-De Sica- Monicelli (1962)
A
conclusione del decennio esce in Francia un’opera singolare, Decameron
’69, in cui sette registi – citiamo almeno l’ungherese Miklós Jancsó – sono
chiamati a dare dell’opera di Boccaccio una interpretazione moderna; il
risultato è un assortimento di racconti stuzzicante e vario, con toni che vanno
dal comico al tragico. Non solo il titolo di questo prodotto a più mani rimanda
a Boccaccio ’70 (1962) del quartetto Fellini-Visconti-De
Sica-Monicelli, ma anche la volontà di declinare al presente certi temi del
certaldese, denunciare ipocrisia e moralismo (come in Fellini), gettare uno
sguardo ora sarcastico (Visconti), ora divertito (De Sica), ora venato di
malinconia (Monicelli) sul sesso e le sue multiformi manifestazioni.
“Il
Decameron” di Pasolini (1971)
Una seconda
osservazione viene poi a integrare quanto affermato da Monicelli. Nel Decameron (1971)
Pasolini seguiva un personalissimo, e quindi “necessario” percorso, che
coerentemente lo stava portando sempre più lontano nel tempo (Il Decameron,
I racconti di Canterbury del 1972) e nello spazio (Il fiore delle
Mille e una notte del 1974), per dar forma alla sua visione di un
mondo popolare immaginato, vagheggiato, alla fine sognato, in conflitto
disperatamente vitalistico con la storia. Conflitto che vedrà la sua tragica
soluzione nella violenza, resa definitiva dalla tragica morte del regista,
di Salò o le 120 giornate di Sodoma.
È ancora, e sempre, il Pasolini “scandaloso” delle Ceneri di Gramsci (1957) che, dialogando col grande pensatore comunista, “rivendica” le sue contraddizioni. Tutte nate dallo scontro tra cuore e viscere, pensiero e istinto, natura e coscienza, attratto com’è il poeta dall’allegria di una vita proletaria anteriore ad ogni coscienza di classe, più che dalla lotta millenaria dei popoli per la loro liberazione:
È ancora, e sempre, il Pasolini “scandaloso” delle Ceneri di Gramsci (1957) che, dialogando col grande pensatore comunista, “rivendica” le sue contraddizioni. Tutte nate dallo scontro tra cuore e viscere, pensiero e istinto, natura e coscienza, attratto com’è il poeta dall’allegria di una vita proletaria anteriore ad ogni coscienza di classe, più che dalla lotta millenaria dei popoli per la loro liberazione:
Lo scandalo
del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio
paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore
degli
istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria,
non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; […]
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; […]
Pasolini
mette in scena le novelle di Boccaccio con l’intento «di superare i molti tabù
della nostra morale ed esaltare la giocosità dell’atto sessuale. Concedendosi
per questo una singolare libertà, quella di spostare l’ambientazione del film
dalla Toscana a Napoli e “trasformare” così la vitalità laica e anticlericale
della nascente borghesia esaltata dal Boccaccio nell’innocenza primitiva di un
popolo che sembra vivere in un limbo fuori dalla Storia, senza colpe e senza
rimorsi» (Mereghetti, cit.).
Prendiamo direttamente dalla sceneggiatura il titolo e l’ordine dei vari episodi: Andreuccio, Masetto, Peronella, Ciappelletto, Giotto, episodio “dell’usignolo”, Lisabetta, Gemmata, Tingoccio e Meuccio. Due novelle, quella di Ser Ciappelletto e quella di “Giotto”, o meglio di un allievo di Giotto, funzionano da cornice per le altre. E nella cornice è inserita anche una decima novella raccontata da un anziano affabulatore in un vicolo napoletano, quella della badessa che nell’alzarsi dal letto infila le brache dell’amante al posto del velo.
Prendiamo direttamente dalla sceneggiatura il titolo e l’ordine dei vari episodi: Andreuccio, Masetto, Peronella, Ciappelletto, Giotto, episodio “dell’usignolo”, Lisabetta, Gemmata, Tingoccio e Meuccio. Due novelle, quella di Ser Ciappelletto e quella di “Giotto”, o meglio di un allievo di Giotto, funzionano da cornice per le altre. E nella cornice è inserita anche una decima novella raccontata da un anziano affabulatore in un vicolo napoletano, quella della badessa che nell’alzarsi dal letto infila le brache dell’amante al posto del velo.
Pasolini
come “allievo di Giotto”, da “Decameron” (1971)
«Decameron
è un’opera che vuole essere completamente gioiosa, in maniera astratta. La gioia
di vivere che era nel Boccaccio (anche nei racconti tragici) proviene
dall’ottimismo del Boccaccio… un ottimismo storico. Cioè nel momento in cui lui
viveva, esplodeva quella grandiosa novità che era la rivoluzione borghese».
Così Pasolini il quale, non potendo condividere questo atteggiamento di
ottimistica e totale adesione, mette in secondo piano ciò che di tipicamente
borghese era nel Boccaccio per «propendere verso la parte concretamente,
veramente, esistenzialmente popolare. Quindi ho ritrovato quella gioia (che nel
Boccaccio è giustificata ottimisticamente dal fatto che lui viveva la nascita
meravigliosa della borghesia) e l’ho, diciamo così, sostituita con quella
innocente gioia popolare, in un mondo che è ai limiti della storia, e in un
certo senso, fuori della storia» [Intervista a Pasolini, “Cinemasessanta”, n.
87/88, 1972].
Su quest’opera, di cui tanto si è scritto e detto, mi piace almeno citare la bella analisi di Sandro Petraglia da un Castoro Cinema del 1974. Al di là di ogni intenzione troppo programmaticamente ideologica da parte di Pasolini, «la galleria dei personaggi è comunque memorabile e disegna un oceano immenso di figure irripetibili, segni di una possibile estroversione depurata da antichi pregiudizi e sensi oscuri di colpa. Una delle drammatiche contraddizioni pasoliniane sembra così finalmente placarsi in una rasserenante contemplazione fanciullesca delle cose e in una fantastica esplosione delle parole che annulla l’afasia dell’incomunicabilità borghese. Qui ognuno comunica con il proprio corpo, i propri umori sanguigni, la propria materia fatta colore, fango, denti spezzati, sesso, sudore… Ma anche in questa ennesima discesa in un mare placido, in questo girotondo di adolescenti che scherzano con le giornate e gli anni, lontani dal fervore niente affatto “gioioso” dei nostri tempi, non si può non scorgere una spinta emotiva travolgente e luminosa… Si ride alla vita e alla materia, anche se talvolta si incontra la morte. Perché anche in questo caso si muore con una corsa struggente tra le viti dell’estate… Lisabetta, poi, coltiva la morte in un vaso di basilico, la accarezza, intreccia con lei segreti colloqui che rievocano la folle notte d’amore che ha preceduto il sacrificio dell’amante…».
E Petraglia, sceneggiatore di tanti importanti film dell’ultimo cinema italiano, conclude confrontando Decameron (e I racconti di Canterbury) col primo cinema pasoliniano, senza dimenticare i versi friulani del debutto poetico: «I giovani grossolani e prepotenti del Canterbury e Masetto e Ciappelletto, e Gemmata e Lisabetta e Ninetto e Franco Citti e tutti gli altri prorompenti interpreti, sono costantemente “addolciti” nella loro estemporanea voglia di vivere e vivere con il corpo, quanto i primi personaggi del cinema pasoliniano erano invece resi con pienezza di forme e pesantezza di gesti. Basti pensare, in questo senso, alla candida storia dell’usignolo che conferisce alla parte centrale del Decameron il nitore delle classiche composizioni cinquecentesche e la grazia del sonetto petrarchesco. La scoperta dell’amore e del sesso è qui intrisa di mestizia e di fresco stupore per la magia del fiorire: riporta con un balzo di anni alle umide sere friulane e al mistero che si andava schiudendo sotto gli occhi del matto-adolescente incantato della realtà. Anche in questa sequenza c’è una personale esibizione, un balenare improvviso di scandalosa impudicizia:
Su quest’opera, di cui tanto si è scritto e detto, mi piace almeno citare la bella analisi di Sandro Petraglia da un Castoro Cinema del 1974. Al di là di ogni intenzione troppo programmaticamente ideologica da parte di Pasolini, «la galleria dei personaggi è comunque memorabile e disegna un oceano immenso di figure irripetibili, segni di una possibile estroversione depurata da antichi pregiudizi e sensi oscuri di colpa. Una delle drammatiche contraddizioni pasoliniane sembra così finalmente placarsi in una rasserenante contemplazione fanciullesca delle cose e in una fantastica esplosione delle parole che annulla l’afasia dell’incomunicabilità borghese. Qui ognuno comunica con il proprio corpo, i propri umori sanguigni, la propria materia fatta colore, fango, denti spezzati, sesso, sudore… Ma anche in questa ennesima discesa in un mare placido, in questo girotondo di adolescenti che scherzano con le giornate e gli anni, lontani dal fervore niente affatto “gioioso” dei nostri tempi, non si può non scorgere una spinta emotiva travolgente e luminosa… Si ride alla vita e alla materia, anche se talvolta si incontra la morte. Perché anche in questo caso si muore con una corsa struggente tra le viti dell’estate… Lisabetta, poi, coltiva la morte in un vaso di basilico, la accarezza, intreccia con lei segreti colloqui che rievocano la folle notte d’amore che ha preceduto il sacrificio dell’amante…».
E Petraglia, sceneggiatore di tanti importanti film dell’ultimo cinema italiano, conclude confrontando Decameron (e I racconti di Canterbury) col primo cinema pasoliniano, senza dimenticare i versi friulani del debutto poetico: «I giovani grossolani e prepotenti del Canterbury e Masetto e Ciappelletto, e Gemmata e Lisabetta e Ninetto e Franco Citti e tutti gli altri prorompenti interpreti, sono costantemente “addolciti” nella loro estemporanea voglia di vivere e vivere con il corpo, quanto i primi personaggi del cinema pasoliniano erano invece resi con pienezza di forme e pesantezza di gesti. Basti pensare, in questo senso, alla candida storia dell’usignolo che conferisce alla parte centrale del Decameron il nitore delle classiche composizioni cinquecentesche e la grazia del sonetto petrarchesco. La scoperta dell’amore e del sesso è qui intrisa di mestizia e di fresco stupore per la magia del fiorire: riporta con un balzo di anni alle umide sere friulane e al mistero che si andava schiudendo sotto gli occhi del matto-adolescente incantato della realtà. Anche in questa sequenza c’è una personale esibizione, un balenare improvviso di scandalosa impudicizia:
Io sarò
ancora giovane,
con una camicia chiara
e coi dolci capelli che piovono
sull’amara polvere.
Sarò ancora caldo,
e un fanciullo correndo per l’asfalto
tiepido del viale,
mi poserà una mano
sul grembo di cristallo.
(Il giorno della mia morte, in La meglio gioventù)»
con una camicia chiara
e coi dolci capelli che piovono
sull’amara polvere.
Sarò ancora caldo,
e un fanciullo correndo per l’asfalto
tiepido del viale,
mi poserà una mano
sul grembo di cristallo.
(Il giorno della mia morte, in La meglio gioventù)»
[Sandro
Petraglia, Pier Paolo Pasolini, pp. 108-111]
Episodio
dell'”usignolo”, in “Decameron” di Pasolini (1971)
Il film di
Pasolini ebbe un successo straordinario (ottanta denunce per oscenità!), tanto
che nel 1972 – secondo i dati di Michele Giordano, La commedia erotica
italiana – ben trentuno film inaugurano alla grande, e con sempre
maggiore libertà rispetto al modello letterario, il filone “decamerotico”.
Nel ’73 il fenomeno si era già ridotto a tredici titoli, nel ’74 a tre, nel ’75 a uno solo, «ma il genere ha ormai colpito l’immaginario popolare, sia per le grazie, naturalmente discinte, di tante formose attrici (tra le più “acclamate” ricordiamo Barbara Bouchet e Edwige Fenech) sia per la fantasia dei titoli in cui si sbizzarriscono i produttori italiani. Da Una cavalla tutta nuda a Decameron proibitissimo (Boccaccio mio statte zitto); da Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno al celeberrimo Quel gran pezzo dell’ Ubalda tutta nuda e tutta calda, dove (per fortuna o per carità) di Boccaccio e del suo Decamerone non resta proprio niente» [Mereghetti, cit.].
Sono proprio i titoli (aggiungiamo Fratello homo, sorella bona, Fra’ Tazio da Velletri, …E si salvo’ solo l’Aretino Pietro con una mano avanti e l’altra dietro…) il lascito più significativo del filone, in quanto deposito linguistico duraturo e ancor oggi ricco di echi ribaldi nella memoria del parlante italiano.
Tra le pellicole da segnalare sgomberiamo anzitutto il campo da prodotti che non hanno niente a che fare con Boccaccio e che in Italia sono distribuiti con titoli ingannevoli. Decameron francese (1971) di Jacques Scandelari non è altro che, come recita il titolo originale, La philosophie dans le boudoir di sadiana memoria; stesso discorso, e stessa se non più sfacciata disinvoltura della distribuzione, vale per il raffinato Raphaël ou le débauché (1971) di Michel Deville, che in Italia diventa Le notti boccaccesche di un libertino e di una candida prostituta!
Primo della serie è Una cavalla tutta nuda di Franco Rossetti, con Don Backi (allora cantante di successo) e Barbara Bouchet. Notiamo che il film, a differenza di quasi tutti gli altri che seguiranno, si accosta più al modello “brancaleonico” e picaresco che decameronico in senso stretto; inoltre «non si snoda su episodi autonomi ma è il racconto stesso, sempre con gli stessi personaggi, a creare gli episodi» [Giordano, cit., p. 31]. Stessa struttura ha Boccaccio (1972) di Bruno Corbucci, con Enrico Montesano e Sylva Koscina, sei novelle legate alla presenza in tutte dei due burloni Bruno e Buffalmacco…
E potremmo anche chiudere qui la nostra rassegna con le parole di uno dei maggiori studiosi del cinema popolare: «Mariti cornuti, frati laidi e gaudenti, mogli impenitenti, suore scatenate popolano l’universo antropologico di un filone di grandissimo successo, cui fa difetto una certa ripetitività di situazioni narrative, tanto che non sorprende il fatto che il gioco dei produttori sia durato relativamente poco» [F. Melelli, Orchidea De Santis, p.17]. Ma almeno un titolo ci piace ancora citare, Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno (1972) di Bitto Albertini – uno dei più grandi successi al botteghino -, in cui si toccano picchi tali di volgarità allo stato puro da fare di questo film, a dire di Giordano, «un capolavoro del trash».
La deriva del filone – nato dall’incolpevole modello pasoliniano – verso eccessi di volgarità a dir poco deliranti era esito inevitabile vista la ripetitiva piattezza delle situazioni narrative di cui giustamente parlava Melelli.
Due titoli per finire.
Il cuore del tiranno. Boccaccio in Ungheria (1981) di Miklós Jancsó vede tra gli interpreti Ninetto Davoli, in una storia dove gli intrighi di palazzo si confondono, mescolando continuamente realtà e finzione, con il tentativo di una troupe di attori di mettere in scena una non meglio precisata novella di Boccaccio.
Nel ’73 il fenomeno si era già ridotto a tredici titoli, nel ’74 a tre, nel ’75 a uno solo, «ma il genere ha ormai colpito l’immaginario popolare, sia per le grazie, naturalmente discinte, di tante formose attrici (tra le più “acclamate” ricordiamo Barbara Bouchet e Edwige Fenech) sia per la fantasia dei titoli in cui si sbizzarriscono i produttori italiani. Da Una cavalla tutta nuda a Decameron proibitissimo (Boccaccio mio statte zitto); da Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno al celeberrimo Quel gran pezzo dell’ Ubalda tutta nuda e tutta calda, dove (per fortuna o per carità) di Boccaccio e del suo Decamerone non resta proprio niente» [Mereghetti, cit.].
Sono proprio i titoli (aggiungiamo Fratello homo, sorella bona, Fra’ Tazio da Velletri, …E si salvo’ solo l’Aretino Pietro con una mano avanti e l’altra dietro…) il lascito più significativo del filone, in quanto deposito linguistico duraturo e ancor oggi ricco di echi ribaldi nella memoria del parlante italiano.
Tra le pellicole da segnalare sgomberiamo anzitutto il campo da prodotti che non hanno niente a che fare con Boccaccio e che in Italia sono distribuiti con titoli ingannevoli. Decameron francese (1971) di Jacques Scandelari non è altro che, come recita il titolo originale, La philosophie dans le boudoir di sadiana memoria; stesso discorso, e stessa se non più sfacciata disinvoltura della distribuzione, vale per il raffinato Raphaël ou le débauché (1971) di Michel Deville, che in Italia diventa Le notti boccaccesche di un libertino e di una candida prostituta!
Primo della serie è Una cavalla tutta nuda di Franco Rossetti, con Don Backi (allora cantante di successo) e Barbara Bouchet. Notiamo che il film, a differenza di quasi tutti gli altri che seguiranno, si accosta più al modello “brancaleonico” e picaresco che decameronico in senso stretto; inoltre «non si snoda su episodi autonomi ma è il racconto stesso, sempre con gli stessi personaggi, a creare gli episodi» [Giordano, cit., p. 31]. Stessa struttura ha Boccaccio (1972) di Bruno Corbucci, con Enrico Montesano e Sylva Koscina, sei novelle legate alla presenza in tutte dei due burloni Bruno e Buffalmacco…
E potremmo anche chiudere qui la nostra rassegna con le parole di uno dei maggiori studiosi del cinema popolare: «Mariti cornuti, frati laidi e gaudenti, mogli impenitenti, suore scatenate popolano l’universo antropologico di un filone di grandissimo successo, cui fa difetto una certa ripetitività di situazioni narrative, tanto che non sorprende il fatto che il gioco dei produttori sia durato relativamente poco» [F. Melelli, Orchidea De Santis, p.17]. Ma almeno un titolo ci piace ancora citare, Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno (1972) di Bitto Albertini – uno dei più grandi successi al botteghino -, in cui si toccano picchi tali di volgarità allo stato puro da fare di questo film, a dire di Giordano, «un capolavoro del trash».
La deriva del filone – nato dall’incolpevole modello pasoliniano – verso eccessi di volgarità a dir poco deliranti era esito inevitabile vista la ripetitiva piattezza delle situazioni narrative di cui giustamente parlava Melelli.
Due titoli per finire.
Il cuore del tiranno. Boccaccio in Ungheria (1981) di Miklós Jancsó vede tra gli interpreti Ninetto Davoli, in una storia dove gli intrighi di palazzo si confondono, mescolando continuamente realtà e finzione, con il tentativo di una troupe di attori di mettere in scena una non meglio precisata novella di Boccaccio.
“Il cuore
del tiranno” di Miklós Jancsó (1981)
Decameron
Pie di
David Leland (2007), con Hayden Christensen di Guerre stellari,
vuole richiamare il fortunato modello giovanil-demenzial-sentimentale della
commedia americana di successo cui allude il titolo italiano (negli Stati
Uniti, dove il film è uscito solo in DVD, il titolo era Virgin
Territory): trasportata però nella Firenze del XIV secolo la “torta di
mele” ha perso decisamente sapore.
Bibliografia
essenziale su Boccaccio al cinema
Pier Paolo
Pasolini, La meglio gioventù, Firenze, Sansoni, 1954 [numero
di “Paragone”], poi in La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974,
Torino, Einaudi, 1975.
Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti [prima edizione 1957], poi 1976.
Pier Paolo Pasolini, Intervista, in “Cinemasessanta” n. 87/88, gennaio-aprile 1972.
Pier Paolo, Pasolini, Trilogia della vita. Il Decameron. I racconti di Canterbury. Il fiore delle Mille e una notte a cura di G. Mattei, Bologna, Cappelli, 1975 e poi Pier Paolo Pasolini, Trilogia della vita. Le sceneggiature originali de Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, a cura di G. Canova, Milano, Garzanti, 1995.
Sandro Petraglia, Pier Paolo Pasolini, Firenze, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, 1974.
Luciano De Giusti, I film di Pier Paolo Pasolini, Roma , Gremese Editore, 1983.
Masolino D’Amico, La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1985.
Vito Attolini, Immagini del Medioevo nel cinema, Bari, Edizioni Dedalo, 1993.
Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini. Dizionario dei film 2000, Bologna, Zanichelli, 1999.
Michele Giordano, La commedia erotica italiana. Vent’anni di cinema sexy “made in Italy”, Roma, Gremese Editore, 2000.
Fabio Melelli, Orchidea De Santis, Perugia, Edizioni Art Core, 2003.
Paolo Mereghetti, Boccaccio o la maledizione del grande schermo, in “Corriere della Sera”, 3 novembre 2003.
Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti [prima edizione 1957], poi 1976.
Pier Paolo Pasolini, Intervista, in “Cinemasessanta” n. 87/88, gennaio-aprile 1972.
Pier Paolo, Pasolini, Trilogia della vita. Il Decameron. I racconti di Canterbury. Il fiore delle Mille e una notte a cura di G. Mattei, Bologna, Cappelli, 1975 e poi Pier Paolo Pasolini, Trilogia della vita. Le sceneggiature originali de Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, a cura di G. Canova, Milano, Garzanti, 1995.
Sandro Petraglia, Pier Paolo Pasolini, Firenze, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, 1974.
Luciano De Giusti, I film di Pier Paolo Pasolini, Roma , Gremese Editore, 1983.
Masolino D’Amico, La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1985.
Vito Attolini, Immagini del Medioevo nel cinema, Bari, Edizioni Dedalo, 1993.
Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini. Dizionario dei film 2000, Bologna, Zanichelli, 1999.
Michele Giordano, La commedia erotica italiana. Vent’anni di cinema sexy “made in Italy”, Roma, Gremese Editore, 2000.
Fabio Melelli, Orchidea De Santis, Perugia, Edizioni Art Core, 2003.
Paolo Mereghetti, Boccaccio o la maledizione del grande schermo, in “Corriere della Sera”, 3 novembre 2003.
Nessun commento:
Posta un commento