29 gennaio 2014

E. CANTARELLA: METAMORFOSI DELLE SIRENE



Ulisse udì il canto delle sirene e, unico fra i mortali, tornò a raccontarlo. Un mito che ogni società ha riletto a suo modo da Omero a Walt Disney.

Eva Cantarella

La metamorfosi delle sirene, da uccellacci a seduttrici


Non c’è alcun dubbio, il mondo dei Greci era pieno di figure mostruose, di creature dall’aspetto spesso ripugnante, a volte pericolose, a volte senza scampo mortali. Sempre, comunque, difficili da classificare, nella loro varietà.

Partendo da esseri semiumani, a ben vedere meno «mostruosi» come i Centauri, mezzi uomini e mezzi cavalli, o i Satiri, mezzi uomini e mezzi caproni, si arriva a creature dall’aspetto orripilante e disgustoso come le Erinni che, in Eschilo, accovacciate come cani, stillano sangue dagli occhi e a celebri mostri come le terribili Scilla e Cariddi. E poi, ancora, le Sirene. Proprio così, proprio loro, nell’immaginario odierno donne bellissime, seducenti e ovviamente irresistibili. Nelle raffigurazioni cinematografiche, ad esempio, hanno l’aspetto della stupenda Daryl Hannah, che nel film «Una Sirena a Manhattan» fa innamorare il protagonista al punto da indurlo a gettarsi nel mare per raggiungerla negli abissi, dove si presume vivranno per sempre felici. 

Ma per i Greci le sirene erano tutt’altra cosa, erano appunto dei mostri. Per cominciare, non erano affatto mezze donne e mezze pesci: in Omero, così come in Ovidio e più in generale nell’antichità classica, le Sirene sono donne con ali di uccello (o, se si preferisce, uccelli con testa di donna). La tradizione che le trasforma in pesci è solo medievale.

Quale sia la loro genealogia è cosa incerta. Le tradizioni sulla loro nascita sono diverse: a volte sono figlie di Melpomene e del fiume Acheloo, a volte di Acheloo e di Sterope, altre volte ancora di Acheloo e di Tersicore. Ugualmente incerto il loro numero: in Omero sono due, ma nelle tradizioni posteriori diventano tre, o anche quattro. Quando sono tre si chiamano Pisinòe, Aglaòpe e Thelxièpeia (ovvero Parthenope, Leucosla e Ligheia). A volte sono quattro e si chiamano Telès, Raedné, Molpè e Thelxiòpe. Meno controverso il luogo in cui abitavano: tre isolette rocciose, tre scogli sulla costa tirrenica dell’Italia, oggi chiamate Li Galli, tra la punta della penisola amalfitana e Capri. Ma torniamo al loro aspetto, a ben vedere molto simile a quello delle Arpie.

Figlie di Thaumas e di Elettra, discendente di Oceano, le Arpie appartenevano alla generazione divina preolimpica e abitavano le isole Strofadi, nel mare Egeo, ove — come peraltro in tutta la Grecia — godevano di pessima fama: la loro attività, infatti, consisteva nel rapire i bambini e condurre i morti nell’aldilà. Più che spiegabile, dunque, la loro frequente rappresentazione sui monumenti funebri. Al pari delle Sirene: anche queste — che così appaiono in numerose rappresentazioni, a partire dall’VIII secolo — erano demoni dell’oltretomba, grandi uccelli sgradevoli che intonavano, con voce gracchiante, lamenti funebri per ordine dei sovrani dell’Ade.



Una rappresentazione per noi sorprendente che, per capirla, è necessario aprire una parentesi sulle personificazioni greche della morte: la più celebre delle quali, forse, è Thanatos. Figlio di Notte e gemello di Sonno (Hypnos), Thanatos è molto diverso dal fratello. Questo percorre pacificamente terre e acque ed è dolce con i mortali; Thanatos invece ha cuore di ferro, spirito di bronzo e petto implacabile. Una volta afferrato un essere umano, lo tiene con sé per sempre.

Personaggio inevitabilmente temibile, Thanatos ha tuttavia tratti meno terrificanti di altre rappresentazioni della morte: più specificamente, di altre rappresentazioni della morte di genere lessicale e dal volto femminile. Morte e Sonno infatti hanno una sorella, Kera (a volte Kere, al plurale), la nera morte che terrorizza, rendendo insostenibile l’idea di un destino che pure, quando ha genere e volto maschile, viene in qualche modo accettato, con filosofica rassegnazione di fronte all’ineluttabile. E lo stesso vale per Gorgò, il mostro dal volto di donna e dallo sguardo che pietrifica, il cui solo pensiero indurrà Ulisse ad abbandonare precipitosamente l’Ade (quando, nell’Odissea, è costretto a visitarlo).

L’associazione stabilita dai Greci, le donne, la morte e le immagini mostruose di questa, quando sono femminili, è non poco inquietante. Ma non è questo il momento per parlarne. Qui e si voleva ricordare la presenza, nel mondo greco, una volta idealizzato immaginato come luogo perfetto di ogni bellezza, la presenza di immagini inquietanti immagini mostruose, che pongono interessanti interrogativi sulla vita interiore dei Greci.


Il Corriere della sera 26 gennaio 2014

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