20 gennaio 2014

VIVALASCUOLA: VIAGGIO NELLA MEMORIA




Presentiamo i racconti del “viaggio della memoria” a Mauthausen, Gusen e Hartheim che gli studenti della 5A del Liceo Scientifico Tecnologico dell’IIS “Giovanni Giorgi” di Milano hanno compiuto tra il 29 e il 31 gennaio 2013, accompagnati da una riflessione di Stefano Levi Della Torre. Un grazie di cuore a ragazze e ragazzi e a tutti, uno per uno, l’augurio di rispettare, quando saranno adulti, “i sogni della giovinezza” (F. Schiller, Don Carlos).

Il coraggio di ricordare
di Stefano Levi Della Torre

L’impegno di tanti studenti e docenti nell’affrontare la tragedia dei campi di concentramento e di sterminio nel cuore dell’Europa è quasi eroico, non solo per l’argomento ma anche per la condizione in cui è stata ridotta la scuola italiana, la cui qualità si affida sempre più alla buona volontà di chi vi partecipa.
La scuola è il principale luogo di formazione e oggi più che mai di integrazione di mentalità e culture diverse, eppure la professione di insegnante, così umiliata e miseramente retribuita, è costretta a farsi missione, se vuole mantenere la sua funzione formativa e di animazione degli interessi e delle curiosità culturali. Di questo sforzo sono testimonianza gli scritti che seguono, resoconti degli studenti che hanno accolto la proposta del “viaggio della memoria” a Mauthausen e Gusen, sollecitati e preparati dai loro insegnanti: “volontariato” degli uni e degli altri.
Sono scritti di una certa qualità, in cui si dà atto di quanto sia importante vistare i luoghi per dare corpo all’immaginazione dell’inimmaginabile: la deportazione a scala continentale verso le fabbriche della morte, la razionalità tecnologica e amministrativa dell’annientamento, la razionalità scientifica della riduzione a cavie degli esseri umani, la re-introduzione della schiavitù di massa in Europa, lo sterminio degli oppositori e dei dissidenti, il genocidio degli ebrei, dei Rom e dei Sinti, dove il genocidio si caratterizza per la strage sistematica dei bambini come distruzione anche del futuro di un gruppo umano…
Gli scritti riflettono lo stupore angoscioso, da un lato per la deformazione indotta nei carnefici dall’odio ideologico, dall’altro per l’indifferenza della popolazione che ha convissuto con la tragedia, nelle sue stesse vicinanze. Se ne può dedurre quanto l’”inimmaginabile” possa diventare un alibi per chi non vuol sapere, per conformismo o consenso al regime, o per paura di esso.
Che cosa oggi occorre avere il coraggio di sapere? Certo quel che è accaduto allora. Ma anche quello che accade oggi, perché l’odio ideologico, etnico e razzista non si sono fermati nel mondo, e così la schiavitù, lo sfruttamento e l’oppressione economica e politica, la tragedia dei profughi, della guerra e della strage. Ciò che non doveva più succedere succede.
La tragedia europea del XX secolo ci insegna quanto la civiltà covi sempre dentro di sé un’immane possibilità di barbarie; e quanto l’indifferenza o il desiderio di tranquillità privata ci rende difficile percepirne i sintomi.
Importante è lo sforzo, diffuso in questi scritti, di valersi dei luoghi per immedesimarsi per quanto è possibile nella condizione delle vittime, nel loro freddo e fatica e fame e umiliazione nell’attesa di una morte certa. Ma anche la nostra indignazione di oggi per ciò che accaduto può essere un rifugio della coscienza. Ci compiacciamo di sentirci diversi dai carnefici, e non ci è difficile solidarizzare con le vittime di allora, (più arduo è solidarizzare con quelle di oggi, perché non possono non disturbare le nostre esistenze).
Ma forse la domanda centrale è questa: che cosa può esserci in noi che somiglia ai carnefici, o almeno ai consenzienti o agli indifferenti che hanno favorito la loro azione? Dichiarare “incomprensibili” tali comportamenti ci tranquillizza, mentre sono proprio le loro logiche, storiche e personali, che occorre indagare, se vogliamo combatterle a cominciare da noi stessi.
La memoria che ci tocca coltivare è una memoria non più sovraccarica di risposte già date, bensì interrogativa, memoria dei problemi che le tragedie trascorse e presenti ci pongono dinanzi nella loro attualità: quali interessi, quali forme mentali, e passività e indifferenza minacciano di riprodurre, ora, situazioni in cui vite e diritti umani possono venire sacrificati? E che cosa fare per prevenire o combattere queste tendenze?
Tra le indicazioni che questa memoria ci affida per attrezzarci ad affrontare le crisi e a uscirne c’è il ricordo dei “giusti”, di quanti con atti piccoli o grandi hanno saputo opporsi, con proprio pericolo, alla perversione del senso comune e alla minaccia della forza, hanno affrontato l’accusa di “tradire la patria” identificata coi poteri dominanti e l’asservimento conformistico. Tutt’una con la memoria del male, è la memoria degli atti e dei principî che hanno animato la resistenza al male, e che sono indicazioni tuttora fondative per il nostro giudizio e il nostro comportamento.
Eppure, perché è forse più facile la memoria del male che del bene? Perché è più gratificante indignarsi che agire; perché il male sofferto o inferto ci fa sentire in credito, mentre il bene ci fa sentire in debito. In debito di riconoscenza, ma anche dell’impegno di farci carico, noi stessi, dei principî di lucidità e di coraggio che hanno ispirato chi ha operato e opera con giustizia e speranza, contro corrente.
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Bisogna ricordare ogni giorno
di Sara Bosco
Ho un’immagine fissa stampata nella mia testa. È l’immagine di quando sono entrata in una delle baracche.
Inizialmente sembravano casette di legno uguali a quelle dei nostri attuali villaggi turistici, i cosiddetti bungalow; poi mi sono fermata un attimo davanti a una delle finestre della baracca, il vetro era vecchio, sporco e si vedeva a malapena fuori perché le piccole macchie marroncine fatte dal tempo oscuravano la visuale. Così ho chiuso gli occhi e per un attimo mi sono immaginata accanto a me una persona di massimo 30 chili, con la pelle scura per la sporcizia e gli occhi tristi e pieni di dolore, ma di un blu candido e limpido, che guardavano fuori dalla finestrella. E per un attimo ho avuto due immagini parallele, la mia, che poteva solo immaginare cosa volesse dire guardare fuori da quella finestra in quei giorni bui; e quella della persona da me evocata che vedeva solo una fine già decisa e che in fondo stava aspettando quasi con ansia, perché sapeva che sarebbe stata l’unica “via d’uscita”.
Entrambe le immagini erano accomunate da una cosa, il dolore. Forse il mio non è giustificato, perché io non posso neanche immaginare cosa volesse dire, non vivere, ma cercare di sopravvivere in quella realtà, però provo ugualmente dolore ed è un dolore reale, di quelli che ti fanno sentire un peso allo stomaco e ti fanno mancare l’aria. Dolore dato dal solo immaginare ciò che può aver provato ogni persona che è stata in un campo di concentramento. Non ho la minima idea di cosa possa voler dire non poter mangiare e bere, non poter neanche pensare per la paura, non so cosa voglia dire provare ad immaginare che ciò che è accaduto possa riaccadere.
Ciò che è accaduto in quei campi a quelle persone andrebbe ricordato ogni giorno, non solo nel cosiddetto “giorno della memoria”, perché sono tutti bravi a fare i moralisti un giorno all’anno e poi fare i razzisti per i 364 giorni restanti.
Io odio l’ingiustizia che regna sovrana nel nostro mondo. Chiudiamo gli occhi di fronte a cose di una gravità inaudita come questa, perché è più facile dire di non sapere, non capire e non pensare. È più facile pensare che la realtà che ci sta attorno non ci riguardi. Ma il nostro mondo sarebbe in grado di difendersi se dovesse riaccadere una cosa del genere? Io questa cosa me la domandavo spesso ed era una dei motivi per cui ero restia a fare questo viaggio. Non perché non voglia ricordare, ma perché sapevo che sarebbe stato un viaggio difficile.
Quando siamo arrivati al campo, la prima cosa che abbiamo visto è stata una muraglia chiamata “muro del pianto perché le persone quando arrivavano al campo erano costrette a spogliarsi di tutto e a restare fino a un massimo di 24 ore inginocchiate, nude, al freddo, senza cibo e senza acqua; la chiamavano “selezione”. Non riesco nemmeno a esprimere la rabbia che mi fa immaginare che delle persone, degli esseri umani in carne ed ossa, abbiamo dovuto subire un’umiliazione simile. Schifo” è la parola che può definire questi fatti.
Il punto è che, se vedi questi posti, non penseresti mai che possa esserci stato qualcosa di così terribile dentro. Perché non è rimasto nulla di particolarmente significativo, però poi ti trovi ad ascoltare racconti, a vedere filmati o piccoli segni sui muri, che ti portano a ricordare tutto.
Io non sono riuscita a entrare nella maggior parte dei luoghi che abbiamo visitato. Non riuscivo a star dentro perché sentivo un senso di dolore opprimente. È stata una delle esperienze più dure che abbia affrontato, perché, come in tutte le cose, fino a che non le vedi con i tuoi occhi non puoi renderti conto di quanto facciano male.
Entrare in quelle stanze sottoterra, con il soffitto appena sopra la mia testa e quelle pareti di un grigio che poteva rappresentare solo dolore. Non so come sia potuto accadere tutto ciò. Non me ne capacito. Ma so che vedere tutto così da vicino mi ha fatto sentire vicino anche il dolore. Mentre eravamo in pullmann guardavo dal mio finestrino il paesaggio che circondava i campi e in sottofondo ascoltavo l’audio del video che parlava proprio del fatto che la maggior parte delle persone che abitano nei dintorni non si ricordino neanche di aver così vicino questi luoghi.
Ma ciò che mi ha più colpito è stata la visita al castello di Hartheim. Dal di fuori un castello normalissimo, ma mi è bastato vedere un video sul pullmann per capire che quello che avremmo visto mi avrebbe segnato ancora di più dei campi.
All’interno del castello oltre alle camere a gas c’è un museo. Cinque stanze piene di foto a dimostrazione del maltrattamento dei disabili che avveniva lì dentro. Maltrattavano, violentavano e uccidevano i disabili. Quando penso a queste cose mi verrebbe da mettere in dubbio anche l’esistenza di un “ente superiore”, perché mi chiedo quale Dio che ami i propri figli sarebbe stato fermo a guardare mentre subivano tutte quelle violenze. Ciò che mi fa ricredere è la mia forte convinzione del fatto che tutto, qualsiasi cosa ci accada, accade perché dobbiamo imparare qualcosa.
Ciononostante non so come una mente umana possa arrivare a concepire di maltrattare dei disabili, persone che sono già state messe a dura prova dalla vita fin dalla nascita. Vedere le immagini di quel museo e la sedia a rotelle su cui venivano trasportati mi ha fatto rabbrividire. Sono stata una decina di minuti a fissare quella sedia con le lacrime agli occhi. Ne ho osservato ogni dettaglio. Dalle ruote alla cintura per bloccare le persone, alle maniglie utilizzate per spingerle. Era una sedia blu. Mi sono immaginata una persona seduta lì, impaurita, fragile, spaventata. E dietro un uomo con il volto duro e freddo, senza pietà, che la spingeva. In quel momento ho provato odio, schifo, ribrezzo. Per un momento mi sono vergognata di essere un essere umano.
Non credo ci possa essere una spiegazione razionale a tutto ciò. La verità è che io ho paura. Ho paura che tutto ciò possa risuccedere per davvero e ho paura che la maggior parte delle persone non se ne renda conto. Non so quale meccanismo malato possa scattare nel cervello di una persona per portarla a compiere gesti simili. Mi pongo spesso questa domanda, ma temo che non troverò mai una risposta.
Provo dolore per quanto è successo. Provo dolore per lo schifo che vedo ogni giorno nel mondo. Ma amo la vita più di ogni altra cosa e, se ricordare ciò che è successo in passato, cercare di trasmetterlo a coloro che mi stanno vicini, può servire per fare in modo che ciò non succeda un’altra volta, allora è ciò che farò.
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Un viaggio che tutti dovrebbero fare
di Aimen Finear
Il viaggio effettuato tra il 29 e il 31 gennaio 2013 è stato un ritorno al passato attraverso il quale abbiamo riflettuto e sofferto, grazie a una delle più profonde capacità dell’uomo, l’empatia.
Partiti da Milano alle 7 del 29 gennaio, siamo giunti a Linz verso le 19, dopo varie pause. Linz è la città (vicina al campo di lavoro che dovevamo visitare) dove c’era il nostro albergo. La mattina dopo siamo partiti verso la meta prefissata. Già nell’aria si sentiva che sarebbe stata una giornata straziante.
La prima tappa fu il campo di Gusen. Del lager rimane il luogo più simbolico, la camera con i forni crematori. Attorno c’erano case, ville e piccole fattorie, e già lì il mio animo rabbrividiva. Come faceva quella gente a vivere in quel luogo, sopra i corpi e le macerie di migliaia di persone morte senza motivo? Come faceva a essere indifferente? Solo al pensiero io scapperei lontano per non sentire nemmeno l’odore dell’aria di quel luogo che non può essere chiamato cimitero e forse neanche inferno.
La visita durò poco perché ci aspettava il lager di Mauthausen, situato su una collina, appena sopra il paese dove vivevano i cittadini austro-tedeschi. Scesi dal pullmann, ci imbattemmo subito nel cancello del lager. Sulla cima del cancello c’era una scritta: “Arbeit macht frei”, che in tedesco significa “Il lavoro rende liberi”. Una frase che considero crudele, una presa in giro, come dare una falsa falsissima speranza che rendeva ancora più orribile ciò che succedeva lì dentro.
Non ero neanche entrato nel lager e già l’ansia si impadroniva di me. Le strade larghe, la terra fangosa, i colori freddi e la povertà del posto incutevano paura, ansia, tristezza e a ogni passo, accompagnato dalle parole della guida, apparivano sempre più nitide come allucinazioni le scene quotidiane di quel luogo durante il terzo reich.
La situazione diventò più difficile all’interno degli edifici, le camere dove i deportati venivano ammazzati, le camere a gas e i forni crematori: era tutto impressionante. In quei luoghi non esistevano uomini, i deportati diventavano oggetti, i nazisti le macchine di morte più orribili del mondo. Nella storia non è mai esistita un’organizzazione statale che avesse il compito di sterminare un popolo, quello ebraico; per non parlare dei rom, degli avversari politici, dei non ariani. E questo orrore purtroppo non svanirà mai da quella terra e dal mondo intero.
Usciti dal lager ci trovammo in una situazione commovente ma abbastanza ipocrita: stava iniziando la commemorazione degli italiani morti nel lager. Come se quegli italiani fossero stati gli unici a essere stati deportati, torturati e uccisi. Nonostante ciò partecipai in silenzio e con rispetto.
Il culmine della visita fu la sera stessa, in un castello bellissimo e maestoso, dove c’era un lato nascosto che vorrei non ricordare. Lì, nel castello di Hartheim, nacque l’organizzazione della disumanizzazione. Esso era la scuola dello sterminio: tutti i soldati nazisti che uscivano da lì furono comandanti di campi di lavoro e di sterminio. Lì furono ottimizzate le pratiche di sterminio, usando i disabili come cavie, perché considerati esseri inferiori.
Ed è sempre lì che persi una parte del mio buon senso, in un istante mi sono trasformato in uno di quelli, sarei voluto tornare indietro nel tempo e mostrare a quei mostri cosa volesse dire essere vittima indifesa, priva di ogni forma di diritto. Sarebbe stato scendere al loro livello, ma in quel momento non mi importava. Uscire da lì fu come fare ritorno a me stesso. La rabbia si trasformò in disprezzo, orrore e voglia di essere diverso da quelli.
Tutta la notte fui preso da sgomento e incredulità. Nel viaggio di ritorno tutti erano storditi da questo cammino verso il ricordo e la riflessione. Ed è il ricordo il valore fondamentale dell’iniziativa: ricordare, trasmettere ai nostri figli, non sbagliare più, fare entrare nelle nostre limitate teste il vero significato dei valori di uguaglianza, amore e pietà. Più che un viaggio fisico è stato un viaggio spirituale, qualcosa che tutti dovrebbero fare per aumentare in se stessi la coscienza del valore della vita di ogni singolo organismo in questo universo.
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Io cosa avrei fatto?
di Davide Di Gregorio
Le sensazioni provocate da questo viaggio sono strane e difficili da esprimere. L’unione tra il piacere di essere in viaggio con la propria classe e il macabro spettacolo dei campi di concentramento è troppo contrastante. Tutta la serenità, i sorrisi, le risate rimangono chiusi nel pullmann e sembrano qualcosa di lontano non appena si è davanti alle mura di Mauthausen.
L’immaginazione si mischia a frammenti di documentari sull’olocausto, che, pur riportando fedelmente i fatti accaduti, trasmettono emozioni che sono lontane anni luce da quelle provate quando ci si trova di persona in un campo di concentramento. Cammino e penso che poche decine di anni fa migliaia di persone hanno calpestato quella stessa terra, ma in una situazione decisamente diversa.
Provo a immaginare le scene verificatesi proprio nello stesso luogo in cui mi trovo, tutte le crudeltà, le uccisioni, le violenze fisiche e psicologiche. Ma purtroppo mi rendo conto che in questo caso la realtà ha superato di gran lunga qualsiasi tipo di immaginazione. Tutto sembra così surreale, così lontano dal mondo in cui vivo, ma basterebbe scavare un po’ più a fondo per scoprire che in realtà il mondo e gli uomini sono rimasti sempre gli stessi. A chi si è chiesto e si chiederà se una cosa simile potrà mai riaccadere, Primo Levi ha risposto semplicemente: “E’ accaduto, quindi può accadere ancora”.
Intanto la visita al campo procede e ogni stanza, ogni racconto rende sempre più dettagliata l’immagine di come era quell’inferno durante il dominio nazista. Ci si chiede come sia stato possibile, perché tante persone sono rimaste in silenzio, perché nessuno ha fatto niente per impedirlo. Ma poi mi domando: io cosa avrei fatto?
Usciti dal campo di Mauthausen, qualsiasi sorriso, qualsiasi risata sembra fuori luogo di fronte a tanta sofferenza, persino il sole che illumina il campo sembra inopportuno. La sofferenza ancora imprigionata in quel luogo rende tutto più cupo, scuro.
Finita la visita si cerca non di dimenticare, ma di non pensare, accantonando tutte quelle immagini ed emozioni nate all’interno del campo. È come quando si cerca di superare un lutto, ci si distrae e si prova a non pensare. Ma il ricordo è ancora vivo, la ferita è ancora aperta nel cuore di tutti gli uomini. Nonostante tutti i buoni propositi, si ha sempre il timore che tutto ciò possa riaccadere. Pensandoci, la nostra società non è cambiata, esistono ancora discriminazione e odio razziale. Si è sempre in bilico tra tolleranza e intolleranza: basterebbe una lieve spinta per far precipitare nuovamente l’umanità in una situazione di profonda intolleranza.
Questo viaggio lascia in me indignazione e vergogna. Vergogna di essere un uomo proprio come quegli uomini che hanno commesso tali atrocità. Ma d’altro canto mi rendo conto che sono tanti piccoli atteggiamenti quotidiani, tanti pregiudizi che tuttora esistono che potrebbero un giorno sfuggire al nostro controllo e permettere che il dramma dell’olocausto si ripeta.
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Un luogo lontano dalla civiltà
di Maria Frunza
Grazie alla provincia di Milano e all’impegno dei nostri professori, abbiamo contribuito a tenere vivo il ricordo mediante il viaggio della memoria, incontri sul tema della Shoah e discussioni con superstiti e testimoni, ricorrendo anche a letture di poesie, canzoni, libri. L’esperienza del “viaggio della memoria” ha indirizzato centinaia di studenti a visitare il campo di concentramento di Mauthausen, scelto come destinazione dell’anno 2013.
Dopo un lungo viaggio ci troviamo nel nord dell’Austria, nella città di Linz, dove alloggiamo per prepararci alla visita del giorno seguente al campo di concentramento.
Eccoci pronti, ci avviamo verso il lager, siamo guidati su questa collina che porta i segni della sofferenza e ci troviamo in alto, in un luogo isolato, lontano dalla civiltà. L’ambiente sembra soffocante, forse a causa del forte vento che infastidisce o forse perché quel posto così triste custodisce ancora i bisbigli di tutte quelle voci che venivano oppresse nel dolore e nel silenzio. Quando mi trovai di fronte ai portoni dell’ingresso del lager, la mia mente si rappresentò le marce di quelle persone che come me entrarono ma che non uscirono più.
Entrata dentro, fui turbata dalle maestose e imponenti mura che sembravano inghiottirti, isolarti, incutono paura e soffocano ogni sentimento di libertà e di pace. Infatti, nel varcare quella porta, le persone un tempo diventarono dei codici, dei semplici numeri per essere gestite con maggiore facilità dalle SS. Queste persone vennero spogliate della loro identità, divise dai loro cari, ammassate in baracche dove lo spazio era perfettamente calcolato in modo da ottenere il maggior numero di posti letto possibili.
Nei campi di concentramento i deportati venivano impiegati in condizioni di vera e propria schiavitù nei lavori gravosi. L’alimentazione non soddisfaceva il bisogno giornaliero, gli orari erano oltre i limiti fisiologici, in modo da ottenere il più alto grado di prestazione. In queste condizioni i prigionieri assumevano progressivamente la stessa fisionomia: capi rasati, stesso peso, corpi ridotti a scheletri fragili, visi scavati, occhi vuoti e passivi come automi con uno spirito ormai morto. Diventando così, le guardie non faticavano a vedere queste persone come una razza a sé, una razza inferiore su cui è lecito commettere soprusi, violenze, torture senza avere pietà o rimorso.
Quando la guida raccontava questi fatti orrendi, meditavo su come questo sia stato possibile in una società evoluta del XX secolo, in cui sembra però essere scomparsa ogni forma di civiltà. Questo dimostra quanto gli esseri umani siano facili da manipolare da figure autoritarie che sappiano come imporsi agli altri. Questi sistemi si sono presentati continuamente nella storia, ma il sistema nazista è stato il più catastrofico in assoluto. Per questo è necessario ricordare, per vincere l’apatia che purtroppo è diffusa e può risultare molto dannosa, perché tutto si può ripetere e le persone si potrebbero trovare di nuovo impreparate.
Su una didascalia nella stanza del crematorio si trova la scritta: “Da questi forni e da queste ceneri nasce il richiamo alla pace nel mondo. I superstiti italiani”. Ora sta a noi contribuire a mantenere la pace, e dobbiamo ricordare di non darla per scontata, perché spesso gli equilibri in cui viviamo sono precari. L’esperienza che ho vissuto è stata importante, perché mi ha insegnato a dare peso a ciò che è accaduto e riflettere di più sul mio presente e la mia società.
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Non si direbbe che c’è stata una strage
di Raffaele Sgarzi
È difficile immaginare quanti e quali orrori abbiano subito le persone cadute vittime nei campi di concentramento e di sterminio, eppure tutto è stato eseguito nel modo più razionale e scientifico che si potesse. Se ne parla spesso e forse è per questo motivo che raramente siamo toccati davvero da ciò che è successo. Tuttavia il viaggio che abbiamo fatto in Austria forse ha sensibilizzato più persone, io non posso dirlo con certezza, posso solo parlare per me stesso e devo dire che da questo viaggio mi è rimasto qualcosa, spunti da cui riflettere a partire dalle mie impressioni.
La prima cosa che mi è sembrata strana è che non ci si accorge nemmeno che in quei luoghi sono state compiute delle mostruosità. I luoghi certo rimangono, mi riferisco al campo di concentramento di Mauthausen e al castello di Hartheim, ma ora sono silenziosi, vuoti e desolati, popolati solo dai nomi di quelle persone che ci sono entrate senza più uscirne, scritti su lapidi o memoriali, unici indizi della strage: luoghi diventati delle necropoli.
Io pensavo che avrei percepito qualcosa di particolare, come credo abbiamo pensato tutti, ma l’unica cosa che ho sentito è stata l’assenza di qualsiasi sensazione, tanto forte da essere essa stessa una sorta di sensazione, e questo, a pensarci, mi fa raggelare. Rabbrividisco ancor più se penso che probabilmente neanche le persone che abitavano in quel periodo nei pressi di quei luoghi erano a conoscenza di cosa accadeva lì dentro: all’apparenza nulla, anzi potevano sembrare posti tranquilli, come lo sono oggi, e invece…
Ascoltando le guide, ho saputo cose che mi sono sembrate incredibili. Ad esempio nel campo di Mauthausen le persone che entravano con un peso medio intorno agli 80 kg ne uscivano, se sopravvivevano, con un peso di 40 kg. A sentire questo, provavo nella mia mente a immaginare me, che sono circa della stessa stazza, dopo aver subito lo stesso maltrattamento, e proprio non riuscivo a vedermi, perché non sapevo immaginare che aspetto potesse avere una persona dopo essere stata in un campo. Ma poi ho visto quelle foto di uomini nudi e posso assicurare che non è un eufemismo dire che erano tutti “pelle e ossa”, senza più nient’altro, forse neanche più la parvenza di essere umani…
Questo è solo un esempio del maltrattamento inflitto dai nazisti. Tutto era rivolto a una sola cosa: togliere la dignità a tutte quelle persone. Erano trattate come bestie da macello, veniva negata loro qualsiasi libertà di scelta e di pensiero. Per arrivare a ciò, prima erano private di ciò che avevano di più caro, casa, parenti e identità; così il loro spirito poteva essere demolito denutrendole e facendole lavorare con tempi massacranti, dando loro condizioni umilianti per dormire e tempi insufficienti di riposo e lasciandole in una scarsa igiene.
Addirittura le facevano ammalare di proposito, mettendole sotto docce con acqua bollente, che poi improvvisamente diventava gelida; e venivano anche aperte le finestre in pieno inverno in modo che prendessero la pleurite. Insomma, esse vivevano nel continuo terrore e allo stesso tempo diventavano sempre più dei gusci vuoti, spinti, come animali, solo dal loro istinto di sopravvivenza, tanto da essere disposte a far di tutto pur di avere un pezzo di pane in più. Alcune di loro erano scelte dai nazisti per mandare avanti il lavoro nel campo e diventavano i carnefici della strage…
E che dire, invece, di quelle persone a cui, a quei tempi, era già difficile attribuire dignità? Mi riferisco a tutte quelle persone disabili che sono state uccise nel castello di Hartheim secondo il progetto T4, con la giustificazione, addirittura, che era meglio per loro così piuttosto che lasciarle vivere in una condizione pietosa a causa delle loro malattie, o arrivando a dire, in estremo, che esse non erano nemmeno uomini perché diverse. In realtà nulla mi viene da dire, perché rimango sconcertato di quello che l’uomo può arrivare a fare, quando ci sono motivazioni, seppure insensate, a spingerlo.
Una cosa è certa: io, da questo viaggio, torno arricchito, non solo a livello culturale, ma anche con una nuova sensibilità e con il ricordo ormai fisso nella mente di questa tragedia. Come è stato ben espresso nella cerimonia ufficiale in ricordo delle vittime italiane davanti al memoriale italiano del campo di Mauthausen, ricordare questo deve essere un modo per evitare che nel futuro possano ricapitare simili episodi e che vengano calpestati i diritti umani che spettano a chiunque solo per il fatto di esistere, a prescindere dal gruppo di appartenenza o dalla malattia da cui si è affetti, così da dare pieno valore alla vita.
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Un freddo senza speranza
di Melissa Fernando

Entrare per la prima volta in un luogo dove in passato c’è stata miseria, morte e inciviltà è qualcosa che mi ha fatto sentire come tutte quelle persone che circa mezzo secolo fa vi entrarono senza sapere nulla di quello che sarebbe successo alla loro vita.
La prima cosa che notai fu la piccola entrata, che mi fece pensare che al di là di quel cancello vi fosse qualcosa di losco e di misterioso. Davanti alla guida (che faticava un po’ con la traduzione) rimasi incredula a quello che raccontava. Parlava dell’indifferenza delle SS, che, per distogliere l’attenzione da quello che stava succedendo, facevano il bagno nella piscina mentre i prigionieri lavoravano fino alla morte.
Salendo le scale, ricordo di aver osservato a lungo una lastra di pietra in memoria di tutte le persone entrate in quel campo. La maggior parte provenivano dall’Est dell’Europa: ricordo che vi erano russi, rumeni, polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, italiani, spagnoli e francesi. Ogni persona veniva etichettata come se fosse un prodotto da catalogare. Nel momento in cui entravi, ti toglievano tutto, il nome, la dignità, l’umanità, sostituendo tutto con un numero e un tatuaggio sul braccio.
Visitare quei luoghi mi ha messo ansia e agitazione, dato che, avendo guardato in precedenza numerosi film e letto dei libri, ero a conoscenza degli accadimenti. Ma niente di tutto ciò che leggiamo può descrivere la sensazione che dà andare sul luogo.
La cosa che mi colpì di più fu il filo spinato che circondava tutta la fortezza; insieme ad esso mi impressionò molto entrare nelle camere a gas: in apparenza sembravano semplici docce, ma il freddo di quel luogo rendeva tutto senza speranza di via d’uscita. Il freddo si sentiva chiaramente, la guida ci disse che facevano 10° sotto zero (o anche meno), e l’oscurità era padrona, come lo era la morte.
A Mauthausen non entrammo a visitare i crematori, ma li visitammo a Gusen, che fungeva da sottocampo. La sua funzione era quella di fornire manodopera (di deportati) per l’estrazione di granito. I deportati lavoravano duramente nella cava, scavando gallerie sotterranee perché tutto doveva rimanere segreto. A Gusen visitammo i forni crematori, dentro i quali venivano messe fino a quattro persone, per il fatto che le persone che morivano stremate pesavano 20 kg. Capii, sentendo ciò che la guida diceva, che Gusen era un luogo di duro lavoro, un cui le persone venivano torturate fino alla dolce morte. Niente era meglio della morte…
Nel momento del congedo dal campo, rimasi colpita dal fatto che attorno a quel luogo di sterminio fossero costruite abitazioni e mi chiesi come quella gente potesse vivere lì, sapendo tutto ciò che vi era successo nel passato. È importante ricordare questi luoghi, per non dimenticare ciò che è accaduto, per fare in modo che nelle persone non ci sia indifferenza davanti a questi fatti, ma che ne rimanga la consapevolezza.
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Gironi danteschi sulla Terra
di Kim Avenido
È stato un viaggio intenso in tutti i sensi: fisicamente è stato impegnativo e al contempo mi ha fatto molto riflettere. Siamo stati catapultati in una realtà completamente diversa da quella che viviamo tutti i giorni, in una realtà in cui la possibilità di scegliere non esisteva, in cui non si era certi di vedere l’alba del giorno dopo, una realtà surreale causata da un governo dagli ideali immorali e da un leader di una nazione che era “malata” dall’interno.
Ciò che descrivono i documentari, i film e i libri non è paragonabile al contatto concreto che ho avuto in quei luoghi di morte e di disperazione: i crematori, le camere a gas, il “muro del pianto“, il castello dove abbiamo visto tutte quelle foto e letto il nome di tutte quelle persone ridotte ad oggetti e chiamate “pezzi”. Ho visto la fame, la discriminazione e il razzismo di quello che si può chiamare uno dei maggiori crimini della storia.
I nazisti avevano dato ai deportati anche un marchio che li divideva in gruppi a seconda della propria razza, religione, orientamento politico e sessuale, della condizione fisica (disabili). Li dividevano in gruppi perché diversa era la condanna per ogni gruppo, come Dante divise il suo Inferno in gironi, e difatti quei campi di concentramento erano paragonabili a un inferno sulla Terra.
Un’altra cosa che mi ha colpito molto è il fatto che i nazisti volessero sterminare le altre “razze” per fare risaltare ancora di più la “razza ariana”, e che oltre a uccidere persone di altre nazionalità arrivassero persino a eliminare i bambini tedeschi “malati”, che non erano considerati degni di essere veri ariani.
Questo viaggio è stato chiamato “della memoria” perché, anche se molte persone vogliono dimenticare tutto questo, e molte persone addirittura negano l’esistenza di certi avvenimenti, questo viaggio è fatto per continuare ad avere la forza di ricordare. Ricordare i volti di milioni di persone e leggerne il nome, almeno di sfuggita, per farle “rivivere” in questo presente. Ricordare per avere una base su cui costruire ciò che speriamo sia un futuro migliore.
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Mancano le parole
di Matteo Cioce
Negli anni scolastici ho avuto la possibilità di incontrare testimonianze di ebrei e deportati nei campi di concentramento che sono riusciti a sopravvivere, e di documentarmi leggendo libri che fanno capire ciò che è successo più di mezzo secolo fa; però quello che questo viaggio mi ha fatto capire è che, se non visiti di persona questi posti, non riuscirai mai a capire e a renderti conto di quello che i nazisti hanno fatto. Il viaggio della memoria che la mia classe ha effettuato in terra austriaca per visitare il campo di concentramento di Mauthausen è stato perciò molto toccante e per certi aspetti anche pesante da vivere.
Abbiamo raggiunto il campo a metà mattina del 30 gennaio. Un campo sperduto e situato a ridosso di una cava di granito che veniva sfruttata dall’esercito nazista. È una struttura molto grande e studiata in modo maniacale. Una guida in un arco di due ore ci ha fatto visitare tutto il campo. In una giornata di freddo polare, in cui la temperatura si aggirava intorno agli zero gradi e tirava un vento gelido, abbiamo visitato le docce, le camere a gas, le prigioni, i forni crematori, le baracche e il museo storico.
Non vi sono parole per descrivere questi posti e i metodi usati per lo sterminio: è incredibile come dalla mente di una persona si sia messo in moto un odio di massa contro gli ebrei e qualsiasi razza diversa da quella ariana. La condizione di vita dei deportati era allucinante. Venivano mal nutriti, erano costretti a patire un freddo gelido con pochi stracci usati come vestiti e dovevano fare lavori forzati per molte ore. A fine visita è avvenuta una commemorazione dei deportati italiani che hanno perso la vita nel campo.
La giornata si è conclusa con la visita al castello di Hartheim, luogo usato per il progetto T4: sperimentazione e sterminio delle persone con handicap. Questo castello, situato in una posizione isolata vicino al campo di Mauthausen, veniva usato come centro per pseudo-ricerche scientifiche sui disabili, che si concludevano con l’uccisione dei soggetti nelle camere a gas. Questo castello poi si trasformò in una delle sedi più importanti del nazismo e lì sono stati ritrovati molto documenti che i nazisti non riuscirono a far sparire alla fine della guerra, su quello che accadeva nel castello e sugli esperimenti che vi si svolgevano.
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Uno scandalo che continua ancora oggi
di Stefania Cappella
È stato un viaggio particolare, da un lato interessante, dall’altro sconvolgente. Non so esattamente cosa mi aspettassi di vedere, forse baracche fatiscenti e disordinate; invece no, era tutto maniacalmente pulito, ordinato e organizzato. Una delle cose che più mi ha colpito è stato l’ambiente circostante, il contrasto tra la bellezza del panorama al di fuori delle mura di Mauthausen e la sensazione di abbandono e tristezza all’interno.
Durante la visita, mentre la guida spiegava e raccontava, è stato terribile ma facile immaginare la folla di persone che scendeva dal treno e camminava verso il campo di concentramento, si fermava davanti al “muro del pianto” e poi veniva ammassata nelle baracche e mandata a morte nelle camere a gas. La cosa che invece non sono proprio riuscita a concepire è come questa follia abbia potuto accecare tante persone, ma soprattutto come un essere umano abbia potuto fare tanto male a un suo simile.
Mi chiedo come si possa odiare tanto qualcuno che neanche si conosce e come l’uomo possa dimostrarsi tanto debole da farsi soggiogare dalle parole di un folle, e tanto vigliacco da colpire chi non è in grado di difendersi, come ad esempio i disabili che venivano portati al castello di Hartheim e segnati, se presentavano disabilità con determinate caratteristiche, con una croce sulla schiena e mandati alle camere a gas, per poi spedire i corpi ai vari scienziati del regime perché li studiassero.
Mi ha colpito la viltà del sistema, in quanto ai deportati veniva tolta ogni volontà, anche quella di difendersi. Essi arrivavano infatti da un viaggio di giorni passati in condizioni disumane, stremati, ammucchiati, ridotti a stracci. Perdevano quindi completamente la propria dignità, venivano torturati in tutti i modi possibili; infatti, oltre a vivere in condizione di denutrizione, dovevano lavorare nella vicina cava di granito, utile alla ricostruzione della riva del Danubio a Linz, trasportando massi da 25 kg con una cesta, con la consapevolezza che comunque non sarebbero sopravvissuti.
Incredibile anche come, per non sporcarsi le mani e, forse, per sentirsi la coscienza meno sporca, le SS escogitassero sempre nuovi modi, sempre più indiretti e che non le coinvolgessero in prima persona, per uccidere: dalla morte per asfissia nelle camere a gas o nelle camionette che viaggiavano da Mauthausen a Gusen e viceversa, al far morire i deportati di freddo e di malattia; fino ad arrivare a farli precipitare nella cava facendo in modo che un condannato a morte spingesse giù l’altro.
Questa è una delle tecniche di sterminio che mi ha più colpita, come anche quella della mela, che consisteva nel lanciare una mela al di fuori delle recinzioni e nell’ordinare ai deportati di andare a prenderla. Ed ecco qua l’inganno: gli uomini che eseguivano l’ordine venivano fucilati con l’accusa di aver tentato la fuga: chi invece non obbediva e non andava a raccogliere la mela, veniva ucciso per insubordinazione. In qualunque caso dovevi morire.
Pensandoci, spesso mi chiedo come queste persone, dopo aver fatto tanto male, abbiano potuto continuare a vivere, come si siano mischiati alla gente comune. Mi chiedo con quale coraggio siano riusciti a guardare negli occhi le altre persone e a guardare loro stessi. Potrei rispondermi che lo hanno fatto perché sotto l’effetto di una propaganda martellante, oppure perché vi erano costretti addirittura per sopravvivere, ma in realtà non c’è risposta, perché quello che hanno fatto non è giustificabile.
L’amara verità è che ancora oggi persistono, seppure su scala ampiamente ridotta, atteggiamenti d’odio di questo genere, infatti proprio pochi giorni fa sono state arrestate delle persone che hanno bruciato il negozio di un uomo e avevano intenzione di violentare una ragazza solo perché di origine ebrea.
Scandaloso è anche il fatto che ancora oggi si aggrediscano i più deboli, coloro che non possono nemmeno parlare, e che queste aggressioni arrivino proprio dallo Stato, sotto forma, ad esempio, di ritiro dei finanziamenti per i malati di SLA o più semplicemente di tagli alla ricerca e alla sanità; è facile immaginare le conseguenze di queste scelte.
Ancora più scandaloso è che persistano e dilaghino, soprattutto nei giovani, atteggiamenti di superiorità nei confronti del diverso e atteggiamenti di razzismo nei confronti degli extracomunitari. Queste persone sono le più ignoranti, quelle che quando parli di questi argomenti non vogliono ascoltare, non vogliono sapere, quando invece l’unico nodo per evitare che tutto questo si ripeta è ricordare, è parlare, è informarsi, è avere il coraggio di non negare e affrontare i fatti e la storia senza voltare lo sguardo, senza chiudere gli occhi per non vedere le atrocità di cui l’uomo ha dimostrato di essere capace.
Solo così potremo essere sicuri di non ripetere l’errore; errore che, senza contare coloro che ai campi di concentramento non sono mai arrivati e coloro che sono morti subito dopo la liberazione dei campi, è costato la vita a 6 milioni di persone.
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Un forte odore di legno marcio
di Emanuele Borgonovo
Prima di vedere Mauthausen abbiamo visitato uno dei suoi sottocampi, quello di Gusen, di cui è rimasto solo il forno crematorio, incredibilmente stretto, considerato che ci dovevano entrare corpi umani.
Il resto del campo è stato sostituito da case abitate: a vederle mi sono subito chiesto come fanno quelle persone a vivere in un luogo del genere. Dopo aver visto il forno crematorio, siamo andati nel museo che si trova accanto, in cui ci sono piantine del sottocampo e foto di alcune persone che sono state imprigionate là dentro, così magre che si potevano vedere le ossa del bacino e le costole, come se fossero dei fantocci per i film dell’orrore.
Successivamente siamo andati al campo di Mauthausen, che, da lontano, sembra un castello, se non fosse per il filo spinato in cima alle mura. Una volta entrati nel campo, passando per una strada ghiaiosa e salendo per delle scale, si può vedere un magnifico paesaggio montano, con parecchia neve e le case in lontananza. Peccato che il luogo da cui lo ammiravo era un luogo di tortura e di morte. Siamo passati attraverso il luogo in cui i prigionieri aspettavano le SS, mentre ascoltavamo la guida che ci illustrava le varie torture fisiche e psicologiche che i prigionieri dovevano subire, come aspettare per molto tempo, nudi, sulla neve.
Successivamente siamo entrati nelle baracche in cui i prigionieri dormivano, in gran numero nonostante lo spazio molto ristretto, ma non ricordo il numero esatto, perché non riuscivo a seguire bene il discorso della guida per via del forte odore di legno marcio. Usciti dalle baracche, abbiamo visto le docce e la lavanderia, in cui i vestiti venivano ripuliti dai parassiti grazie a un insetticida, lo stesso utilizzato per uccidere i prigionieri nelle camere a gas: evidentemente i nazisti li consideravano come insetti.
Dopo siamo entrati nelle camere a gas, dove c’era un forte odore di cemento bagnato, e in una stanza in cui i prigionieri venivano visitati per vedere se avevano denti d’oro; poi venivano portati in un’altra stanza dove dicevano loro che dovevano fare delle foto, ma in realtà di uccidevano con un colpo di fucile alla nuca. La guida ci mostrava come il pavimento di quella stanza fosse rosso per rendere le macchie di sangue meno visibili. Dopo ancora abbiamo visto un cimitero costruito al posto della quarantena, dove i malati venivano lasciati morire mentre, accanto, le SS facevano ginnastica come se non accadesse nulla di strano.
Dopo la visita a Mauthausen e dopo avere preso una boccata d’aria pulita, abbiamo visitato il castello di Hartheim, in cui venivano uccisi molti portatori di handicap per via della distorta visione di selezione naturale di Hitler; il castello divenne il primo forno crematorio del campo di Mauthausen. Questo viaggio mi ha avvicinato maggiormente al tema dell’olocausto, grazie alla visita dei luoghi in cui si è consumato.
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Un turbinio di domande
di Michelangelo Bovoloni
Il 30 gennaio abbiamo visitato il sottocampo di Mauthausen, Gusen, il quale non mi ha impressionato molto; ciò fu dovuto probabilmente all’enorme numero di immagini relative ai deportati e ai campi. Poco dopo visitammo il campo di Mauthausen, il quale invece mi ha lasciato sensazioni di disgusto e di curiosità scientifica-morale sulla popolazione tedesca degli anni 40 del Novecento.
Le sale all’interno del campo, soprattutto la camera a gas e la sala dedicata all’eliminazione dei “pesi morti” mi provocarono tutte un senso di stupore, il quale si trasformò subito in un turbinio di domande del tipo: ma quanto tempo ci hanno messo per progettarlo? Ma come ha fatto, a quei fanatici, a venire in mente un piano così subdolo, meschino, atroce e nello stesso tempo così redditizio? Ma come mai tutti erano così disposti a seguire quei pazzi scellerati con così tanta devozione?
Dopo essermi posto questi enigmi profondi e, penso, comuni a tanti, purtroppo o per fortuna non mi diedi, come non mi sono dato ancora oggi, una risposta soddisfacente. Solo il tempo potrà dirmi e mostrarmi forse la via per risolvere questi “misteri”.
Al termine della giornata visitammo, infine, il meglio dell’Austria, cioè il castello di Hartheim. Si presenta in un ottimo stato e ben rifinito e, sebbene abbia ospitato il luogo di eliminazione della “feccia” della “razza ariana”, ciò non mi scosse né mi incuriosì particolarmente, perché dopo Mauthausen questo sembrava un “parco giochi”.
La sua peculiarità, che è il più grande e terribile lascito di questo viaggio, è fornita dalla sua orribile storia negli ultimi anni della guerra, ossia la sua trasformazione da parte dei nazisti in un asilo, per non far conoscere le atrocità commesse in quel luogo. La vile trasformazione subita da Hartheim mi ha profondamente reso consapevole di quanto possa essere spregevole l’essere umano, ma soprattutto di quanto un uomo possa essere eccessivamente leale, tanto da essere cieco nei confronti di ciò che accade veramente, solo per credere a una illusione per lui assai migliore della realtà.
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La catena di montaggio dell’orrore
di Simone Altamore
Nei tre giorni di viaggio della memoria in Austria abbiamo potuto vedere con i nostri occhi una serie di luoghi prima a noi noti solo grazie a film, foto, libri e racconti. Dopo un giorno intero di viaggio siamo giunti a Linz, dove abbiamo pernottato. Linz era una città industriale già ai tempi del nazismo: è stato curioso notare quanto i campi di concentramento e di sterminio fossero poco distanti da città di modesta importanza come Linz.
Il secondo giorno abbiamo visitato il sottocampo di Gusen. Qui abbiamo potuto vedere e sentire, grazie alla guida, le condizioni inumane in cui i detenuti dei campi vivevano. Mi ha molto colpito la parte adibita a museo, in cui vi erano fotografie che documentavano le atrocità subite da ebrei, zingari e prigionieri politici.
Mi ha stupito anche vedere quante nazioni, tra cui alcune non protagoniste della guerra ed estranee al nazismo, abbiano voluto lasciare un tributo ai caduti: era scritto su grandi lastre di marmo poste subito fuori dal forno crematorio adibito a memoriale. Il messaggio che traspariva dalle lastre era lo stesso, sintetizzando era: non dimenticare.
Successivamente siamo giunti a Mauthausen, il vero e proprio campo di concentramento. Il campo è classificato come “campo di punizione 3”, riservato quindi ai cosiddetti “irrecuperabili”.
Entrando ci si ritrova in un ampio spazio asfaltato, molto simile al giardino di un castello, alla fine del quale, dopo una breve scalinata, si accede allo spazio che permette l’ingresso al “muro del pianto”. Quest’ultimo era il luogo di accoglienza, se così si può definire, dei deportati, nonché uno dei luoghi di tortura preferiti dalle SS. Di questo campo è importante dire che non furono solo le SS a sporcarsi le mani, ma furono in primo luogo i Sonderkommando, ossia i deportati che, per pochi privilegi, schiavizzavano, torturavano e si sfogavano sugli altri detenuti.
Dopo il “muro del pianto” abbiamo visitato il forno crematorio, le camere a gas, la sala di tortura e le baracche dei deportati. Mi ha fatto riflettere vedere come venissero impiegate le migliori tecnologie del tempo per sterminare in maniera efficiente. La gestione del campo mi ha fatto venire in mente una catena di montaggio, in cui tutto è programmato in maniera tale da essere il più veloce possibile.
Nel pomeriggio abbiamo visitato il castello in cui venivano effettuati esperimenti di tipo bio-medico (questo era il pretesto) su bambini disabili. Molti sono stati inorriditi al comprendere fin dove possa spingersi l’odio dell’uomo per l’uomo. In questo luogo le persone venivano trattate alla stregua di topi da laboratorio. Mi ha colpito scoprire, ad esempio, che sui “pazienti” si sperimentasse quale gas mortale sarebbe stato più utile e versatile nei campi di concentramento: gli esperimenti venivano fatti con criterio, perizia e sangue freddo, pur sapendo che il “paziente”, sotto tutti i punti di vista ritenuto inferiore a colui che compiva l’esperimento, sarebbe morto.
Qui, come a Mauthausen, i morti si contano a decine di migliaia. Oltre a fare il classico e ovvio commento che “la Shoah è una cosa terribile”, voglio puntualizzare che quanto è accaduto, purtroppo, è proprio della parte più terribile e oscura dell’indole umana.
Sinceramente non credo si dovrebbe escludere a priori che quel periodo buio possa riverificarsi; si sta progressivamente perdendo sensibilità nei confronti delle atrocità dei campi di sterminio. Credo inoltre che i fanatici siano in ogni nazione e se il caso, nel senso machiavelliano del termine, vorrà che riappaia un “grande dittatore” nel momento opportuno, allora i nostri discendenti dovranno vedere il passato che, terribilmente e inesorabilmente, si ripeterà.
Tutti sappiamo ormai come sia facile pilotare le menti di una parte delle masse e, perdendo esse sensibilità nei confronti della realtà, il passato potrebbe realmente ripresentarsi.
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Difficile immaginare
di Gabriele Licciardello
Entrando nel campo si è percepito subito il cambiamento di atmosfera. Nel momento in cui ti accingevi a entrare in una stanza o molto più semplicemente a porti davanti a un muro, la tua mente automaticamente si proiettava in quel determinato periodo, immaginando tutte le sofferenze che le persone hanno dovuto sopportare e le condizioni in cui dovevano vivere.
Nel corso del viaggio abbiamo potuto visitare i campi di Mauthausen e di Gusen. Entrambi i campi sono situati in aree molto vaste e isolate dai centri abitati. Questa scelta era premeditata per evitare contatti con il mondo esterno ed eventuali fughe da parte dei prigionieri.
Le persone che venivano imprigionate in questi campi non immaginavano quello che avrebbero dovuto passare. All’interno di questi campi noi visitatori abbiamo visto foto che documentano le condizioni di vita dei prigionieri, lasciati morire al freddo senza uno straccio sul corpo: persone senza più tracce di umanità, senza più nome né capelli, poiché ciò che li identificava era unicamente un numero inciso sulla pelle.
Nel corso di questa esperienza mi sono chiesto molte volte come una persona, un ufficiale tedesco, potesse detestare così tanto un essere umano, al punto da privarlo di ogni libertà ed esigenza naturale, costringendolo a lavorare per ore e ore in gallerie sotterranee. Uno strumento di sterminio che mi ha molto colpito e impressionato è il forno crematorio. Questi forni furono progettati apposta per “persone” che pesavano dai 20 ai 30 kg: uno strumento spietato che si poneva come obiettivo il più rapido possibile genocidio degli ebrei.
I forni crematori non sono l’unica cosa che mi ha colpito: i nazisti furono in grado di studiare e inventare qualsiasi mezzo di sterminino possibile, come ad esempio la camera a gas, una stanza di una portata di circa 500 persone, che venivano uccise con l’ausilio di un gas in grado di togliere la vita in breve tempo.
I prigionieri di questi campi non erano solamente ebrei, vi erano anche numerosi italiani e slavi. I prigionieri ebrei, al loro arrivo nei campi, erano obbligati a portare dei triangoli gialli sugli abiti, che qualificavano visivamente il tipo di “colpa” per la quale erano stati internati.
Dopo aver visitato i campi, abbiamo visitato il castello di Hartheim. In un primo tempo il castello appariva bello e allegro, con una struttura suggestiva, ma, se ti fermavi a riflettere su ciò che un tempo vi accadeva, rimanevi amareggiato. Gli ufficiali nazisti vi passavano il tempo attuando esperimenti su bambini e su persone con delle disfunzioni fisiche o psichiche. Questi esperimenti consistevano nell’inserire dei batteri o dei virus nel corpo umano. Una volta effettuato questo mostruoso esperimento, se il gruppo di persone infettate moriva, gli ufficiali ordinavano ulteriori trasferimenti dai campi di concentramento al castello.
Quanto ho visto mi ha fatto molto pensare. Ritengo sia obbligatorio fare in modo che ciò non avvenga più, in particolare gli esperimenti sui bambini, che nel corso della storia sono sempre stati considerati degli esseri puri, non ancora segnati dal male dell’umanità.
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MATERIALI

Come si fa a fare pranzo dopo Auschwitz?
Una selezione di poesie di autori contemporanei sulla Shoah. «“Come si fa a scrivere una poesia dopo Auschwitz?” chiese Adorno [...] “e come si fa a fare pranzo dopo Auschwitz?” obiettò una volta Mark Strand. Comunque sia, la generazione a cui appartengo ha dimostrato di riuscire a scrivere quella poesia» (Iosif Brodskij, Discorso per il Nobel, 1987) (vedi qui).
Auschwitz, la memoria e il presente
Se la solidarietà con le vittime dei Lager soddisfa la nostra buona coscienza, la domanda che qui intendo invece affrontare è questa: che cosa ci può accomunare se non con i carnefici, almeno con il conformismo consenziente, o con l’indifferenza al destino altrui, o con il non voler sapere per evitare responsabilità, con tutti quegli atteggiamenti, insomma, che hanno permesso che Auschwitz avvenisse? (Stefano Levi Della Torre, qui)
Come insegnare Auschwitz?
Se ricordare è un dovere e se il riconoscimento del valore politico e civile di tale memoria non può essere un’acquisizione naturale ma il frutto di un’educazione oltre che dell’istruzione, come educare a ricordare? Come insegnare Auschwitz? (Luigi Monti, qui)
Le leggi razziali
A qualsiasi ufficio od impiego nelle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche e private, frequentate da alunni italiani, non possono essere ammesse persone di razza ebraica… Alle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private, frequentate da alunni italiani, non possono essere iscritti alunni di razza ebraica… Nelle scuole d’istruzione media frequentate da alunni italiani è vietata l’adozione di libri di testo di autori di razza ebraica. (vedi qui)
piccoli consigli al ventenne che in italia studia la shoah
Diffida delle mode. Oggi la Shoah è una moda… La Shoah non può essere imposta dall’alto, per circolare ministeriale… Non sono cose che si possano imporre per decreto. Attento a chi vuole imporre dall’alto il Dovere di ricordare. Quando s’impongono cose dall’alto, il ribellarsi è giusto… Adesso bisogna trovare il coraggio di dire che il fascismo non è solo Salò e l’Italiano, ebreo e non, è stato Fascista. (Alberto Cavaglion, piccoli consigli al ventenne che in italia studia la shoah, qui)
Dati storici, testimonianze, documenti, filmati sono disponibili nella pagina dedicata alla “Giornata della memoria” su ForumScuole.
Una bibliografia a cura degli Amici della Biblioteca di Sesto San Giovanni qui.
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LA SETTIMANA SCOLASTICA
I successi della ministra, l’infelicità della scuola
L’ultima della ministra: gli stipendi sono “emergenze. Dopo un balletto di notizie, venerdì 17 in Consiglio dei Ministri il Governo ha approvato un Decreto che mette fine alla vicenda del recupero dei 150 euro dagli stipendi degli insegnanti. Il Decreto pone le condizioni per il recupero degli scatti stipendiali del 2012, che dovranno essere negoziati con l’ARAN.
Per questi scatti viene accantonata la somma di 120 milioni di euro derivante dai risparmi provenienti dai tagli effettuati dall’ex ministra Gelmini. Il resto dovrà provenire da un nuovo taglio al fondo di istituto, poiché, dichiara la ministra Carrozza, il Miur non ha soldi per le emergenze.
I 150 euro (eventualmente) decurtati nello stipendio di gennaio 2014 saranno recuperati con una emissione straordinaria. Inoltre il Decreto ripristina gli scatti stipendiali per il 2014, stabilendo che per il 2014 “non trova applicazione” il blocco previsto dalla Manovra correttiva del 2010 (dl 78, misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria). Per l’anno 2013 rimane invece il provvedimento di blocco previsto dal governo.
Non è stata affrontata, invece, la questione relativa al personale ATA, relativamente alla restituzione della retribuzione per lo svolgimento delle mansioni superiori, anche se a qualche osservatore sembra di capire che a partire dal 2014 al personale Ata potranno essere riconosciute nuove posizioni economiche. L’organizzazione sindacale ANQUAP proclama lo stato di agitazione. Anche i dirigenti scolastici rischiano un taglio, in media di più di 1.700 euro l’anno. Ancuni sindacati proclamano lo stato di agitazione.
La Gilda degli insegnanti chiede che sugli scatti degli anni 2012-2013 si vada rapidamente al negoziato; così anche la Cisl e la Uil.
Una colletta per Saccomanni? La Flc Cgil ribadisce la sua

contrarietà alla drastica riduzione del fondo per il miglioramento dell’offerta formativa, che determinerà un ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro del personale e della qualità della scuola, oltre alla riduzione del salario accessorio.
Netta anche l’opposizione di Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir:
Oramai siamo al gioco delle tre carte. Ma è il momento di dire basta: come sindacato ci stiamo impegnando al massimo per impugnare, presso la CEDU, l’indebita sottrazione di fondi. È assurdo che, anziché stanziare risorse ad hoc, si perseveri nella linea di sottrarre fondi per la formazione. Di questo passo ci ritroveremo con i soldi del Miglioramento dell’Offerta Formativa praticamente quasi tutti dirottati sul canale stipendi.
Le conseguenze sono presto dette: come commenta Lucio Ficara,
se si continua su questa strada il fondo di istituto sparirà del tutto e rimarranno, forse, pochi spiccioli solo per collaboratori del dirigente e funzioni strumentali. I funerali dell’autonomia sono certi, manca solo di conoscerne la data.
Mila Spicola anziché un taglio al Fondo d’Istituto propone tra gli insegnanti una colletta per Saccomanni:
Bene per il governo che abbia rimediato alla restituzione degli scatti d’anzianità di noi docenti, ma non vorrei che a pagarmi questa elemosina fosse la mia scuola togliendo fondi ai ragazzi.
Adesso ci toccherà fare una Petizione per una colletta a Saccomanni? Ha bisogno dei miei 30 euro da docente o di toglierli ai ragazzi per salvare la Patria? Mi impegno ad andarglieli a restituire direttamente a mano in quel caso. A Churchil venne chiesto di tagliare l’arte e la cultura per affrontare la guerra e lui rispose: e per che cosa dovremmo combattere allora? Noi che guerra dobbiamo combattere? Una guerra con la Scuola o una guerra contro la Scuola?
Gli stipendi in Europa. La vicenda dei 150 euro è stata l’occasione per dare un’occhiata a quanto succede in Europa. La “Rete sui sistemi educativi e politiche in Europa” con lo studio “Teachers’ and School Heads’ Salaries and Allowances in Europe, 2012/13, ci fornisce un quadro complessivo degli stipendi dei docenti europei. Scopriamo così che gli stipendi dei docenti italiani sono inferiori al 2009, mentre il potere d’acquisto è ai livelli del 2000. I salari d’ingresso sono sotto la media, in uscita la distanza dagli altri Paesi aumenta.
Come documenta Giovanni Scancarello, tutti i paesi europei, oltre a fissare un salario di base minimo per i docenti, prevedono una serie di incrementi salariali legati, per lo più, all’anzianità di servizio, agli straordinari e alle responsabilità supplementari.
Recentissime dichiarazioni della ministra Carrozza indicano il rinnovo del contratto degli insegnanti una vera e propria priorità. Ma
Dove pensa il ministro di trovare le risorse finanziarie necessarie, per rinnovare un contratto che è scaduto da oltre 4 anni? Cosa metterà sul piatto della bilancia per invogliare i sindacati ad aprire un serio tavolo di confronto?
Insegnanti a rischio. In questa situazione, gli studi del prof. Vittorio Lodolo D’Oria confermano che tra le “professioni di aiuto“, il lavoro dell’insegnante sembra essere il più esposto al rischio di patologia psichiatrica. Ma non solo: anche le malattie tumorali potrebbero nascere da un meccanismo legato allo stress psico-fisico.
Ad aumentare lo stress si aggiunge il politico di turno. Adesso è la volta di Ilaria Capua di Scelta Civica, la quale, a dispetto del suo assenteismo (62,81% di presenze al voto elettronico alla Camera) pensa “che nessun lavoratore abbia così tanti privilegi come gli insegnanti e ripropone l’aumento delle ore di lezione frontale. Commenta Marina Boscaino:
La disonestà intellettuale sottesa e il qualunquismo che ne anima i presupposti, rappresentano la spiegazione più lampante dei motivi per i quali un Paese che un tempo produceva eroi, santi e navigatori è diventato la patria di nani sguaiati e di sedicenti ballerine.
A ciò si aggiunga che l’Italia è il Paese con meno giovani docenti di tutta l’area Ocse: solamente lo 0,1% dei nostri insegnanti di ruolo ha meno di 30 anni. Mentre il 60% ha più di 50 anni, contro una media Ocse del 36%.
Un decreto sul reclutamento. La ministra Carrozza ha predisposto un decreto ministeriale che modifica in parte l’attuale Regolamento sulla formazione iniziale degli insegnanti. Il decreto prevede, fra l’altro, che chi consegue l’abilitazione potrà farla valere da subito nelle graduatorie di istituto, in attesa del loro consueto aggiornamento triennale. Sarà un modo per valorizzare l’abilitazione conseguita con il TFA.
Ma i docenti abilitati con il TFA e l’Anief rilevano che il provvedimento è tardivo e ininfluente, in quanto la maggior parte delle supplenze per l’a.s. 2013/14 è già stata assegnata, e presentano delle loro proposte affinché in qualche modo sia compensato il danno subito.
Il Miur sta anche predisponendo il bando per la partenza del secondo ciclo dei Tirocini Formativi Attivi che sarà emanato entro febbraio. Secondo quanto affermato da ilfattoquotidiano.it, il Miur starebbe pensando anche a una differenziazione di punteggio tra abilitati con il TFA e abilitati con il PAS nel prossimo aggiornamento delle graduatorie, mentre non esclude che sia bandito un nuovo concorso nel 2014.
La promessa di Letta alla scuola. L’agenzia Eurydice ha pubblicato un dossier sugli investimenti nell’istruzione da parte dei paesi europei. Pochi gli stati che hanno disinvestito sulla scuola, tra questi l’Italia. La spesa italiana per gli studenti delle scuole elementari, medie e superiori non cresce dal 1995.
Nell’anno scolastico 2012-2013 i contributi volontari delle famiglie alla scuola italiana sono stati pari a 335 milioni di euro: prima erano chiesti per progetti particolari, oggi per l’ordinaria amministrazione. C’è allarme per la pulizia nelle scuole: dopo che un video del Movimento 5 Stelle rivela una situazione da Terzo mondo partono le denunce ai NAS.
In una nota del gruppo alla Camera dello stesso Movimento 5 Stelle si legge: nella previsione di spesa del Miur per il 2014 ci sono 23 milioni di euro in meno, perciò il presidente Letta deve dimettersi così come ufficialmente promise.
I successi della ministra, l’infelicità degli studenti. Malgrado tutto alla Robofesta di Pisa la ministra di è dichiarata soddisfatta del suo operato:
Io credo che abbiamo colto, nel settore dell’istruzione e non solo, anche successi importanti che oggi ci vengono riconosciuti da studenti e docenti e che non si vedevano da anni.
Contemporaneamente viene reso pubblica una indagine. La Organisation for Economic Co-operation and Development è andata a indagare i Paesi in cui gli alunni sono più felici. E l’Italia come sempre non è messa bene: gli studenti italiani a scuola non si sentono felici.
Silenzio sulla Costituente. Al momento non se ne sa più niente. Poche le proposte inserite nell’hashtag twitter #costituente, lanciata dal profilo twitter del Ministro Carrozza.
Silenzio anche sull’Invalsi. Dall’8 gennaio è calato un gran silenzio sull’Invalsi. Il comitato presieduto da Tullio De Mauro ha iniziato a vagliare i c.v. dei candidati alla presidenza dell’Istituto. Non si conoscono i nominativi degli aspiranti e nemmeno quanti sono. Nel frattempo qualche proposta è stata fatta alla ministra.
Ad esempio Vincenso Pascuzzi propone alla ministra di effettuare, sui 5 nominativi che saranno individuati dal comitato, delle primarie consultive fra tutti i docenti e i presidi. Altra possibilità potrebbe essere il sorteggio tra i 5 candidati che saranno selezionati.
Intanto fioccano le critiche all’uso del test Invalsi agli esami di Terza media e, in prospettiva, all’Esame di Stato. Così arriva l’invito di Vincenzo Pascuzzi:
Ci pensi, valuti e provi a farlo un “time out” ai test in 3ª media, ministro Carrozza.
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RISORSE IN RETE
Le puntate precedenti di vivalascuola qui.
Per il nuovo anno scolastico
Un fascicolo della Flc Cgil su organici, dimensionamento, nuovo codice di comportamento e altre materie.
Indicazioni utili di Orizzonte Scuola su contratti, assunzioni, calendari.
Su ForumScuole una pagina dedicata al DL n. 104/2013 L’istruzione riparte.
Da TuttoScuola Sei idee per rilanciare la scuola qui.
Su ForumScuole tutti i tagli all’istruzione per il 2012.
Su PavoneRisorse una approfondita analisi delle ricadute sulla scuola della finanziaria di agosto 2011.
Tutte le “riforme” del ministro Gelmini.
Per chi se lo fosse perso: Presa diretta, La scuola fallita qui.
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Dove trovare il Coordinamento Precari Scuola: qui; Movimento Scuola Precaria qui.
Il sito del Coordinamento Nazionale Docenti di Laboratorio qui.
Cosa fanno gli insegnanti: vedi i siti di ReteScuole, Cgil, Cobas, Unicobas, Anief, Gilda, Usb, Cub, Coordinamento Nazionale per la scuola della Costituzione, Comitato Scuola Pubblica.
Finestre sulla scuola: ScuolaOggi, OrizzonteScuola, Edscuola, Aetnanet. Fuoriregistro, PavoneRisorse, Education 2.0, Aetnascuola, La Tecnica della Scuola, TuttoScuola

Spazi in rete sulla scuola qui.
(Vivalascuola è curata da Nives Camisa, Giorgio Morale, Roberto Plevano)

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