L'opera
alchemica attraversava tre fasi denotate da colori diversi della
materia: il nero (nigredo), il bianco (albedo) e il rosso (rubedo).
Mark Rothko negli anni Quaranta trasforma il dipingere nella
trasmutazione materica degli antichi alchimisti. Davvero una magia
del colore.
Melania Mazzucco
Tutti i colori di Rothko
Mettete sul fuoco una pentola piena d’acqua. A 45 gradi l’acqua sarà calda; a 70 sarà rovente; a 99 vicina al punto di ebollizione: ma sarà sempre ancora acqua. A 100 gradi, non prima né dopo, avverrà il passaggio, ed essa diventerà vapore. Il Rothko del Guggenheim di New York mi fa tornare in mente questa metafora, che proprio lui escogitò (benché non pensasse a se stesso, ma ai minori, i “carpentieri” della pittura). Cercava di spiegare a un amico artista cosa accade quando ci si sbarazza di tutto ciò che si è appreso, ci influenza, ci condiziona e ci opprime (i maestri, i modelli, le teorie, i vari ‘ismi’) e, proprio come l’acqua — all’improvviso, ma mai per caso — si diventa qualcos’altro: vapore. Cioè, finalmente, se stessi.
Non c’è niente di più affascinante, per chi crea come per chi guarda, che cercare di riconoscere quell’istante. Esplosivo, misterioso, come un’energia sotterranea che si libera, sprigionandosi da un altrove invisibile. Naturalmente un processo psichico e artistico non risponde alle leggi della fisica, e spesso è difficile individuare l’opera in cui un artista abbandona come una morta pelle la crisalide dell’apprendistato, dell’imitazione, del tentativo, e diventa, che so, Pollock, Degas o Kandinsky. Per me Violet, black, orange, yellow on white and reddi Rothko coglie proprio l’istante magico e alchemico della metamorfosi.
Il titolo è un denotativo elenco di colori: Rothko quasi mai dava nomi ai suoi quadri, per non soffocare la possibile espansione del significato. Il quadro nasce nel 1949 a New York, dove Rothko vive dal 1926. Ha 46 anni, dipinge da 23: è a metà della sua storia di pittore, ma ovviamente lo ignora. Come tutti gli artisti americani della sua generazione (lui, nato Rothkowitz in una cittadina russa, ora in Lettonia, immigrato a dieci anni negli Usa, ne è diventato cittadino nel 1938), negli anni della Grande Depressione ha sviluppato una radicale coscienza politica e digerito l’obbligatorio realismo sociale. Ha dipinto senza successo enigmatiche scene urbane nella metropolitana di New York. Poi le figure sono sparite, cedendo il posto a biomorfi liquidi, ispirati dal surrealismo. Nel frattempo si è appassionato ai miti, alle culture mesopotamiche e agli archetipi, e ha scritto un arduo trattato teorico (che però non ha pubblicato).
Mark Rothko: Violet, black, orange, yellow on white and red |
Nel 1949 la temperatura
della sua acqua sale vertiginosamente.E’un salto brusco.Cambia modo
di dipingere. Semplifica, appiattisce, depura. Elimina ogni ricordo
della figurazione e ogni ostacolo concettuale (memoria, storia,
geometria). Riduce la pittura alla sua materia: canapa, pennello,
pigmenti. Sulle sue tele ora galleggiano colorate forme senza nome
(le chiama ‘multiformi’). Non significano niente e non rimandano
a nessuna realtà ulteriore. Forse somigliano solo alle immagini
ipnagogiche che flottano nel buio delle palpebre chiuse. Nel corso
del 1949 queste forme si stabilizzano: diventano bande orizzontali di
colore, che il pittore dispone con ordine sulla superficie del
quadro. I colori non creano più le forme, sono diventati essi stessi
forme e volumi. Le tele sono cresciute: spazi vasti, talvolta
immensi. (Rothko avrebbe dichiarato poi che un quadro di grande
formato è più intimo e umano, perché ti permette di abitarlo, di
‘starci dentro’). I quadri non sono più finestre o porte sul
mondo: sono facciate, muri, pareti. La temperatura raggiunge i 99
gradi. Nasce Violet, black, orange, yellow on white and red.
Rothko pretendeva silenzio. Non voleva spiegare né interpretare i suoi quadri e derideva chi si azzardava a farlo (storici del-l’arte, critici, esperti). Voleva che avessero la pregnanza e la fascinazione della musica e della poesia: che fossero esperienze emozionali, non verbalizzabili. Insomma, che trasportassero in una realtà altra — metafisica, quasi sacrale, diciamo pure trascendente. Ma io non possiedo altro che parole. Dunque è un rettangolo alto più di due metri e largo un metro e sessantasette. I colori sono disposti armonicamente su fasce sovrapposte. Non coprono tutto il fondo della tela, preparata col bianco, che forma così una sorta di cornice. O meglio, di alone. Da questo emergono, come illuminati dal retro, i colori. La banda più scura (e più pesante), viola, è posta in alto, in modo da impedire alle altre (più leggere, trasparenti e immateriali) di disgregarsi. Il giallo ha quasi smangiato l’arancio: irradiano entrambi un riverbero caldo e soffuso, come un velo che fluttua davanti alla luce. Il nero che sorregge la banda viola è ridotto a una linea —come quando spegnevi il televisore e l’immagine veniva risucchiata illusoriamente all’interno dell’apparecchio. Effetto ottico non estraneo ai quadri di Rothko, che danno spesso l’impressione di vibrare, palpitare e muoversi come cose viventi — dilatandosi e proiettandosi in avanti, oppure contraendosi all’interno. E’ decisamente “un Rothko”.
Mark Rothko |
Infatti — almeno nelle
opere del suo cosiddetto periodo classico, che si inaugura nel 1950 e
si conclude con la sua morte, nel 1970 — è uno degli artisti più
‘iconici’ e riconoscibili del secondo Novecento. Ci sono già i
quattro colori prediletti, che declinerà in ogni sfumatura nel
decennio a venire: il violetto dal magenta al lillà, lavanda, malva
e lampone; il giallo-arancio dal mandarino allo zafferano; il rosso
dal cremisi fino al porpora e al prugna. Questi colori pulsanti,
divenuti strumenti per agire sulla sensibilità dello spettatore, già
creano l’effetto di infinito associato ai Rothko della maturità.
Nello stesso tempo, questa è ancora un’opera di transizione. Siamo
a 99 gradi: l’acqua gorgoglia, le bollicine salgono verso la
superficie, l’ebollizione è imminente. Ma c’è ancora un residuo
— qualcosa che impedisce al liquido di vaporizzarsi. Sono le due
verticali: le rosse strisce simmetriche poste ai lati delle bande
orizzontali. Sembrano voler contenere il colore, supportarlo come
colonne. In un certo senso lo imprigionano. Però sono già esili,
evanescenti come un riflesso. Sul punto di dissolversi in vapore,
insomma.
Questo quadro è un privilegio. Anche l’incandescenza delle strisce rosse lo rivela come il crogiolo dove avviene la fusione. Si dice che, quando scoprì il principio che poi ricevette il suo nome, Archimede abbia gridato: Eureka! Ho trovato! Rothko dovette provare la stessa euforia di una rivelazione, quando completò il quadro — che forse realizzò in un solo giorno, giacché lo pensava a lungo ma lo eseguiva in un baleno. Aveva distillato l’essenza della sua pittura. Le braci verticali non compariranno mai più.
(Da: La Repubblica del
10 novembre 2013)
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