15 gennaio 2014

IL TERREMOTO DEL BELICE DI 46 ANNI FA





Mentre ieri sulle pagine palermitane di Repubblica si denunciava il fatto che in molti paesi del Belice tanti cittadini aspettano ancora, dopo 46 anni, la ricostruzione delle loro case, vogliamo riprendere il racconto di quelle terribili giornate fatto da Amelia Crisantino, sullo stesso giornale, sei anni prima.

Amelia Crisantino – Il dramma del Belice

Il gennaio del 1968 fu molto freddo, la neve cadde abbondante. Il 14 del mese molti paesi di montagna erano isolati, e continuava a nevicare. Era una domenica ovattata, silenziosa. Forse tranquilla, sino alle prime scosse di terremoto.
La terra si mosse alle 13,28 e alle 14,15. Due scosse leggere. Nella valle del Belice la paura, quella vera, iniziò con la terza scossa delle 16,48. Poi la notte fredda e buia, che diventò un incubo alle 2,33 e alle 3,01. Quando interi paesi vennero distrutti.
Rileggiamo le cronache de L´Ora e del Giornale di Sicilia, che pubblicarono pagine degne di figurare nelle antologie.

Nell´edizione del 15, lunedì, le notizie sono ancora incomplete. Solo con L´Ora, nel pomeriggio, si ha la misura di cos´è accaduto. L´epicentro del sisma è nel triangolo Gibellina-Salaparuta-Poggioreale, al suo interno altri paesi presto famosi: Montevago, Santa Margherita Belice, Menfi, Salemi. Da Gibellina, Mauro De Mauro scrive: «Si tratta di paesi vecchi, decimati dall´emigrazione. L´abbandono e la miseria che vi regnano sono stati messi crudamente in luce da questo movimento sismico, che non ha risparmiato niente». Gibellina è distrutta, dei suoi 7 mila abitanti chi non è riuscito a scappare è sotto le macerie. Ma la mobilitazione generale lascia sperare in soccorsi rapidi.

Il 16 gennaio, il primo bilancio sul Giornale di Sicilia è di 400 morti e mille feriti. L´incessante susseguirsi di scosse fa cadere i muri semidiroccati, la terra continua a tremare mentre si rimuovono le macerie. Sui tornanti da Alcamo verso Gibellina non c´è un metro di paesaggio tranquillo: alberi schiantati, paracarri divelti, frane, fenditure sull´asfalto. Odore di zolfo che prende alla gola, magma ribollente chissà dove nelle viscere della terra. Nella montagna si sono aperti piccoli crateri, emanano colonne di fumo nerastro e vampe solforose: «Il fiato rovente dell´Apocalisse».

Da Montevago, Roberto Ciuni scrive di ruspe per aprire la strada alle squadre di soccorso, di un paese crollato addosso a chi si era svegliato dopo la prima scossa notturna e ancora fuggiva. È una tragedia contadina, che distrugge povere case di sassi, canne e tufo. Frana anche il volto dimesso del locale, risicato boom edilizio. Sono le abitazioni degli emigranti: in blocchetti di tufo legati con "calce magra", appena una spolverata di cemento. Una tragedia dei poveri, feroce e assurda. A cui si somma il danno della disorganizzazione, subito visibile. A 12 ore dalla catastrofe a Montevago non ci sono soccorsi: «alle 4 del pomeriggio non c´è una tenda, una coperta, un cibo». Sta tornando la notte, piove.

Lo stesso giorno 16, su L´Ora, Leonardo Sciascia riprende la denuncia di Ciuni e scrive di una Sicilia «pulviscolo umano disperso al vento dall´emigrazione», un residuo, popolato da «quelli che ancora faticano con l´aratro a chiodo e col mulo. Un Paese non unificabile».
Le corrispondenze diventano denunce. Felice Chilanti scrive di gente affamata, che chiede «latte per i picciriddi». Ma da Montevago a Poggioreale, dove sono i soccorsi? Monta la rabbia, che lascia un frustrante senso di impotenza. La Sicilia del terremoto è povera, con vuote campagne lavorate in modo arcaico, «piegata su se stessa, sotto gli elicotteri che rimbombano nel cielo e se ne vanno».

Continuano le scosse, alle 17,43 la terra trema per 52 interminabili secondi. Il pezzo di Marcello Cimino è un viaggio notturno nei paesi della morte, con sopravvissuti tremanti dal freddo, senza cibo: ma «non posso evitarmi di ricordare come nel passato, al solo annuncio di scioperi e occupazioni di terre, fosse fulmineo l´intervento della Celere».
Scenari apocalittici si presentano ai soccorritori, il generoso moltiplicarsi delle iniziative trova un´eco nel caos della disorganizzazione. Ognuno agisce per conto proprio, «mancano gli ordini». Si crea un´ingiusta gerarchia della tragedia, Montevago è la protagonista e vi è anche troppo cibo, che si spreca. In altri paesi, come a Camporeale o a Roccamena, i danni sono ingenti ma la visibilità è molto minore. Gli abitanti accampati nelle campagne sono stati dimenticati, tagliati fuori dai soccorsi: il 18 Ciuni scrive di persone terrorizzate, affamate e anche inferocite, che minacciano di marciare sino a Palermo, «gli andiamo a morire davanti agli occhi». L´indignazione trova un facile bersaglio nell´inerzia dell´Ars, che placida e sonnolenta rispetterà il calendario delle sue convocazioni. Come se niente fosse.
Sono passati tre giorni, il terremoto non finisce. Ogni paese ha un suo dramma particolare. Nella corrispondenza da Salaparuta, raggiungibile solo in elicottero, leggiamo di sopravvissuti che vagano inseguiti dalle scosse sismiche, «migliaia di fantasmi di uomini che scappano in un paesaggio infernale». Un pezzo di Sicilia è un cimitero di case, le foto a tutta pagina sono più eloquenti di mille parole. A Santa Ninfa i soccorsi ufficiali arrivano solo il 17, le strade per Santa Margherita Belice sono bloccate e i morti vengono allineati in piazza. Non ci sono certezze nemmeno sul loro numero. A Montevago, dove quintali di pane marciscono sotto la pioggia mentre a pochi chilometri si soffre la fame, i carabinieri ne contano 125. "Fame freddo e terrore" è il titolone a tutta pagina de L´Ora. Nei paesi isolati, con eroismo si cerca di strappare i sopravvissuti alle macerie. La morte di Cudduredda, la bimba estratta viva dalle macerie di Gibellina a 48 ore dal sisma, commuove il mondo: si chiamava Eleonora Di Girolamo ma per tutti era "Cudduredda", dolcino. Diventata suo malgrado il precario simbolo della vita, al cui salvataggio avevano assistito milioni di telespettatori.

Il 24 gennaio, il bilancio ufficiale è di 216 morti e 563 feriti. È cominciato l´esodo. Il 22 gennaio la prefettura di Agrigento comunica che il 30 per cento dei sopravvissuti è già partito. In compenso la valle del Belice si popolerà presto di imprenditori-avvoltoi, che sul terremoto sono pronti a edificare uno dei grandi affari siciliani. Ma questa è un´altra storia.

Amelia Crisantino

La Repubblica, Palermo14 gennaio 2008

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