Si predica l’inclusione e si pratica la separazione. Nell’anno in cui si parla di BES (Bisogni Educativi Speciali), si allestiscono classi separate per studenti stranieri realizzando nelle scuole una odiosa apartheid: classi-ghetto a Bologna, come prima ad Alte Ceccato (Vicenza), a Costa Volpino (Bergamo), a Landiona (Novara)… La Lega Nord ne approfitta per riproporre le “classi separate per i bambini stranieri che non sanno l’Italiano”, ignorando quanto dicono linguisti ed esperienze: che la migliore integrazione si realizza sui banchi di scuola. In questa puntata di vivalascuola Marina Boscaino fa un quadro della problematica dell’inclusione degli studenti stranieri nella scuola italiana, Carmelo Cassalia avanza alcune proposte, Beatrice Damiani esprime il disagio dell’insegnante quando la scuola diventa un ghetto.
Parlano di inclusione e praticano la separazione
di Marina BoscainoI minori rappresentano 1/5 di tutti i migranti: sono circa 1 milione, con un trend di aumento di 100.000 unità l’anno. Occorrerà fare presto e sensatamente i conti con questi dati. Le nazionalità presenti nella scuola italiana sono ben 191: percorsi, viaggi, storie differenti, tutte caratterizzate dallo snodo cruciale, che è la migrazione e la fatica esistenziale che essa comporta. L’energia indispensabile per un riadattamento in una realtà sconosciuta, con una lingua a volte incomprensibile, modelli culturali estranei, sovente indifferenza ai saperi e al saper fare già acquisito, che vengono confinati, come il senso della vita altra, quella del “prima“.
L’identikit dei più “vulnerabili“: nati all’estero e giunti da noi dopo i 10 anni; arrivano ad anno scolastico già avviato; provengono dal contesto africano; maschi. L’esperienza scolastica non è facilissima: i ragazzi italiani in ritardo sono l’11,6% della popolazione scolastica, quelli migranti il 42,5%. Il maggior ritardo si accumula proprio nella scuola superiore, con il 24,4% degli italiani, cui si contrappone il 71,8% dei ragazzi stranieri. Il 40,7% dei giovani migranti sono inseriti nell’istruzione professionale, il 37,6% in quella tecnica; le rispettive percentuali degli italiani sono 19,9% e 35%: troppo evidente ancora una volta come nel nostro Paese la scuola media abbia rinunciato a qualsiasi funzione orientativa e traghetti destini socialmente determinati nei vari segmenti delle superiori – quando ci si arriva.
C’è stato un tempo in cui avevamo altri occhi verso di loro. Si è trattato di quel breve e felice periodo in cui “multiculturale” era una parola promettente e potenzialmente piena di significato, disponibile ad interpretazioni lungimiranti, aperte, inclusive, presaghe della costruzione di un mondo di uguaglianza, di diritti e doveri per tutti, di accoglienza e arricchimento in essa, di mediazione e reciproco arricchimento. Le migliori esperienze scolastiche vennero raccolte e tesaurizzate nemmeno 10 anni fa in un documento interessante, La via italiana per la scuola interculturale, del 2007. Poi sono diventati un problema: scuri o gialli, incapaci di apprezzare il nostro cibo, con altri culti ed abitudini, diversi. Stranieri, insomma. E troppi. E sono iniziati gli anni bui.
Annus horribilis 2008 (ministro Gelmini). Uno dei più lungimiranti spiriti della Lega Nord, Roberto Cota, propone la mozione in tema d’accesso degli studenti migranti alle classi dell’obbligo, su cui allora si discuteva. Da “classi ponte”, dopo un acceso dibattito, si giunge alla denominazione “Classi d’inserimento“; come affermò l’allora vicepresidente della Camera Italo Bocchino, per “rendere più evidente l’obiettivo della proposta, ossia l’integrazione degli studenti“. Il testo impegnava il governo a “rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, favorendo il loro ingresso, previo superamento di test e specifiche prove di valutazione“. A chi non avesse superato i suddetti test venivano messe a disposizione le “classi ponte che consentano agli studenti stranieri di frequentare corsi di apprendimento della lingua italiana, propedeutiche all’ingresso degli studenti stranieri nelle classi permanenti“.
Sostanzialmente, chi non era in grado, da qualunque paese provenisse e qualsiasi fosse la sua lingua madre, avrebbe trovato ad accoglierlo – classi ponte o d’inserimento che si chiamassero – il ghetto delle diversità, il serraglio nel quale far pascolare – tutti insiemi – gli esclusi dal consesso della normalità. Nel giugno di quello stesso anno il ministro dell’Interno Roberto Maroni torna sulla questione Rom e alla commissione Affari Costituzionali della Camera annuncia che anche ai minori saranno prese le impronte digitali. Il secondo medioevo italiano stava assestando i suoi fendenti.
Un anno dopo, siamo nel 2009, l’articolo 45 del Ddl sicurezza prevede (ancora nel testo approvato alla Camera) al comma 1 lettera F non solo che i genitori dovranno esibire il permesso di soggiorno per iscrivere i propri bambini a scuola (ricordate l’incipit dell’art. 34 della Costituzione: la scuola è aperta a tutti?); ma soprattutto che – in mancanza di tale adempimento – i presidi sarebbero stati costretti a sporgere denuncia: presidi-spia, dopo i medici-spia, anch’essi previsti dai sagaci politici del centrodestra imperante.
Non persone, senza diritto, senza il pedegree appropriato: una nuova, meno esplicita, ma violentissima, guerra santa, scatenata anche sollecitando il dovere – dall’altra parte della barricata, dalla parte di quelli nati dalla parte giusta – di denunciare le non-persone per poterle rispedire il più rapidamente possibile nell’unico posto dove meritano di stare: l’abbandono, la povertà, la fame, la violenza. Piatto ricco, per i nostalgici dell’ “ordine”. Ma qualcosa è andato storto. Le “classi ponte” o “di inserimento” sono state dimenticate. I provvedimenti razzisti delle impronte e dei presidi spia sventati dall’opposizione dura dentro e fuori dal Parlamento. Ma non fino in fondo.
È notizia recente: 22 alunni, tra gli 11 e i 15 anni, in una classe di una scuola media bolognese, dove nessuno è italiano, tranne i docenti. Si tratta di una prima media che, a detta del dirigente, è stata formata in extremis in agosto, raccogliendo ragazzi arrivati proprio allora in Italia.
In qualsiasi scuola di qualsiasi segmento del nostro sistema di istruzione agosto è senz’altro un mese utile per rimettere mano alle classi, anche se le si sono formate in precedenza. L’assegnazione dei docenti ad esse, così come la pubblicazione dei libri di testo che i ragazzi devono acquistare sono atti seguenti quella data. Da qualche tempo, peraltro, i Cobas sostengono che nella classe sarebbero confluiti non solo studenti stranieri appena arrivati dai loro paesi di origine ma anche alunni già presenti nella scuola e che altri potrebbero entrarvi anche ad anno iniziato: la classe si configurerebbe, dunque, come “contenitore” per stranieri, con bisogni speciali, cui verrebbe riservata una didattica altrettanto speciale, a prescindere dall’età e dalla loro situazione specifica.
È evidente che, se così fosse, ci troveremo al cospetto di un pericolo immenso: quello di individuare il criterio della pratica della separazione come risposta alle difficoltà di integrazione.
Non consolano le rassicurazioni del dirigente, Emilio Porcaro, che afferma: “Fanno diverse materie con i compagni di altre classi, mangiano insieme e partecipano alle uscite con gli altri“. Ci mancherebbe altro. Già nel 2008 i linguisti del Sig (Società italiana di glottologia), Sli (Società di linguistica italiana), Aitla (Associazione italiana di linguistica applicata) e Giscel (Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica) criticarono convintamente le classi ponte allora previste.
Un ulteriore elemento di riflessione giunge dal Coordinamento dei presidenti dei Consigli di Istituto, che richiamano l’attenzione su una questione solo apparentemente tecnica (le competenze degli organi collegiali, in un “progetto” come quello della scuola media Besta di Bologna), ma che in realtà riporta alla ribalta il problema della funzione e delle prerogative degli organi collegiali e della democrazia scolastica, recentemente rimessi in discussione da un progetto di legge che avrebbe dovuto essere presentato come collegato alla legge di Stabilità, e ritirato dal governo in seguito alla denuncia fatta da associazioni e organi di stampa. Scrive il coordinamento:
“Secondo il Dirigente dell’Istituto si tratta di un “progetto”, la cui approvazione è quindi di competenza del solo Collegio dei Docenti. In realtà la formazione delle classi non è affatto un “progetto”. Il Testo Unico sull’istruzione è molto chiaro al riguardo, ed affida questa funzione in primo luogo proprio al Consiglio d’Istituto al quale spetta definire “i criteri generali relativi alla formazione delle classi” (D. Lgs. 297/1994, art. 10 c. 4). E va comunque anche ricordato che i progetti – in ogni caso – devono essere inseriti nel Piano dell’Offerta Formativa, e spetta al Consiglio d’Istituto elaborare gli indirizzi generali del P.O.F. ed adottare il testo predisposto dal Collegio dei Docenti (Dpr 275/1999 art. 3 c. 3). Non avere sottoposto preventivamente la questione al Consiglio d’Istituto ci pare dunque un vulnus che si sarebbe dovuto e potuto evitare.”Sappiamo che la democrazia scolastica e il rispetto delle prerogative degli organi collegiali non sono principi che interessino né il centrodestra, né il centrosinistra, che negli ultimi anni hanno fatto a gara per produrre ipotesi di intervento sempre volte al depotenziamento delle funzioni degli organi stesse, dal ddl Aprea, alla pdl 953 Aprea Ghizzoni, al tentativo di collegato alla legge di Stabilità, alla delega in bianco di cui si è parlato negli ultimi giorni. Occorre però (e a maggior ragione) non sottovalutare anche la funzione che essi hanno nella garanzia di criteri che rispettino il principio di uguaglianza e determinino condizioni per cui il “la scuola è aperta a tutti”, con cui inizia l’art. 34 della Costituzione, significhi anche favorire accoglienza, cittadinanza attiva e diritti identici per i nuovi italiani che si affidano alle nostre scuole.
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