16 gennaio 2014

intervista a Roland Barthes


Il piacere perverso della letteratura. Intervista a Roland Barthes

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di Enrico Filippini

[«A me Filippini è sempre apparso come l’uomo che nel momento giusto si poneva le domande giuste», ha detto una volta Alfredo Giuliani: il che, specie se riferito a un uomo che dell’intervista ha fatto un singolare ed efficace strumento di indagine culturale, non è poco. Ma «intervista» è in fondo un termine che va un po’ stretto alle conversazioni di Filippini. «Con un minimo di strategia - ha scritto Sanguineti - si riuscirebbe a leggere tutte le interviste di Filippini come una serie di autointerviste: intervistava se stesso».  Ne è ora testimonianza il primo dei due volumi degli scritti di Enrico Filippini, Frammenti di una conversazione interrotta, in cui Castelvecchi propone, per la cura di Alessandro Bosco, un’ampia scelta commentata delle interviste che tra il 1976 e il 1987 Filippini realizzò per «Repubblica» con alcuni dei più importanti protagonisti della scena culturale del secondo Novecento. La conversazione con Roland Barthes, che presentiamo qui ai nostri lettori, fu originariamente pubblicata il 26 maggio del 1979].

Parigi – Roland Barthes. «Caro Roland Barthes…». È talmente amabile, cortese e soprattutto «lui», che viene spontaneo apostrofarlo così. Al telefono mi ha detto che si sente a terra, vuoto, come un citron pressé, un limone spremuto. Ma adesso arriva tutto bello liscio e sorridente, appena asimmetrico sotto il baschetto blu. Si accende un «cigarillo» sorridendo, e la sensazione è: di agio, di piacere, di felicità – sopra una lontanissima mestizia.
È immediato anche il piacere di sedergli accanto. Come Foucault, Barthes è professore al Collège de France: 26 ore di lezione all’anno aperte a tutti, cioè idealmente a tutta la nazione: è il «collegio della Francia». Ma a differenza di Foucault, che emana la chiusa energia dei grandi amministratori del Sapere, Barthes sembra sempre ritornare da un perversissimo festino. È il suo festino permanente con la letteratura, il suo ininterrotto «godimento», la sua laboriosissima «jouissance». Agli occhi di un altro, Barthes «è» la letteratura, anche se quest’idea un po’ iperbolica potrebbe dispiacergli.
Caro Roland Barthes, come le dicevo mi sto occupando degli intrecci misteriosi tra linguaggio, scrittura, politica, storia… Lei ha sempre abitato nel linguaggio, nella scrittura. E mi dicono che molti giovani oggi si riconoscono in lei. Ma non posso pretendere che me lo spieghi lei, il desiderio dei suoi lettori…
Mi guarda con gratitudine, sorridendo.
Ormai il suo lavoro copre una trentina d’anni…
«Sì, ho cominciato a pubblicare dopo i trent’anni perché nella mia giovinezza ho passato sei anni in sanatorio. Sei anni di malattia. Vivo con sei anni in meno…».
I suoi primi articoli sono del ’47, su Combat. Il suo primo libro del ’53, Il grado zero della scrittura. Il primo «grande successo» del ’57, Mythologies (in italiano Miti d’oggi).
…ci si potrebbe entrare da mille porte. Ma facciamo così: tutto il suo lavoro è attraversato dall’interesse ai mezzi di comunicazione di massa…
«Sì, ma un interesse ambiguo. Il mio vero interesse costante è stato per la scrittura, la pratica letteraria, che implica una maggior sinuosità…». Se c’era una parola che avrebbe riassunto tutto, ecco, l’ha detta: «sinuosità». «I mass-media erano un oggetto da decifrare e da criticare. L’ho fatto prima con un linguaggio marxista o meglio sartriano, al tempo delle Mythologies, poi con un approccio che si voleva scientifico, al tempo della semiologia».
Dice «al tempo della semiologia» come se parlasse di secoli lontani. Allude agli anni ’64-’67, quando imperava lo strutturalismo e lui cercava di trovare un metodo «scientifico» per capire cosa fanno gli uomini quando parlano, quando «producono senso».
«I mass-media mi interessano sempre. Ma quando ero giovane ero più combattivo. E il mondo era diverso. Oggi vedo di più le ambivalenze di quella cultura, odiosa e amabile… Oggi, o io invecchio, o i mass-media hanno più presa: li vivo come una minaccia per la mia libertà. Il mio atteggiamento è un po’ quello del si salvi chi può…».
Dunque si sente molto lontano dalle Mythologies?
(Vi si parlava di tutto ciò che ingombra la vita quotidiana, dal filetto al sangue ai settimanali alle poetesse-bambine; di tutto ciò che nella vita sembra «naturale» e non lo è perché è un effetto di linguaggio).
«C’è sempre in me una pulsione mitologica; se così posso dire; ma oggi non c’è più un unico sistema mitologico. Per una ragione storica e politica. È cambiata la figura della Sinistra. Ci sono mitologie a destra, ma anche a sinistra. Il potere della cultura delle mitologie attraversa le lotte di classe e si mescola alla delusione verso i regimi comunisti… È difficile situarsi. Si può adottare un atteggiamento combattivo, oppure un atteggiamento più filosofico e più saggio: di presa di distanza… C’è anche un problema di struttura psicologica personale: io non amo la violenza, è un problema che non so risolvere. E poi, che cosa può fare lo scrittore? I mezzi di un tempo sono logorati, firmare petizioni è derisorio, scrivere vuol dire scrivere per gli intellettuali: è acqua sulla gomma, ça glisse, scivola via… Ecco, non so che fare, sono disorientato».
Ma forse anche i media scivolano via: sulle masse…
«È una riflessione che andrebbe fatta. I media forse non mordono. Ma creano immagini. Le società avanzate attuali hanno un consumo enorme di immagini e un consumo minimo di credenze. Nelle società islamiche avviene il contrario. Così, le società liberali sono meno fanatiche, ma meno autentiche. Sono dominate da un immaginario generalizzato quale non è mai esistito al mondo… Persino la Chiesa cattolica: l’immaginario è intatto, la credenza…».
Quando R. B. (così gli piace firmarsi) ebbe finito di analizzare, prima coi mezzi del marxismo sartriano («Il mio marxismo» dice «era comunque un marxismo aberrante; mi ci ero strusciato contro attraverso il trozkismo, che era una maniera di non essere stalinisti..»), poi con quelli della semiologia e dello strutturalismo («per me», dice, «era una pratica di demistificazione dei discorsi, ma al super-io politico era succeduto il super-io scientifico»…), scrisse un piccolo libro che potrebbe essere l’insegna di tutta la sua opera: Le plaisir du texte, il piacere del testo. «…Il testo che tu scrivi deve fornirmi la prova che mi desidera. Questa prova esiste: è la scrittura. La scrittura è questo: la scienza dei godimenti del linguaggio, il suo kamasutra (e di questa scienza c’è un solo trattato: la scrittura stessa)…». Era il 1972. Ed eccolo qui il segreto: tutto il lavoro del «secondo Barthes», S/Z (analisi di un racconto di Balzac), Sade, Fourier, Loyola, Nuovi saggi critici, persino un Roland Barthes, un libro su se stesso, è dedicato alla «scienza dell’agio dei godimenti del linguaggio». Il segreto dei suoi festini, e dell’inaudita libertà di cui sembra godere, è tutto qui.
E poi c’è anche una libertà della letteratura…
«Quando mi allontanai dalla semiologia, si trattava di ritrovare il soggetto che parla, che dice, che scrive. La semiologia vive in qualche modo della morte del soggetto. Ma per quanto riguarda la libertà della letteratura, la letteratura non è più sostenuta da immagini positive nella società. E lo scrittore non è più un valore. Per esempio: i suoi libri non si vendono. In Francia l’ultimo scrittore è stato forse Malraux. Sartre è stato una cerniera: tra lo scrittore e ciò che è venuto dopo, il polemista. Il fatto stesso che si parli di me come di uno scrittore, significa che la società francese ha bisogno di scrittori, ma non li sa o non li può produrre e non li sa riconoscere».
Oltre che dei mass-media e della letteratura, lei si è sempre occupato anche della storia. Sto pensando al suo amore per Michelet, il grande storico della Rivoluzione francese.
«Michelet, è esatto. Ma prima di tutto la sua storia è una storia allucinata. In secondo luogo è una grande meditazione sulla morale. In terzo luogo la sua, più che una storia, è un’etnografia della cultura francese: si occupa del corpo, del nutrimento, dell’abbigliamento… È il tipo di storia che mi attrae».
Ma Michelet indicava anche un grande appuntamento con la storia.
«Sì, formidabile. Ma poi, nella memoria culturale, è diventato uno scrittore radical-socialista, laico, di un progressismo che oggi appare a molti molto sospetto».
Vuol dire che gli appuntamenti con la storia non sono mai quelli che uno immagina che siano?
«In un certo senso… Forse».
Lei aveva preso di recente un appuntamento settimanale coi lettori del «Nouvel Observateur»…
«Sì, ma ho interrotto. Non ero soddisfatto. Ho scritto quindici cronache e poi ero stanco. C’era un’interrogazione sul mio lavoro, e riguardava di nuovo i mass-media. Volevo far sentire la mia voce, una voce non gloriosa, non perentoria, non obbligata alla retorica della forza e della sicurezza come quella dei giornalisti, che pure hanno molto talento: discreta, esercitata su piccoli problemi, la voce di uno scrittore…».
Non ha funzionato?
«Non ero soddisfatto».
Sono difficili gli appuntamenti con la storia?
«Non so. A vent’anni c’è il mondo. Ci si può pronunciare. Poi passa il tempo. Dopo un certo tempo, trascorso chissà dove, non si sa se il mondo è cambiato o se sono io che sono cambiato… È difficile pronunciarsi».
Cioè, la storia non esiste?
«Proprio così. La storia è la biografia».
Si scusa. Deve telefonare. Stavo per domandargli un migliaio di cose. Sapendo già «da dove» sarebbero venute le risposte. Ha scritto di sé, in quel libro su Roland Barthes: «A volte ha voglia di lasciar riposare tutto quel linguaggio che c’è nella sua testa, nel suo lavoro, negli altri, come se il linguaggio fosse anch’esso una delle membra affaticate del corpo umano; gli sembra che se si riposasse dal linguaggio, si riposerebbe tutto intiero, grazie a un congedo concesso alle crisi, agli echeggiamenti, alle esaltazioni, alle ragioni, ecc. Vede il linguaggio nelle parvenze di una vecchia donna affaticata…».
Torna dal telefono. Sorride. Ci sono tanti modi di essere contemporanei della propria storia, che non esiste. «Caro Roland Barthes…».
[Immagine: Roland Barthes].

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