“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
18 gennaio 2014
internet, memoria, mito e Umberto Eco
Claudio Lagomarsini - Risposta a Umberto Eco
Raccogliendo un invito dell’«Espresso» rivolto ad alcuni intellettuali («Quattordici lettere d’autore per il 2014»), Umberto Eco ha inaugurato il nuovo anno scrivendo una lettera aperta al nipote, sui temi della memoria, della conoscenza e di internet (Caro nipote, studia a memoria). Per coordinate anagrafiche il sottoscritto si trova a far parte proprio delle generazione “smemorata” dei nipoti. Non è questione di ingratitudine, ma è nella natura delle cose: i consigli dei nonni devono cadere nel vuoto perché le nuove generazioni possano individuarsi e riconoscersi. Non mi sottraggo a questo meccanismo ineluttabile e vorrei spiegare perché, da nipote potenziale, non posso essere d’accordo con Eco.
Il succo della lettera: «Caro nipotino mio, (…) coltiva la memoria, e da domani impara a memoria “La Vispa Teresa”». La premessa all’invito semiserio è la seguente (altro ritaglio): «Una malattia ha colpito la tua generazione [cioè quella del nipotino] e persino quella dei ragazzi più grandi di te, che magari vanno già all’università: la perdita della memoria».
Io (classe ’84) sono già uscito dall’università (è superfluo il fatto che stia tentando ora di rientrarci), ma faccio parte della stessa stirpe di studenti che non hanno imparato a memoria i canti della Commedia o la traduzione dell’Iliade di Vincenzo Monti (mai sentite, lo confesso, le filastrocche della Vispa Teresa). La nostra «malattia», riassumendo gli argomenti di Eco, è indotta da due fattori: scuola e internet. La scuola non insegna più a memorizzare testi e nozioni, cessando così di esercitare il cervello a trattenere ciò che lo attraversa in un flusso costante. Internet, poi, è una specie di stampella per handicappati mnemonici: se sono al ristorante con gli amici e non ricordo dov’è Kuala Lumpur, cercherò la risposta sul mio smartphone (sperando che, almeno in quel ristorante, prenda il 3G). Il problema è che, un minuto dopo, avrò obliterato tutto – questo perché, da bambino, la scuola non mi ha insegnato ad allenare la memoria: vedi supra – e la prossima volta dovrò cercare di nuovo dov’è Kuala Lumpur… Le alternative allo smartphone sono due: imparare a memoria la Vispa Teresa oppure tatuarmi informazioni sul corpo, come il protagonista del film Memento.
Riflettendo sull’argomento di Eco (riducendolo ancor di più all’osso: internet, ovvero la memoria dell’etere, asseconda la pigrizia della memoria individuale) mi è tornato alla mente il «mito di Theuth», che Socrate racconta a Fedro nell’omonimo dialogo platonico (Fedro, 274c-76a).
Anzi, visto che proprio di questo si parla, mettiamo tutte le carte in tavola: ricordavo dai miei studi liceali (forse non così disgraziati?) che Socrate non ha prodotto nessuno scritto, e ricordavo anche, molto vagamente, che il Socrate di Platone dice esplicitamente – ma dove? E in che termini? – che la scrittura è un male per la memoria e per la conoscenza. Così ho cercato su Google la stringa “Socrate scrittura” e il primo risultato (filosofico.net) mi ha dato la risposta che cercavo.
Il mito di Theuth – lo riassumo almeno per i miei coetanei smemorati – è questo: Theuth, inventore dell’alfabeto, si presenta al faraone e gli illustra la scoperta della scrittura, «una medicina per la sapienza e la memoria». Ma il faraone obietta che l’alfabeto «non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente», e che gli Egizi, una volta alfabetizzati, «cesseranno di esercitarsi la memoria, perché, fidandosi dello scritto, richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei».
Discutevo della questione con un collega medievista, su Facebook. (Mentre lo facevo pensavo anche a un altro peculiare flagello della memoria che colpirà la mia generazione: nessuno di noi lascerà un epistolario ai posteri. Nel caso peggiore moriremo dimenticandoci di rivelare le password ai nostri eredi. Oppure i miei nipotini, venuti in possesso della password di posta elettronica, troveranno qualche pensiero meno stupido, qua e là, frugando tra migliaia di lettere piene di idiozie, conferme di biglietti aerei, spam non eliminato, mie richieste di informazioni in cattivo inglese… Oppure ricostruiranno la vita del nonno facendo archeologia sulla pagina Facebook: un link a un video trash di Youtube, l’esibizione di una performance di running postata da Runtastic, le foto delle vacanze.)
Comunque, il mio collega (trentenne) tendeva a essere d’accordo con Eco, e sosteneva che i database informatici, evoluzione delle vecchie concordanze cartacee, sono un male potenziale per i giovani ricercatori, almeno nell’ambito, a me e a lui meglio noto, della letteratura medievale. Nessuno dei giovani studiosi memorizza (quindi interiorizza) i testi, cosicché, negli articoli, nelle edizioni critiche o negli interventi ai convegni, spesso e volentieri si snocciolano dati bruti, ricavati dalla «memoria elettronica» (in una nota di un saggio su uno stilnovista si dirà, ad esempio, che la tale parola compare anche nel poeta Tizio e nel trattatista latino Caio…), senza instaurare vere e attive connessioni che generano autentica conoscenza, ma limitandosi a un volgare copia-incolla.
Ora, che la malattia diagnosticata da Eco esista – nei termini di una scarsa attitudine generazionale alla memorizzazione – è più che probabile, ma tenderei a stigmatizzarne un altro aspetto. Non sono convinto, cioè, che sia pertinente coinvolgere internet nella questione (per la scuola il discorso sarebbe, se possibile, ancora più articolato e complesso). La disponibilità di una conoscenza “eterea”, attingibile in qualsiasi momento e luogo, è un bene indiscutibile e un enorme progresso dell’umanità. Sarà un disgraziato quello studioso che, mancando di intelligenza e sensibilità – due virtù che difficilmente possono essere inoculate dall’esterno – non è in grado di riconoscere, tra i molti dati reperibili in un database o in internet, quelli pertinenti al proprio discorso. Controprova: tra gli studiosi dell’era pre-informatica, non c’erano forse pozzi di memoria totalmente incapaci di stabilire le connessioni giuste? Ognuno, nei propri ambiti di ricerca, conosce i nomi.
Nel far maturare le virtù dell’individuo un ruolo importante (ma non troppo importante) ha la scuola. Se parliamo però di intelligenza e sensibilità, il discorso sulla memoria resta a margine, e chi sostiene il contrario si faccia carico di dimostrare che chi dispone di molta memoria possiede anche un’alta capacità di stabilire connessioni pertinenti tra le informazioni che ha memorizzato. Non mi pare un passaggio del tutto automatico.
Il problema è casomai un altro: per instaurare delle connessioni, bisogna sapere che, da qualche parte, c’è qualcosa da connettere. Banalmente, per trovare il «mito di Theuth» (pertinente al discorso che intendevo fare), bisogna pur sapere che c’è stato un tizio di nome Socrate. È necessario, in altri termini, possedere almeno una mappa dei saperi, insieme alla conoscenza degli strumenti, cartacei o elettronici, necessari per attingere nei luoghigiusti le informazioni più approfondite.
L’argomento di Eco, inoltre, rischia di nascondere quella che, a mio parere, è la principale virtù del modello di conoscenza «a ragnatela» (da un link all’altro) che è propria dell’esplorazione (attiva!) di internet. È esperienza comune – parlo di chi fa ricerca –consultare repertori online o anche compulsare Google Books e fare delle scoperte. Intendo scoperte per se stessi, dov’è questione di colmare le lacune della propria ignoranza, e scoperte in assoluto (la parola X, un apparente hapax che nessun dizionario menziona, si trova anche nell’edizione Y, che, per quanto erudito e affamato di letture, non avrei consultato mai e poi mai… E d’altra parte neppure i lessicografi ci erano arrivati).
All’università che ho frequentato io (Lettere moderne, anni Zero), non rimprovero di non avermi insegnato a memorizzare la Vispa Teresa (è vero, d’altra parte, che in generale ho una pessima memoria), ma di avermi fornito e costretto a memorizzare molte informazioni inutili e obsolete, senza avermi mai detto, neppure in un seminario di mezz’ora in cinque anni, che esistevano le banche dati dell’OVI e l’archivio digitale «Mirabile».
Da nipote potenziale un’altra cosa della lettera di Eco mi ha lasciato inizialmente interdetto: che cosa c’entra la divagazione iniziale sulla pornografia? Parafraso brutalmente: «Nipote che usi l’iPad, ti assicuro che le donne reali sono migliori delle pornostar dei video online. Inoltre tuo padre non sarebbe nato se io mi fossi sollazzato su internet, senza copulare nel mondo reale».
Sembrerebbe una specie di storiella simpatica per scongiurare il rischio di apparire al nipotino come un «nonno barbogio» (cit.). Invece si tratta – io credo – di una “tagliola” retorica: senza darlo a vedere, tenendolo ben nascosto nell’erba alta dell’ironia, Eco sta anticipando uno dei due argomenti che la lettera tratterà (“internet è il male”).
Ma internet – banalità delle banalità – è soltanto uno strumento. (E per il discorso specifico: anche negli anni ’40 o ’50 un adolescente si sarebbe potuto astrarre dal mondo reale sfogliando i giornaletti di Pin-up dispensati dai barbieri. Ma no, per la generazione dei nonni, il soft-porn delle Pin-up ricadrebbe nella categoria elevata del vintage. Ad ogni modo, è di questo che vogliamo davvero discutere?)
Torniamo dunque ad esercitare la memorizzazione, se è davvero un bene. Ma tenendo internet (e le memorie elettroniche) fuori dal discorso. E ricordando anche che i contemporanei di Theuth e di Platone non sono stati degli ignoranti o degli stupidi per il solo fatto di aver consegnato all’hard disk esterno di turno (la scrittura) una parte della propria memoria culturale.
Da http://www.minimaetmoralia.it/wp/risposta-a-umberto-eco/
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