Dal ’68 al ’77. La contestazione giovanile nello sguardo di due scrittori
14 gennaio 2014
di Clotilde Bertoni
[Si parla tanto del 68. Ma
spessissimo solo per deplorare la sua scia di sangue, i suoi cattivi
maestri, i cupi anni di piombo venuti dopo. In questi giorni, per
esempio, la Rai trasmette il secondo episodio della fiction Gli anni spezzati, uno
dei punti politicamente ed esteticamente più bassi mai raggiunti dalla
televisione di Stato. E allora, torniamo su un momento caldo di quegli
anni, la contestazione del 77, attraverso due pezzi dimenticati, di un
buon maestro, Gianni Rodari, e di uno scrittore allora giovane, Daniele
Del Giudice, usciti su "Paese Sera" l'11 febbraio 1977. Per ricordare
che quella contestazione aveva ispirazioni diverse, comunque animate da
consapevolezza e passione. Che la frangia violenta era minoritaria. E
che la scia di sangue fu voluta, o manovrata, appunto dal potere contro
cui insorgevano quei ragazzi, che Rodari amava tanto. Dedichiamo il
ripescaggio ai ragazzi di adesso, e con gli stessi sentimenti. Questo
articolo è già uscito su «Between» (III, 6, 2013)].
In un periodo in cui il Sessantotto e i
suoi sviluppi sono più che mai sotto i riflettori, e più che mai
sommersi di cliché e fraintendimenti, val la pena di ridare un’occhiata a
due articoli di Gianni Rodari e Daniele Del Giudice, legati a una
(assai meno rievocata) stagione successiva, il Settantasette: usciti al
principio di quell’anno, sul «Paese Sera» dell’11 febbraio. Sono
entrambi concepiti come commenti a caldo sulla situazione del momento;
ma entrambi, in modo diverso, vanno oltre, illuminando
significativamente la lunga durata, la complessità, le differenti
ispirazioni della protesta giovanile.
Si è all’inizio di un periodo rovente:
stanno infuriando le polemiche contro la riforma dell’università
progettata dall’allora ministro dell’Istruzione Franco Malfatti (che tra
le altre cose attacca la liberalizzazione dei piani di studio, e
propone l’aumento delle tasse di frequenza); gli studenti sono sempre
più divisi tra quelli uniti nei collettivi autonomi, e ostili a tutte le
aggregazioni politiche tradizionali, e quelli che ancora si riconoscono
nella linea della sinistra e dei sindacati; i primi hanno sfilato la
sera del 9 febbraio, i secondi, appunto insieme ai sindacati, la mattina
del 10; nei giorni successivi la spaccatura diverrà sempre più
insanabile (il 17 si verificherà l’episodio più famoso di quell’epoca,
la cacciata di Lama dalla Sapienza). Il pezzo di Rodari, tra i
principali animatori di «Paese Sera», appare in prima pagina come
corsivo sui fatti del giorno, mentre quello di Del Giudice, giovane
firma del quotidiano, figura in «Paese Sera–Libri», e riflette sui nuovi
approcci del movimento studentesco alla lettura.
Sono articoli molto utili per rivedere
gli stereotipi e le mistificazioni che impazzano attualmente. La cronaca
vivissima di Rodari – che riporta slogan, coglie al volo gesti, traccia
fulminee connessioni (citando tra l’altro un film di qualche anno primo
sulla contestazione americana, R.P.M. di Stanley Kramer) –
mette in luce la passione e la serietà che animavano anche quella fase,
punta estrema di anni di protesta ora spesso bollati tutti come una
sgangherata precipitazione verso la violenza. E l’altrettanto
imperversante tendenza a vedere quegli anni come una confutazione non
delle gerarchie o dei vecchi canoni letterari, ma della cultura tout
court, è contraddetta dalla messa a punto di Del Giudice, che sottolinea
il fervore culturale, a volte troppo ingenuo e categorico ma intenso,
del Sessantotto, e d’altronde valuta con equilibrio l’atteggiamento
molto più irriverente e insofferente verso i libri che contrassegnava il
Settantasette, provando a suggerirne le potenzialità (la fine delle
antiche soggezioni ai classici, il primato della ricezione).
Di entrambi, inoltre, colpisce
l’apertura. Quella di Del Giudice, che irride i facili anatemi, e alle
conclusioni categoriche (gli après nous le déluge di Arbasino,
con cui del resto Arbasino va avanti a tutt’oggi, e magari fosse il
solo) preferisce la libertà e la flessibilità delle ipotesi. E ancor più
quella di Rodari che, da sempre pedagogista appassionato, ormai
cinquantasettenne (e prossimo a una fine prematura), conferma il suo
amore per le generazioni del futuro, considera con fiducia anche il
movimento degli autonomi, mantiene la speranza davanti al
disorientamento in corso; e – lui ora bersagliato dalle presuntuose e
frettolose condanne dei neoliberali nostalgici – invita a osservare e
ascoltare, «senza presunzione e senza fretta».
Continua su «Between»
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