Si è firmato in molti
modi, prima Chaulieu, poi Cardan. Quando ruppe con la militanza
(prima trotskista, poi consiliarista) riprese il suo nome, ma non
perse in radicalità. Cornelius Castoriadis (1922-1997) è stato uno
dei pensatori più interessanti della seconda metà del Novecento,
irriducibile ad ogni tentativo di assimilazione da parte di un
sistema capace di digerire tutto. Lo dimostra questa riflessione sul
linguaggio appena apparsa in traduzione italiana su Alfabeta.
Cornelius
Castoriadis - La distruzione
del senso
Il linguaggio
umano comporta sempre due dimensioni indissociabili: quella
del codice, insieme di significanti (parole, espressioni o
frasi) in corrispondenza termine a termine con un insieme di
significati o referenti; e quella della lingua, grazie alla
quale il medesimo insieme di significanti veicola delle
significazioni, si rapporta a qualcos’altro rispetto a degli
“oggetti” (“reali” o “intelligibili) ben definiti e
ben determinati. “Ho comprato un cane”, “Ha un salario
di 4000 franchi al mese”: codice. “L’uomo dev’essere
libero”, “Questa società è ingiusta”, “Che fai tu,
luna, in ciel? dimmi, che fai”, “Ho fatto sedere la
Bellezza sulle ginocchia, l’ ho trovata amara”: lingua.
Non c’è
fotografia né formula chimica né definizione logica
possibile della libertà, della giustizia, della bellezza.
Sono delle semplici significazioni immaginarie sociali come lo
sono quelle veicolate da parole quali totem, tabù, mana, Dio,
cittadino, nazione, partito, Sato, ecc. Inversamente, queste
significazioni immaginarie sociali, le più importanti di
tutte, quelle che incarnate nelle istituzioni tengono insieme
ogni società, non esistono che a condizione di essere
veicolate ed espresse attraverso delle parole (Anche quando è
vietato “nominare” Dio, esso è comunque designato: “colui
che è”, ecc.). Ciò accade nella più strana di tutte le
relazioni strane alle quali il linguaggio ci confronta. In
questo caso, la relazione della “parola” con il suo
“significato” – la significazione – non può essere né
assolutamente determinata e rigida, né, nella società
considerata, totalmente arbitraria, ossia manipolabile a
piacere.
La riduzione del
linguaggio alla sua sola dimensione di codice – termini che
denotano “oggetti” ben distinti, definiti e determinati, e
segnali pavloviani che producono dei comportamenti
–accompagnata da una manipolazione totalmente arbitraria
delle parole che veicolano le significazioni è evidentemente
un tentativo di distruzione del linguaggio in quanto tale. Ed
è proprio ciò che il regime russo persegue
inconsapevolmente. Non si tratta di controllare il pensiero
degli uomini, il regime vi ha rinunciato da tempo (è anche
una delle ragioni per cui l’utilizzo, nel suo caso, della
nozione di “totalitarismo” dev’essere rivista).
Si limita a
controllare i comportamenti. Non si tratta nemmeno più –
secondo il geniale passaggio al limite immaginato da Orwell –
di rendere la sua critica linguisticamente impossibile. Si
tratta di distruggere il rapporto degli uomini con la
significazione e con il linguaggio come mezzo e veicolo di una
verità possibile, quindi di un movimento di società.
Tentando di diventare Padrone assoluto delle significazioni,
il regime finisce col distruggerle e col distruggere la
significazione in quanto tale. La distruzione di qualsiasi
attributo, stabile o mutevole, riferito a cose che non siano
“materiali” o “logiche” è abolizione della
possibilità stessa della verità.
L’affermazione
paradossale: words mean what I want them to mean non si può
realizzare che distruggendo il linguaggio. Questa rovina del
linguaggio umano, potentemente favorita anche da fattori
autoctoni, travalica da tempo le frontiere della Russia. Sotto
la pressione russo-comunista, combinata con la decomposizione
interna della società occidentale, il rapporto della parole
alle significazioni tende ad essere distrutta in tutte le
lingue. Il significato della parola “socialismo”, ad
esempio, è tutt’altro che determinato, la parola non è
univoca, non possiede il senso unico e rigorosamente
definibile dei termini anello o filtro in matematica.
Era inevitabile e,
se è permesso dirlo, una fortuna che così fosse: altrimenti
colui che avesse criticato un certo significato attribuito
alla parola socialismo avrebbe dovuto essere trattato da
ignorante o da squilibrato. Ma ecco la differenza: dalla
polisemia feconda della parola siamo passati ora alla sua
totale perversione, che non riguarda più da tempo i soli
comunisti. Quando, nel 1981, il quotidiano francese più serio
intitola una serie di articoli “Vietnam: il socialismo a
passi lenti“, ci si può chiedere se voglia introdurre in
modo subdolo nella mente dei suoi lettori l’idea che il
socialismo siano i campi di concentramento e la dittatura
totalitaria del partito unico oppure se, continuando in tal
modo una tradizione quasi secolare dei grandi spiriti liberali
e progressisti dell’Occidente vuol fare intendere che questi
incidenti minori non saprebbero modificare in nulla l’essenza
socialista del regime Vietnamita.
In questo caso,
c’è da scommettere che non si tratti né dell’una né
dell’altra ipotesi – ma semplicemente della partecipazione
attiva alla confusione generale dell’epoca, nella quale le
parole sono utilizzate in qualsiasi modo per dire qualsiasi
cosa. In questa situazione, un discorso che mira alla verità
diventa, socialmente e sociologicamente, quasi impossibile –
il che favorisce a meraviglia gli scopi russo-comunisti. E ciò
appare altrettanto chiaro nella situazione in cui si trovano
gli avversari e i critici non reazionari del russo-comunismo,
che tendono ad essere ridotti all’afasia o all’alessia.
Sono infatti
spinti a un dilemma dai termini impossibili: o conservano
delle parole come socialismo, rivoluzione, democrazia con il
rischio sicuro di essere confusi con coloro che combattono, a
meno di essere costretti a trasformare in lunga dissertazione
terminologica ogni frase che pronunciano; oppure abbandonano,
pezzo per pezzo, tutto il vocabolario politico e sociale
irreversibilmente pervertito, e rimangono alla fine afoni.
Questo brano è
tratto dal volume Devant la guerre, Fayard, Paris, 1981, pp.
234-237.
http://www.alfabeta2.it/
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