22 gennaio 2014

ANTONIO BORGESE SULL'ULTIMO NUMERO DI NUOVABUSAMBRA



Domani esce il quinto numero di nuovabusambra. Ecco uno dei saggi inediti contenuti nella rivista:




Bernardo Puleio – Golia, il fascismo e Borgese

La confidenza del suo stato d'animo, della sua visione delle cose italiane, del suo giudizio sul fascismo, Borgese la fece dieci anni dopo, quando già da qualche anno si trovava negli Stati Uniti, scrivendo in inglese il libro Golia, la marcia del fascismo, che noi italiani abbiamo letto in traduzione nel I946.E dire «noi italiani abbiamo letto» è senz 'altro un'esagerazione: pochissimi italiani allora lo lessero; e nessuno lo legge oggi (L. SCIASCIA)

Una sorta di oblio è sceso sul nome di Giuseppe Antonio Borgese: se ne lamentava già una trentina d’anni fa Leonardo Sciascia, nella preziosa silloge Cruciverba, sostenendo che sul professore madonita, originario di Polizzi Generosa, si fosse abbattuta la congiura del silenzio: non lo amavano né Gramsci, né Croce che pure, per vicinanza ideologica, avrebbe dovuto amarlo. Oggi, la situazione non è molto cambiata e così sull’autore del Rubè, uno dei più interessanti romanzi del primo dopoguerra, sul brillante redattore del Corriere di Albertini- insieme al direttore, lungimirante e inascoltato sostenitore dei punti costituenti la dottrina del presidente americano Wilson—sul critico dottissimo e <<mitteleuropeo>> (aveva vissuto in Germania), sull’originale coniatore di formule esegetiche (sua l'invenzione del termine poesia crepuscolare con riferimento all'opera di Gozzano e dei suoi seguaci) sono scese le tenebre. Forse non è fuori luogo dare spazio ad un’opera autenticamente libera  e liberale, anticonformistica e laica: Golia – Marcia del fascismo.
  Il testo fu pubblicato in inglese  nel 1937, negli Stati Uniti, dove Borgese,  uno dei pochi docenti universitari a non prestare giuramento al fascismo[1] , si era trasferito, diventando genero di la figlia di Thomas Mann, abbandonando le lezioni  Estetica a Milano,  spesso, appositamente interrotte dalle squadre fasciste.
A giudizio di Borgese era stato Gentile a imporre il giuramento ai professori universitari.
Golia- Marcia del fascismo (l’edizione a cui qui si fa riferimento è apparsa come supplemento del quotidiano <<Libero>>, nel 2004) è un saggio pervaso da un senso di appassionato e malinconico pessimismo per le sorti della patria cui si aggiunge una certa nostalgia e una vena di autocritica per  via dell’esilio che appare come un non combattere il fascismo dall’interno.
E’ presente la consapevolezza che il fascismo è negazione dell’umanità, porterà a inevitabili conflitti internazionali, riducendo gli Italiani a gregge. La denuncia della tirannide, il degrado della società italiana controllata con la forza, il pressappochismo ridicolo della politica avventuriera fascista, l’incapacità dei liberali di capire e fermare in tempo il fascismo, l’alleanza tra fascismo e chiesa, la definizione della politica clericale come una più vasta forma di fascismo, caratterizzano con  tragica lucidità le pagine borgesiane.
Ricorrendo ad uno stile secco e ironico, in cui è possibile cogliere un senso di sfiducia e di dolore, l’autore,  convinto che in Italia non ci sia mai stato alcun pericolo reale bolscevico, diagnostica che il fascismo è una specie di malattia innestata sul nazionalismo congiunta alla cinica machiavellica voglia del duce di prendere il potere con la violenza.
Intrecciando valutazioni estetiche con argomentazioni storiche e sociologiche, il professore palermitano, partendo da lontano, traccia una mappa critica della scarsa coscienza morale della nazione italiana di fronte alle vicende politiche.
Interessantissime (e godibilissime) le riflessioni su Machiavelli e Cesare Borgia: anche se il quadro di riferimento sembra lontano nel tempo, le stilettate sono attualissime, avendo come destinatario ultimo Benedetto Croce, convinto (cinico?) assertore, della presunta scientificità del Principe:
L’uomo del Machiavelli era l’uomo politico o principe scientifico: Homunculus politicus. Come poteva nascere? Se era vera l’asserzione del Machiavelli che il solo metro dell’azione politica e della dottrina politica è il successo o l’insuccesso, la sua dottrina e la sua azione dovevano superare quella prova.
Ma esse fallirono.
A principe e re d’Italia egli avrebbe scelto anche il diavolo. Scelse l’uomo più vicino al diavolo che la realtà storica offrisse ai suoi esperimenti: Cesare Borgia che non era nemmeno italiano, un avventuriero di sangue spagnolo, bastardo di un papa, un mezzo genio e un mezzo eroe, un Alessandro o Napoleone lillipuziano, ma poi traditore, assassino, incendiario, un mostro sacrilego e incestuoso. Sostenuto dai delitti e dagli assassinii del padre, il papa Alessandro VI, a paragone del quale anche il maledetto Bonifacio VIII di Dante sembra un peccatore veniale, e sostenuto dalle armi di Francia, Cesare Borgia dopo avere rinunciato al suo cappello cardinalizio color rosso sangue, conquistò numerose città e castelli nell’Italia centrale. Ma, in seguito all’improvvisa morte del suo santo padre, anch’egli rapidamente rovinò: per continuare a vivere nella memoria atterrita della posterità come bagliore di meteora catastrofica, come immagine dell’Anticristo.
 (Golia- Marcia del fascismo, pag. 39)
L’attacco contro Croce, fondatore di una Scuola di Politica nel 1924, l’anno del delitto Matteotti, in cui proprio don Benedetto avrebbe protetto il Duce promuovendo una mozione di fiducia in Parlamento e dichiarando che <<il fascismo è una cosa seria>>, si fa violento  e lucidissimo atto di accusa, anche epistemologica. [2]
Senza mezzi termini, la denuncia coinvolge l’ intera classe dirigente liberale e i parolai alla D’Annunzio:

D’Annunzio, con la sua uniforme sovraccarica di medaglie, aveva fatto un discorso dal balcone e perfino il Corriere della sera, l’organo liberale e antifascista, dimenticata la sua indignazione per l’ occupazione delle fabbriche da parte degli operai un paio di anni prima, si rallegrò dell’illegalità a scopi nazionali delle camicie nere e applaudì quelle bande.[…]
Per la prima volta un artefice della parola  divenne un contraffattore di fatti, e la fantasia fu al potere; per la prima volta il sogno di un Romanticismo esasperato, di mescolare l’ispirazione poetica con la realtà della vita si era avverato. (Golia, p. 136)

Né meno tenero è il suo giudizio su altri intellettuali- in primis i futuristi- che, a suo avviso, hanno dato un contributo decisivo al successo del fascismo:

Gruppi di intellettuali energumeni, avventurieri, scrittorucoli, poetastri e imbrattatele, naturalmente o artificialmente scarmigliati, diventarono, col passar degli anni, suoi [di Marinetti] seguaci. Per quanto impastassero sulla tela i peli del pennello se dovevano dipingere un uomo con la barba, o scrivessero <<tuff tuff>> se volevano parlare della locomotiva in corsa, cinque o sei di essi avevano doti potenziali che in seguito svilupparono per conto loro. La maggior parte, comunque, rimase cretina per tutta la vita. (Golia, p. 123)
L’Italia fascista appare ai suoi occhi una classe elementare dominata da un cattivo maestro (Mussolini):
Oggi tutta l’Italia, una nazione di più di quaranta milioni di abitanti, non è che una classe elementare, dove tutti dal re e dai professori d’università fino al rozzo contadino, sono stati rimessi in calzoncini corti, a sillabare in coro le parole che il maestro nero ha scritto sulla lavagna. Ai bambini, quando sono disubbidienti, si può infliggere una punizione corporale; lo stesso, in fondo, si può fare con gli adulti. (Golia, p. 154)
Le punizioni d’altronde sono improntate a un codice penale che ricorda i metodi dell’Inquisizione spagnola:
Il giurista che preparò la forma legale di questo imprigionamento totale della nazione, fu il nazionalista Rocco. […] Non vi era nulla nella sua natura sia psichica che sentimentale che gli impedisse di pensare e di sentire – se così si può dire – secondo i metodi dell’Inquisizione spagnola. La sua mente, logica e acuta, ravvivava di un raggio di luce fredda la crudeltà dei suoi fini. (Golia, pp. 237-8)
Il paese è sottoposto a un continuo, capillare spionaggio cui, nefandamente si unisce la propaganda tipica di un regime totalitario: la Nazione, impaurita è istupidita

La corrispondenza è censurata, i telefoni sono controllati, l’ombra di colui che passeggia è allungata da quella di colui che ascolta, il portiere è un agente di polizia, la domestica una spia, l’amico può essere un traditore, la moglie una corruttrice. I figli, di ritorno da una scuola contaminata, appestano i genitori a  casa con una propaganda falsa. Teatri e cinematografi, giornali  e libri raccontano inesorabilmente, giorno per giorno, una anno dopo l’altro, le stesse storie. (Golia, p. 405)

Molto dure le considerazioni sui rapporti tra Chiesa e fascismo. La religione cattolica è protetta dai fascisti:

non perché perpetuava la parola di Cristo ma perché è romana e imperiale e offre, con la promessa di un Paradiso all’ombra delle spade, un anestetico per i soldati caduti. (Golia, p. 249)

Con spirito <<luterano>>, il <<tedesco>> Borgese accusa la Chiesa di ostilità al progresso:

Nei periodi cruciali del Rinascimento la Chiesa romana non capì che l’ Umanesimo e la Riforma erano i veri continuatori di quanto vi era di vitale e di imperituro nel Cristianesimo, e non seppe fare altro che aumentare le difese e irrigidire i dogmi. Lo stesso termine di Controriforma sta ad indicare la posizione di una potenza assediata, posizione che la Chiesa da quel momento in poi accettò rinchiudendosi in se stessa e facendo del Cattolicesimo una setta. Quando, tre secoli più tardi, il liberalismo, discendente legittimo dell’Umanesimo re della Riforma, celebrò le sue vittorie rivoluzionarie, che parvero altrettanto definite quanto totali, la Chiesa non mutò il suo metodo di autodifesa e rispose alla minaccia armata col fulmine metaforico dei suoi anatemi. Pio X, quasi un contadino, riconobbe il ben noto serpente dell’eresia sotto nuove spoglie. Egli tagliò la testa al toro. L’enciclica Pascendi del 1907 troncò ogni rapporto fra la Chiesa e il mondo, politico e intellettuale, dei nostri giorni, ristabilendo in pieno il Sillabo, e raggiungendo l’apice di un periodo della storia del Cattolicesimo che forse verrà chiamata la seconda Controriforma. (Golia, pp. 261-3)

Cattolicesimo e  fascismo costituirebbero due risvolti della stessa negativa medaglia: l’autoritarismo:

 Non vi era ragione perché questi due uomini ( papa Ratti -PIO XI e Mussolini), che un destino parallelo aveva portato a Roma nello stesso anno, non dovessero trovarsi d’accordo, nessuna ragione tranne Cristo; ma il Cristianesimo non era un fattore decisivo nella mente di Papa Ratti. Egli era sicuro di amare l’Italia ed era d’altra parte  sicuro di odiare la democrazia e il socialismo. Tutti gli altri sentimenti in lui erano prosaici e convenzionali; la crudeltà anticristiana del fascismo, che avrebbe fatto orrore a un San Francesco o a un Savonarola, per lui non aveva importanza o forse era un altro pretesto per la vittoria dello Spirito Santo.
A parte questo, la teoria autoritaria del fascismo faceva lo stesso giuoco dell’autoritarismo cattolico. Era evidente che il Gran Consiglio era un’imitazione del Sacro Collegio, che la successione al Duce era regolata in modo analogo alla successione al Papa e che il modello fondamentale dello Stato fascista più che nella Repubblica di Platone o nell’oligarchia di Venezia, andava cercato e sarebbe stato trovato nelle gerarchie cattoliche.  (Golia, p. 265)
Il Concordato sancirebbe una sorta di accordo diabolico:
Ma mentre la Chiesa si sottomise alla tirannide atea, questa in compenso lasciò la Chiesa padrona assoluta della cellula sociale più elementare, la famiglia. Matrimonio e divorzio […] diventarono monopolio del Vaticano e il prete diede una mano allo squadrista nel pervertire le virtù domestiche ad uso della violenza nazionale e dell’anarchia internazionale. La vita intellettuale del paese, che già agonizzava sotto l’azione asfissiante della censura fascista, ricevette il colpo di grazia dallo spirito di Inquisizione; e così l’Italia sopra la camicia nera indossò il suo vecchio abito talare.    (Golia, p. 266)

Il fascismo è una malattia che intravvede nel Cattolicesimo un modello di espansione universale e romana:
Il contagio vero, contenuto fino alla primavera del 1929 entro i limiti del pittoresco lazzaretto italiano, non si era ancora esteso fuori dal paese di origine tranne che in forme di attenuate. E’ vero che fra il 1929 e il 1931 il fascismo romano aveva conquistato la Chiesa romana, aggiungendo  alle camicie nere anche le sottane nere e arruolando le seconde al servizio delle prime, (o viceversa, secondo le convergenze e le divergenze dei desideri del Papa e del duce). Ma anche la Chiesa era romana; era  setta sebbene la più numerosa fra altre sètte, e aveva efficacia solo dove e  quando sussisteva il fascino del vecchio Impero romano sotto forma di disciplina religiosa. Il Cattolicesimo del fascismo non era ancora divenuto cattolico, cioè universale.  (Golia, p. 306)

Date queste premesse, la conclusione amara, che avrebbe goduto di tanto successo nei circoli liberali dopo il ritorno della Libertà, vaticina (davvero il testo di Borgese sembra postumo per le brillanti intuizioni che sviluppa) la contiguità tra fascismo a identità nazionale malata:

[…] il fascismo, una malattia contagiosa che si è diffusa in tutto il mondo sotto forma di tumori di varia bruttura e di vario lezzo, può ancora essere chiamato, se si risale alle origini dell’infezione, la Malattia italiana.  (Golia, p. 408)

Una considerazione finale che può risultare di qualche interesse: nel maggio del 1931, Borgese, prima dell’<<esilio>> americano, tenne due conferenze in Sicilia, a Catania e a Siracusa, a cui presenziò, con entusiasmo, Vitaliano Brancati.

Tra i due  intellettuali siciliani nacque una solida amicizia, corroborata anche da un interessante scambio epistolare. Brancati era, a quel tempo, fascista, ma il più maturo Borgese lo invitava a rileggere con più calma  e più distanziate nel tempo, le sue riflessioni:

<<Forse questa lettera le dispiacerà. Ma la riponga tra le Sue carte, ed aspetti a giudicarla dieci anni…>>.
Ne bastarono molti di meno, esattamente tre, perché Brancati maturasse una certa riluttanza nei confronti della politica fascista che si rafforzerà con la decisione di tornare nella provincia siciliana, abbandonando Roma per insegnare nella Scuola Magistrale di Caltanissetta, dove lo avrebbe conosciuto, nel 1937, un giovane studente: Leonardo Sciascia. Nel 1946, Brancati si sarebbe ricordato di Borgese e del suo antifascismo, nel saggio I fascisti invecchiano, asserendo che proprio a seguito dell’esperienza fascista aveva assunto l’abitudine di dormire <<con un occhio solo>>, evidenziando il bisogno di vigilare: se la malattia fascista è legata a certa identità italiana  occorre essere vigili per evitare che non proliferi più. Di questo insegnamento, oggi più che mai se ne sente il bisogno.
Come in una sorta di ringcomposition, chiudiamo da dove abbiamo cominciato, da Cruciverba di Leonardo Sciascia, per constatare come purtroppo l’oblio- un oblio inspiegabile in un paese civile che voglia fare uso attivo della Memoria- sia calato come una mannaia sul capo di Borgese:

Il silenzio su Borgese, insomma, è calato dopo: nel trionfante antifascismo che dal fascismo, dall'eterno fascismo italiano, sembra ricevere certe consegne. Perché bisogna dire che se i fascisti volgarmente lo odiavano (ma al vertice con una certa timidezza o pudore: ci volle l'emigrazione e il rifiuto di prestare il giuramento fascista perché Mussolini si decidesse- ma nel I936, nove anni dopo la ecera denuncia del rettore Fantoli – a chiudere il caso Borgese con questa annotazione: «Gli si poteva perdonare il passato. Non l'oggi. Continua ad essere un nemico»; parole che a noi oggi suonano come il più sintetico e giusto elogio che a Borgese si potesse tributare); se, dunque, i fascisti volgarmente lo odiavano, molti che fascisti non erano più o meno sottilmente lo detestavano ( « la detestazione comincia da forte disapprovazione, per lo più  manifestata in parole»). Lo detestava La Ronda, anche se forse non tutti i «rondisti». E si può anche mettere in conto al fascismo, di un modo di esser fascisti. Ma lo detestava «forte disapprovazione») anche Croce. Tilgher diciamo che non lo amava. E Gramsci ne parlava (ne parla nei quaderni») con una sufficienza addirittura derisoria. E nell'Italia antifascista e repubblicana tutto ciò che non era crociano stava per diventare gramsciano, grazie anche al congruo apporto delle conversioni dal gentilianesimo (e qui и da dire che Gentile, che non aveva nessuna ragione di amarlo, e anzi le aveva tutte per non amarlo, non pesò per nulla nella persecuzione fascista verso Borgese). Il silenzio, dunque. E Borgese resta in quella terra quasi di nessuno.

BERNARDO PULEIO








[1] Gli altri professori che rifiutarono il giuramento al tiranno fascista furono: Ernesto Bonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bortolo Nigrisoli, Francesco Ruffini Avendo e Lionello Venturi. A questi dodici, compreso Borgese,  vanno aggiunti Antonio De Viti De Marco e Vittorio Emanuele Orlando che chiesero  il pensionamento pur di non sottomettersi. A questi vanno aggiunti Piero Sraffa, l’economista amico di Gramsci, che, trovandosi a Londra diede le dimissioni dall’università di Cagliari e naturalmente Gaetano Salvemini che, già dal ’24, era esule a Londra
[2]  Per quanto riguarda l’articolata critica al Croce si rimanda in particolare alle pp.  253-6 del suo Golia.

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