Il piacere perverso della letteratura. Intervista a Roland Barthes
13 gennaio 2014 su www.leparoleelecose.it
di Enrico Filippini
[«A me Filippini è sempre apparso
come l’uomo che nel momento giusto si poneva le domande giuste», ha
detto una volta Alfredo Giuliani: il che, specie se riferito a un uomo
che dell’intervista ha fatto un singolare ed efficace strumento di
indagine culturale, non è poco. Ma «intervista» è in fondo un termine
che va un po’ stretto alle conversazioni di Filippini. «Con un minimo di
strategia - ha scritto Sanguineti - si riuscirebbe a leggere tutte le
interviste di Filippini come una serie di autointerviste: intervistava
se stesso». Ne è ora testimonianza il primo dei due volumi degli
scritti di Enrico Filippini, Frammenti di una conversazione interrotta,
in cui Castelvecchi propone, per la cura di Alessandro Bosco, un’ampia
scelta commentata delle interviste che tra il 1976 e il 1987 Filippini
realizzò per «Repubblica» con alcuni dei più importanti protagonisti
della scena culturale del secondo Novecento. La conversazione con Roland
Barthes, che presentiamo qui ai nostri lettori, fu originariamente
pubblicata il 26 maggio del 1979].
Parigi – Roland Barthes. «Caro Roland
Barthes…». È talmente amabile, cortese e soprattutto «lui», che viene
spontaneo apostrofarlo così. Al telefono mi ha detto che si sente a
terra, vuoto, come un citron pressé, un limone spremuto. Ma
adesso arriva tutto bello liscio e sorridente, appena asimmetrico sotto
il baschetto blu. Si accende un «cigarillo» sorridendo, e la sensazione
è: di agio, di piacere, di felicità – sopra una lontanissima mestizia.
È immediato anche il piacere di sedergli
accanto. Come Foucault, Barthes è professore al Collège de France: 26
ore di lezione all’anno aperte a tutti, cioè idealmente a tutta la
nazione: è il «collegio della Francia». Ma a differenza di Foucault, che
emana la chiusa energia dei grandi amministratori del Sapere, Barthes
sembra sempre ritornare da un perversissimo festino. È il suo festino
permanente con la letteratura, il suo ininterrotto «godimento», la sua
laboriosissima «jouissance». Agli occhi di un altro, Barthes «è» la letteratura, anche se quest’idea un po’ iperbolica potrebbe dispiacergli.
Caro Roland Barthes, come le dicevo mi
sto occupando degli intrecci misteriosi tra linguaggio, scrittura,
politica, storia… Lei ha sempre abitato nel linguaggio, nella scrittura.
E mi dicono che molti giovani oggi si riconoscono in lei. Ma non posso
pretendere che me lo spieghi lei, il desiderio dei suoi lettori…
Mi guarda con gratitudine, sorridendo.
Ormai il suo lavoro copre una trentina d’anni…
«Sì, ho cominciato a pubblicare dopo i
trent’anni perché nella mia giovinezza ho passato sei anni in sanatorio.
Sei anni di malattia. Vivo con sei anni in meno…».
I suoi primi articoli sono del ’47, su Combat. Il suo primo libro del ’53, Il grado zero della scrittura. Il primo «grande successo» del ’57, Mythologies (in italiano Miti d’oggi).
…ci si potrebbe entrare da mille porte.
Ma facciamo così: tutto il suo lavoro è attraversato dall’interesse ai
mezzi di comunicazione di massa…
«Sì, ma un interesse ambiguo. Il mio
vero interesse costante è stato per la scrittura, la pratica letteraria,
che implica una maggior sinuosità…». Se c’era una parola che avrebbe
riassunto tutto, ecco, l’ha detta: «sinuosità». «I mass-media erano un
oggetto da decifrare e da criticare. L’ho fatto prima con un linguaggio
marxista o meglio sartriano, al tempo delle Mythologies, poi con un approccio che si voleva scientifico, al tempo della semiologia».
Dice «al tempo della semiologia» come se
parlasse di secoli lontani. Allude agli anni ’64-’67, quando imperava
lo strutturalismo e lui cercava di trovare un metodo «scientifico» per
capire cosa fanno gli uomini quando parlano, quando «producono senso».
«I mass-media mi interessano sempre. Ma
quando ero giovane ero più combattivo. E il mondo era diverso. Oggi vedo
di più le ambivalenze di quella cultura, odiosa e amabile… Oggi, o io
invecchio, o i mass-media hanno più presa: li vivo come una minaccia per
la mia libertà. Il mio atteggiamento è un po’ quello del si salvi chi
può…».
Dunque si sente molto lontano dalle Mythologies?
(Vi si parlava di tutto ciò che ingombra
la vita quotidiana, dal filetto al sangue ai settimanali alle
poetesse-bambine; di tutto ciò che nella vita sembra «naturale» e non lo
è perché è un effetto di linguaggio).
«C’è sempre in me una pulsione
mitologica; se così posso dire; ma oggi non c’è più un unico sistema
mitologico. Per una ragione storica e politica. È cambiata la figura
della Sinistra. Ci sono mitologie a destra, ma anche a sinistra. Il
potere della cultura delle mitologie attraversa le lotte di classe e si
mescola alla delusione verso i regimi comunisti… È difficile situarsi.
Si può adottare un atteggiamento combattivo, oppure un atteggiamento più
filosofico e più saggio: di presa di distanza… C’è anche un problema di
struttura psicologica personale: io non amo la violenza, è un problema
che non so risolvere. E poi, che cosa può fare lo scrittore? I mezzi di
un tempo sono logorati, firmare petizioni è derisorio, scrivere vuol
dire scrivere per gli intellettuali: è acqua sulla gomma, ça glisse, scivola via… Ecco, non so che fare, sono disorientato».
Ma forse anche i media scivolano via: sulle masse…
«È una riflessione che andrebbe fatta. I
media forse non mordono. Ma creano immagini. Le società avanzate
attuali hanno un consumo enorme di immagini e un consumo minimo di
credenze. Nelle società islamiche avviene il contrario. Così, le società
liberali sono meno fanatiche, ma meno autentiche. Sono dominate da un
immaginario generalizzato quale non è mai esistito al mondo… Persino la
Chiesa cattolica: l’immaginario è intatto, la credenza…».
Quando R. B. (così gli piace firmarsi)
ebbe finito di analizzare, prima coi mezzi del marxismo sartriano («Il
mio marxismo» dice «era comunque un marxismo aberrante; mi ci ero
strusciato contro attraverso il trozkismo, che era una maniera di non
essere stalinisti..»), poi con quelli della semiologia e dello
strutturalismo («per me», dice, «era una pratica di demistificazione dei
discorsi, ma al super-io politico era succeduto il super-io
scientifico»…), scrisse un piccolo libro che potrebbe essere l’insegna
di tutta la sua opera: Le plaisir du texte, il piacere del testo. «…Il testo che tu scrivi deve fornirmi la prova che mi desidera.
Questa prova esiste: è la scrittura. La scrittura è questo: la scienza
dei godimenti del linguaggio, il suo kamasutra (e di questa scienza c’è
un solo trattato: la scrittura stessa)…». Era il 1972. Ed eccolo qui il
segreto: tutto il lavoro del «secondo Barthes», S/Z (analisi di un racconto di Balzac), Sade, Fourier, Loyola, Nuovi saggi critici, persino un Roland Barthes,
un libro su se stesso, è dedicato alla «scienza dell’agio dei godimenti
del linguaggio». Il segreto dei suoi festini, e dell’inaudita libertà
di cui sembra godere, è tutto qui.
E poi c’è anche una libertà della letteratura…
«Quando mi allontanai dalla semiologia,
si trattava di ritrovare il soggetto che parla, che dice, che scrive. La
semiologia vive in qualche modo della morte del soggetto. Ma per quanto
riguarda la libertà della letteratura, la letteratura non è più
sostenuta da immagini positive nella società. E lo scrittore non è più
un valore. Per esempio: i suoi libri non si vendono. In Francia l’ultimo
scrittore è stato forse Malraux. Sartre è stato una cerniera: tra lo
scrittore e ciò che è venuto dopo, il polemista. Il fatto stesso che si
parli di me come di uno scrittore, significa che la società francese ha
bisogno di scrittori, ma non li sa o non li può produrre e non li sa
riconoscere».
Oltre che dei mass-media e della
letteratura, lei si è sempre occupato anche della storia. Sto pensando
al suo amore per Michelet, il grande storico della Rivoluzione francese.
«Michelet, è esatto. Ma prima di tutto
la sua storia è una storia allucinata. In secondo luogo è una grande
meditazione sulla morale. In terzo luogo la sua, più che una storia, è
un’etnografia della cultura francese: si occupa del corpo, del
nutrimento, dell’abbigliamento… È il tipo di storia che mi attrae».
Ma Michelet indicava anche un grande appuntamento con la storia.
«Sì, formidabile. Ma poi, nella memoria
culturale, è diventato uno scrittore radical-socialista, laico, di un
progressismo che oggi appare a molti molto sospetto».
Vuol dire che gli appuntamenti con la storia non sono mai quelli che uno immagina che siano?
«In un certo senso… Forse».
Lei aveva preso di recente un appuntamento settimanale coi lettori del «Nouvel Observateur»…
«Sì, ma ho interrotto. Non ero
soddisfatto. Ho scritto quindici cronache e poi ero stanco. C’era
un’interrogazione sul mio lavoro, e riguardava di nuovo i mass-media.
Volevo far sentire la mia voce, una voce non gloriosa, non perentoria,
non obbligata alla retorica della forza e della sicurezza come quella
dei giornalisti, che pure hanno molto talento: discreta, esercitata su
piccoli problemi, la voce di uno scrittore…».
Non ha funzionato?
«Non ero soddisfatto».
Sono difficili gli appuntamenti con la storia?
«Non so. A vent’anni c’è il mondo. Ci si
può pronunciare. Poi passa il tempo. Dopo un certo tempo, trascorso
chissà dove, non si sa se il mondo è cambiato o se sono io che sono
cambiato… È difficile pronunciarsi».
Cioè, la storia non esiste?
«Proprio così. La storia è la biografia».
Si scusa. Deve telefonare. Stavo per
domandargli un migliaio di cose. Sapendo già «da dove» sarebbero venute
le risposte. Ha scritto di sé, in quel libro su Roland Barthes: «A volte
ha voglia di lasciar riposare tutto quel linguaggio che c’è nella sua
testa, nel suo lavoro, negli altri, come se il linguaggio fosse
anch’esso una delle membra affaticate del corpo umano; gli sembra che se
si riposasse dal linguaggio, si riposerebbe tutto intiero, grazie a un
congedo concesso alle crisi, agli echeggiamenti, alle esaltazioni, alle
ragioni, ecc. Vede il linguaggio nelle parvenze di una vecchia donna
affaticata…».
Torna dal telefono. Sorride. Ci sono
tanti modi di essere contemporanei della propria storia, che non esiste.
«Caro Roland Barthes…».
[Immagine: Roland Barthes].
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