Fede e dubbio segnano da sempre la condizione umana che è prima di
tutto cammino, ricerca di un altrove che ha mille volti e mille nomi.
Emanuele
Severino - L'uomo in
debito cerca la libertà
Un altro amico, e fraterno, se ne è
andato. Dove? Ognuno di noi abita una «casa» , chiamiamola
così. Attorno, a perdita d'occhio, la brughiera. Il fuoco è
acceso, la tavola imbandita. Ma capita, guardando verso la
finestra, che il vento ci faccia credere di trovarci là
fuori — e ci si dimentichi di dove siamo davvero. Si è «a
casa». Sin da prima dell'inizio dei tempi. Ci rimarremo in
eterno; la casa sarà sempre più accogliente. E invece
crediamo di vivere nella terra inospitale che ci ha ghermito
col vento. Stando là fuori diciamo: «Ecco il mondo; questa
è la vita che ci è toccata». Ci crediamo mortali. Ma
quando si muore non si va da qualche parte. Ci si risveglia
accanto al fuoco. Non più ingannati dal vento. Né
intimoriti delle ombre e dal gelo della brughiera. Una
povera favola? Non direi; ma una metafora sì: dello
Spettacolo che da gran tempo tento di indicare. (Il
tentativo è delle parole, non di ciò che esse indicano).
E Carlo Arata conosceva a fondo i miei
scritti, sin dai primi. Dopodomani, 15 gennaio, è il
trigesimo della sua morte. Una delle figure più importanti,
la sua, della filosofia italiana dal dopoguerra ai nostri
giorni. Ma estremamente schivo, nemico dei compromessi sul
piano culturale, accademico (ma professore emerito
dell'Università di Genova), politico (famiglia socialista e
antifascista, sorella deportata a Dachau).
Nato nel 1924, cattolico, si era voluto laureare con Antonio Banfi, il maestro laico e antimetafisico della Statale di Milano. Tuttavia il suo cattolicesimo è andato configurandosi in modo sempre più originale e autonomo. Si era fatto sempre più centrale per lui il principio che di Dio non si può parlare «in terza persona», riducendolo a un «Egli», sia pure con la lettera maiuscola. Invece lo si deve lasciar parlare come parla nell'Esodo: «Ego sum qui sum». In prima persona. Messo dinanzi come oggetto, lo si snatura: non è più Dio. Solo Dio può parlare di Dio. Ma, di qui, il crescente rovello di Arata, troppo filosofo per non sapere che, d'altra parte, siamo pur sempre noi a lasciar parlare Dio: proprio perché ci tiriamo da parte per fargli spazio, questo nostro sforzo finisce addirittura con l'identificare noi, che, per quanto rarefatti e ridotti, continuiamo a pensare Dio, a lui che parla.
La bestemmia più grave per chi pone Dio nel più alto dei cieli. La nostra discussione era incominciata sin dai primi anni Sessanta ed è durata fino in fondo. Pochi giorni prima di morire, aveva consegnato all'editrice Morcelliana il suo ultimo lavoro, da poco pubblicato, e anche lì la nostra discussione continua, all'interno del problema — sempre più complesso e di cui Arata è pienamente consapevole — del rapporto tra uomo e Dio.
Questo libro s 'intitola Reditio.
Un'espressione allusiva, ma anche enigmatica. Significa
«ritorno». Ritorno a un suo iniziale atteggiamento
problematico («banfiano», come egli scrive),
provvisoriamente accantonato dalla intermedia parabola
metafisico-teologica, ma che incomincia a riaffacciarsi con
la tematica a cui ho accennato qui sopra? Sembra di sì,
stando alle prime parole del saggio: «Nulla è ovvio, nulla
è scontato, tutto è problema, enigma, al limite mistero.
Questa la premessa essenziale (...) della presente Reditio».
Eppure la metafisica continua ad esser
presente anche in queste sue ultime pagine. Per le quali
l'uomo non è autore di alcunché, nemmeno di quello che
scrive (e qui Arata è d'accordo con me); ma non è autore
perché non si è «posto», non ha prodotto se stesso, non
è «causa» di sé, ma è «indebitato». E tipicamente
metafisica, appunto, è la domanda da dove provenga ciò che
noi siamo e verso «Chi» o «che cosa» noi si sia in
debito. Per Arata il problema si complica ulteriormente,
perché, pur essendo in debito, l'uomo «aspira alla
libertà», a riscattare il debito e farsi signore di sé ed
esser dunque Dio. Libertas ut Deus. E il problema si aggrava
per la presenza del male e della sofferenza universale.
Ricevuti anch'essi da «Chi», da «che cosa»? Perfino il
male patito rende l'uomo debitore verso la fonte da cui lo
riceve.
(Ma si tratta di implicazioni tutte dovute
al residuo metafisico che, nonostante le intenzioni, si è
detto, rimane vivo nel discorso di Arata).
Respinta ogni forma di pensiero che,
volendo affermare Dio, finisce col porre se stesso come Dio,
ad Arata resta la fede, del tutto consapevole della propria
insuperabile problematicità. La vicinanza alla prospettiva
luterana diventa notevole; nemmeno della propria fede l'uomo
può essere autore. Anch'essa è un dono della «grazia»;
come la speranza e la preghiera che accompagnano la
fede.
Anche la preghiera del credente proviene da «altro» — e rimane enigmatico per Arata che l'«altro» sia l'«Altro». Come rimane un enigma la promessa della fede per la quale la morte conduce nell'altra vita. L'altra vita che comunque non potrà mai essere la casa di cui narravo all'inizio e dalla quale Carlo si è sempre sentito «sommamente provocato».
il Corriere della Sera | 13 Gennaio 2014
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