31 gennaio 2014

L'IRONIA POETICA DI J. E. PACHECO





Dopo Juan Gelman se ne è andato anche Josè Emilio Pacheco, un altro “grande vecchio” della poesia latinoamericana. Poco conosciuto in Italia, ha svolto per mezzo secolo un ruolo centrale nel panorama letterario messicano. Lo ricordiamo con un bell'articolo apparso sul Manifesto e con quattro sue poesie ripescate in rete.

Francesca Lazzarato

L'ironico incedere poetico di José Emilio Pacheco
Il quat­tor­dici gen­naio se n'è andato il suo amico e vicino di casa Juan Gel­man (entrambi vive­vano nella Colo­nia Con­desa, a Città del Mes­sico), del quale si defi­niva «let­tore intimo», e a lui, alla sua ven­ten­nale pre­senza nella capi­tale mes­si­cana, José Emi­lio Pacheco aveva dedi­cato la sua ultima rubrica sulla rivi­sta Pro­ceso, una colonna set­ti­ma­nale inti­to­lata Inven­ta­rio che per anni è stata una sorta di bus­sola non solo let­te­ra­ria, ma anche etica e civile per i suoi nume­ro­sis­simi e fedeli let­tori. Ter­mi­nato nel pome­rig­gio di venerdì scorso , l'articolo era desti­nato a uscire il gio­vedì suc­ces­sivo, come sem­pre: e invece lo si può leg­gere già ora sul sito della rivi­sta, in memo­ria non solo del grande poeta argen­tino, ma dello stesso Pacheco che , rico­ve­rato sabato dopo un banale inci­dente dome­stico, è morto dome­nica «tran­quillo, in pace e sulla brec­cia come ha sem­pre desi­de­rato», secondo le parole di sua figlia Laura Emi­lia, lasciando al Mes­sico e al mondo una straor­di­na­ria opera poe­tica che ne fa uno degli autori di lin­gua spa­gnola più impor­tanti del Novecento.

«Sono nato a metà di un anno orri­bile, il 1939, e tut­ta­via non ho affron­tato i disa­stri della guerra. Non ho patito i bom­bar­da­menti, le bat­ta­glie, le per­se­cu­zioni, i campi di ster­mi­nio. Ho spe­ri­men­tato tutto ciò a distanza e non per que­sto ha ces­sato d'imprimersi in quello che ho scritto.

Ora la vio­lenza e la cru­deltà estreme sono il mio pane quo­ti­diano e vivo nel cuore di un con­flitto bel­lico senza spe­ranza di vit­to­ria. A que­sto si somma la vista esa­cer­bata della fame e della mise­ria nel Mes­sico e nel mondo. A tutto ciò, cui non smetto mai di pen­sare, aggiungo l'angoscia di quanti restano senza lavoro e dei gio­vani che non tro­vano il posto per il quale sono stati pre­pa­rati. (...) E a volte mi sento affine a Pal­lada, il poeta di Ales­san­dria che vide crol­lare il suo mondo e con­tem­plò il trionfo del cri­stia­ne­simo su quanto era stato per molto tempo greco e romano».

Così aveva detto nel discorso di accet­ta­zione del Pre­mio Cer­van­tes rice­vuto nel 2009, aggiun­gendo che la lin­gua in cui era nato era sem­pre stata la sua unica ric­chezza. Una ric­chezza messa a frutto nel migliore dei modi, «inve­stita» com'è in sedici rac­colte di versi (tra esse l'antologia del 2009 che riu­ni­sce quasi per intero la sua opera, Tarde o tem­prano; in ita­liano si può leg­gere Gli occhi dei pesci, una scelta di poe­sie curata e tra­dotta da Ste­fano Ber­nar­di­nelli per Medusa nel 2006), due romanzi (il più famoso, Le bat­ta­glie nel deserto, vera pie­tra miliare della let­te­ra­tura mes­si­cana, è uscito nel 2012 presso La Nuova Fron­tiera) e sei volumi di splen­didi rac­conti, uno dei quali, Il prin­ci­pio del pia­cere, uscirà a breve per le edi­zioni Sur.

A tutto que­sto vanno aggiunti saggi, magi­strali tra­du­zioni di autori come Eliot, Sch­wob, Bec­kett, e migliaia di arti­coli com­po­sti nel corso di una lunga atti­vità gior­na­li­stica che non riguar­dava solo la let­te­ra­tura e che pro­ce­deva in paral­lelo a una car­riera uni­ver­si­ta­ria di grande impe­gno e pre­sti­gio, che dal Mes­sico lo ha por­tato negli Stati Uniti e in Inghilterra.



Insieme ad altri nomi impor­tanti della cul­tura mes­si­cana, Pacheco faceva parte della cosid­detta Gene­ra­ción de los 50 , una gene­ra­zione di rot­tura che ha vis­suto la tra­sfor­ma­zione di un Mes­sico arcaico, ancora segnato dalle ferite della guerra cri­stera scop­piata alla fine degli anni Venti, in una nazione indu­stra­liz­zata a tappe for­zate e cata­pul­tata in una moder­nità «libe­ri­sta» che dilata e radi­ca­lizza ulte­rior­mente le dise­gua­glianze sociali, la cor­ru­zione, l'intreccio pro­fondo tra poli­tica e cri­mi­na­lità. È una nazione comun­que ribol­lente di cam­bia­menti e novità, in cui la classe media si acco­sta timi­da­mente per la prima volta all'allettante pos­si­bi­lità di nuovi con­sumi, e si vedono nascere le opere di un gruppo di scrit­tori ecce­zio­nali, aperti a un rin­no­va­mento lin­gui­stico e tema­tico, come Juan Gar­cía Ponce, Jorge Ibar­güen­goi­tia, Car­los Fuen­tes, Juan José Arreola, Rosa­rio Castel­la­nos, Jose­fina Vicens, Ser­gio Pitol, Car­los Mon­si­váis, l'appartato e gran­dis­simo Juan Rulfo e molti altri, ormai in buona parte assurti al rango di clas­sici moderni.

Tra loro, José Emiio Pacheco spicca per la sua capa­cità di inter­pre­tare e rac­con­tare il cam­bia­mento: pochi romanzi, infatti, sono capaci come Le bat­ta­glie nel deserto di offrire il ritratto di una nazione e di una società in rapido e tumul­tuoso muta­zione, e di farlo attra­verso un uso iro­nico, affet­tuoso e spe­ri­co­lato della lin­gua e della cul­tura popo­lare, fil­trando il tutto attra­verso lo sguardo di un dodi­cenne che si inna­mora per­du­ta­mente di una donna adulta.

L'adolescenza e l'infanzia, intese come sta­gioni di pas­sag­gio e a loro modo dolo­rose, sono del resto uno degli argo­menti pre­fe­riti del Pacheco cuen­ti­sta, autore di rac­conti che imman­ca­bil­mente sfio­rano la per­fe­zione e che non sono certo infe­riori all'opera del Pacheco poeta, osses­sio­nato dallo scor­rere del tempo, dalla deva­sta­zione che l'uomo infligge alla terra, dalla soli­tu­dine e dalla morte, e tut­ta­via capace, sem­pre, di un con­ti­nuo e sot­tile eser­ci­zio di iro­nia che passa anche attra­verso l'uso di una lin­gua «par­lata» , essen­ziale, asciutta.

Di lui, oggi, la cul­tura mes­si­cana e soprat­tutto i let­tori che lo ado­ra­vano (una leg­genda urbana dice che non potesse cam­mi­nare per la strada senza essere con­ti­nua­mente fer­mato da per­sone che vole­vano dir­gli quanto i suoi libri fos­sero stati impor­tanti per loro) ricor­dano non solo la sta­tura let­te­ra­ria ma anche la gene­ro­sità, l'umorismo, la sem­pli­cità, l'interesse per la nuova e sor­pren­dente gene­ra­zione di scrit­tori che va cre­scendo in Mes­sico, la fer­mezza nello spen­dersi per le cause che rite­neva giu­ste, l'ansia per la ter­ri­bile con­di­zione attuale del suo paese. «Prima Gel­man e poi lui: siamo rima­sti orfani di poeti», si legge in uno dei tanti ricordi com­parsi sulla stampa mes­si­cana, dove la noti­zia della morte dello scrit­tore occupa le prime pagine. Ma, para­fra­sando pro­prio quanto ha scritto Pacheco alla scom­parsa del poeta argen­tino, si potrebbe dire che l'autore di Le bat­ta­glie nel deserto non tor­nerà, eppure non se ne andrà mai.

il manifesto | 28 Gennaio 2014



ALTO TRADIMENTO

Non amo la mia patria.
Il suo fulgore astratto
è inafferrabile.
Ma (benché suoni male)
darei la vita
per dieci dei suoi luoghi,
certa gente,
porti, boschi, deserti, fortezze,
una città disfatta, grigia, mostruosa,
vari personaggi della sua storia
montagne
- e tre o quattro fiumi.

NOTTE E NEVE

Mi affacciai alla finestra e, al posto del giardino, trovai la notte
costellata di neve.
La neve rende tangibile il silenzio.
È il crollo della luce e si spegne.
La neve non vuole dire nulla:
è solo una domanda che lascia cadere milioni di segni
interrogativi sopra il mondo.

IN FIN DEI CONTI

Dov'è finito ciò che accadde
e che fine ha fatto tanta gente?
Via via che passa il tempo
ci facciamo più sconosciuti.
Degli amori non è rimasto
nemmeno un segno tra gli alberi.
E gli amici se ne vanno sempre.
Sono viaggiatori sui binari.
Anche se uno esiste per gli altri
(senza di loro è inesistente),
conta soltanto la solitudine
per dirle tutto e fare i conti.


ASILO NIDO, 20

O siamo ciottoli espulsi dal mare e cadiamo
sulla spiaggia che non scegliemmo, tra sargassi
e grumi letali di petrolio. Qui c'è
la siccità che chiamano il deserto. Occorre
attraversarlo dall'alba al tramonto. Arriveremo
all'altro mare per farci ricoprire dalla morte. Intanto
il cammino è la meta e nessuno avanza da solo
e l'acqua si condivide o crepi. Non c'è
minuto che non scorra. Avanti.


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