20 gennaio 2014

RICORDIAMO CLAUDIO ABBADO



Ricordiamo Claudio Abbado con un video in cui dirige la Sesta di Beethoven all’Accademia di Santa Cecilia e con un’intervista apparsa sul sito di Rai Radio3. Cogliamo l’occasione per ringraziare Radio3 per il prezioso lavoro di diffusione della musica classica e vi invitiamo ad ascoltare Classica Radio, Primo Movimento, La Barcaccia e Il Concerto del Mattino
Tra il dicembre 1999 e il maggio 2000 Claudio Abbado e i Berliner Philharmoniker hanno realizzato una nuova incisione discografica delle Sinfonie di Beethoven, ora disponibili in un cofanetto di cinque CD pubblicato dalla Deutsche Grammophon. L’interpretazione offerta dal grande direttore italiano è assolutamente nuova: l’edizione critica di riferimento è la più recente di Jonathan del Mar. Il pensiero di Claudio Abbado è riportato in quest’intervista, parzialmente tratta dal libretto che accompagna la pubblicazione discografica.


Claudio Abbado a colloquio con Wolfgang Schreiber

Come si pone di fronte all’edizione delle Sinfonie beethoveniane, al problema delle partiture autografe e delle correzioni del compositore, alle Stichvorlagen (matrici per l’incisore), alle parti orchestrali…, e quali sono le peculiarità della nuova edizione a cura di Jonathan Del Mar?
È una fortuna avere oggi a disposizione l’edizione di Jonathan Del Mar; io ho deciso di valermene, poiché si tratta di un lavoro critico di altissimo livello. L’autore stesso scrive che molte delle sue osservazioni vanno intese come stimoli, e ciò mi ha consentito di operare scelte competenti fra varie possibilità documentate e plausibili. Grazie a questa accurata edizione critica, frutto degli studi più recenti, e forte dell’esperienza che ho acquisito in lunghi anni di esecuzioni ed incisioni insieme ai Wiener Philharmoniker, alla London Symphony Orchestra e ai Berliner Philharmoniker, ho affrontato con grande entusiasmo questo nuovo ciclo delle Sinfonie beethoveniane. L’obiettivo di Del Mar non è presentare cognizioni filologicamente incrollabili, bensì fornire il materiale originale raccolto secondo criteri rigorosi, lasciando alla creatività e alla sensibilità degli interpreti il compito di porlo in un contesto più ampio. Il merito essenziale del lavoro di Jonathan Del Mar e della nuova edizione delle Sinfonie di Beethoven è di presentare una sintesi di tutti i manoscritti, delle edizioni e delle matrici per la stampa (Stichvorlagen), che l’autore ha messo a confronto. Questo è un fatto cruciale, dato che i compositori molto spesso apportano piccole modiche a manoscritti o edizioni a stampa, o perché nelle matrici di edizioni successive si sono insinuati errori. I quaderni di commenti critici di Del Mar, che accompagnano ogni partitura dell’edizione, mettono in luce inoltre tutti gli aspetti del testo musicale. In ogni sinfonia, ad esempio, articolazione e fraseggio sono analizzati con estrema chiarezza: le legature, la differenza fra legato e non legato, la dinamica, tutto insomma.
Ha esaminato Lei stesso le opere in questa edizione, movimento per movimento, mettendo in questione note, accenti, dinamica, articolazione indicata? Di che natura sono le divergenze?
Ho esaminato tutto molto attentamente, quindi ho scelto in base ai principi della logica musicale quale versione e quali varianti preferire. Alcune correzioni mi erano già chiare, ma molte erano nuove per me, e sempre molto interessanti. Negli ultimi anni a Berlino ho analizzato molte correzioni, anche alla Staatsbibliothek.
Può illustrare un passaggio in cui la Sua lettura diverge da quella presentata nella nuova edizione?
Nel tema secondario del primo movimento della Nona Sinfonia, ad esempio, ho scelto di non attenermi ai risultati delle ricerche straordinariamente accurate di Del Mar. In tutte le fonti il motivo di due toni dei fiati alla misura 81 – che dapprima risuona in clarinetto e fagotto poi riecheggia in flauto ed oboe – è costituito da un intervallo di sesta (fa4–re5), ma osservando la forma leggermente variata, con biscrome (sedicesimi) e appoggiature, che segue immediatamente, si trova un intervallo di quarta: fa4 (do5)–si bemolle4 (misura 85). Ben otto passaggi dello stesso movimento, inoltre, attestano che un intervallo di sesta costituirebbe un caso anomalo, difficile da inquadrare nella logica motivica del movimento (vedi anche misure 85, 276, 280, 284, 346, 350, 352, 354). Tutto questo ci ha convinto a mantenere alla misura 81 la sequenza presentata dalle edizioni precedenti, fa4–si bemolle4. Lo stesso Jonathan Del Mar, del resto, menziona la possibilità di apportare “correzioni” alle fonti storiche, il che ci ha incoraggiato ad affidarci in questo caso all’istinto musicale.
Quando ha iniziato ad interessarsi ai problemi testuali relativi alle Sinfonie beethoveniane?
Già da molto tempo. Avevo effettuato parecchie correzioni tempo fa, a Vienna. Nella biblioteca della Società degli Amici della Musica sono conservate alcune parti orchestrali autografe delle Sinfonie di Beethoven: è lì che ho consultato i testi. E all’epoca in cui studiavo a Vienna avevo saputo che Nikolaus Harnoncourt lavorava ai problemi della sonorità storica originale, e che aveva scoperto qualcosa di nuovo nelle fonti: prendendo visione della sua lettura storico-critica constatai che alcune conclusioni mi erano già note. Dunque il Suo interesse per Beethoven e le Sinfonie risale a molto tempo fa, prima del periodo berlinese… Mi interesso in effetti da molto tempo alle Sinfonie beethoveniane, fin da prima degli studi musicali a Milano. Le ho studiate durante l’adolescenza, e le ho ascoltate nell’esecuzione di diversi direttori. A quell’epoca Toscanini era ritornato a Milano, e io naturalmente ho assistito ai suoi concerti. Poi ho ascoltato Furtwängler – anche se per la maggior parte in rappresentazioni operistiche, ad esempio la Tetralogia – e Klemperer. Durante gli studi a Vienna ho avuto spesso occasione di ascoltare le Sinfonie di Beethoven dirette da Bruno Walter, Szell, Krips o Scherchen. In parecchi concerti.
Quale direttore d’orchestra è stato particolarmente importante o addirittura decisivo per il giovane Claudio Abbado?
Per me il più grande interprete è sempre stato Wilhelm Furtwängler, benché alcuni aspetti della sua arte appaiano oggi discutibili, ad esempio i tempi. Con lui ogni nota, ogni fraseggio trovava un significato logico. Toscanini era diverso, sotto la sua bacchetta la musica era più una questione schematica, tecnica, per quanto magnificamente diretta. Con Furtwängler c’era semplicemente più musica.
Potrebbe dirci ancora qualcosa sulla differenza fra Toscanini e Furtwängler?
Credo che Toscanini fosse il direttore più grande per un’orchestra, il più importante per un ensemble, ma per quanto riguarda il significato di una frase o di una singola nota all’interno di una frase, o il contesto globale di tutte le note nella musica, era Furtwängler che sapeva dirigere e far sentire al meglio le varie differenze. Ed era assolutamente libero nei tempi, soprattutto nell’articolare le relazioni fra i tempi in Beethoven.
Sono importanti, secondo Lei, il metronomo e le indicazioni metronomiche che Beethoven ha inserito molto più tardi nei suoi lavori?
È una questione molto dibattuta, oggi: che cosa intendeva effettivamente il compositore? È fattibile? Dal 17 dicembre 1817 sono noti i tempi metronomici che Beethoven prevedeva per le sue prime otto sinfonie: nell’edizione che usciva proprio quel giorno la Allgemeine Musikzeitung di Lipsia pubblicò le indicazioni di pugno del compositore; quanto alla Nona Sinfonia, dal 1826 si poteva far riferimento ad uno dei quaderni di conversazione di Beethoven, in cui suo nipote Karl aveva riportato le indicazioni numeriche relative ai tempi. Oggi sappiamo che l’apparecchio di Mälzel presentava difetti meccanici, nondimeno le indicazioni di tempo date da Beethoven costituiscono per noi una sorta di codice di sicurezza: benché in alcuni casi non possiamo essere totalmente certi se Beethoven intendesse veramente ad esempio un tempo vorticoso, pressoché ineseguibile, le relazioni fra i tempi dei singoli movimenti offrono chiare indicazioni sulle strutture che caratterizzano i tempi all’interno delle sinfonie.
I tempi metronomici Le appaiono troppo veloci?
Molti hanno affermato che il metronomo all’epoca di Beethoven era tecnicamente tutt’altro che perfetto. Inoltre un tempo si riteneva che alcune indicazioni metronomiche del compositore fossero troppo veloci. Io non sono d’accordo, penso che sia una questione d’abitudine. Talvolta però – del resto non soltanto tecnicamente – è molto difficile suonare in modo lento o rapido. Prendiamo ad esempio un andante: racchiude un’idea di movimento, non può essere molto più lento di un allegro. Un allegretto è più rapido di un andante; un adagio non deve somigliare ad un largo, sarebbe troppo lento. Il metronomo parla tutta un’altra lingua. Una certa lentezza fa parte della vecchia tradizione tedesca, risente dell’influenza di Wagner.
I tempi di Furtwängler erano troppo larghi?
Non tutti. I suoi movimenti in adagio erano molto larghi. Ma pur adottando e mantenendo un determinato tempo riusciva ad essere completamente libero nel corso di un movimento. Certo, il metronomo va tenuto in considerazione, ma una volta individuato il senso intrinseco di un tempo si deve pensare soltanto alla musica.
Mi parlava di relazioni di tempo. Potrebbe fare un esempio?
Prendiamo la Prima Sinfonia. La concezione tradizionale partiva spesso da un minuetto relativamente veloce. I tempi di Beethoven danno dell’opera un’immagine differente. La sezione in Allegro del primo movimento porta l’indicazione “minima (metà) = 112”, una pulsazione che ha quasi la stessa velocità del Minuetto (“minima puntata = 108”): il carattere di danza del terzo movimento dovrebbe essere dunque un po’ ritenuto, non troppo veloce, quasi a mo’ di scherzo. Incontriamo la stessa relazione fra il primo ed il terzo movimento anche nella Seconda Sinfonia. Un altro orientamento importante, per quanto riguarda i tempi, è costituito dalla pulsazione di base. Nel primo movimento dell’Eroica Beethoven indica una minima puntata = 60, con un tempo di tre quarti. Secondo me il compositore vuole suggerire che il direttore deve basarsi sulla misura intera. Inoltre nella stessa sinfonia esiste una relazione fra la pulsazione della croma (ottavo, 80 battiti metronomici) nell’Adagio assai – la Marcia funebre – e quella della minima del movimento finale. Anche nella Quarta c’è un rapporto diretto fra la semibreve (intero) nell’Allegro vivace del primo movimento e la minima dell’ultimo: per entrambe l’indicazione metronomica è 80. I movimenti estremi della Sesta formano, entrambi con una pulsazione base di circa 60, una cornice, e mi piace eseguire l’Andante in modo piuttosto scorrevole, non da ultimo perché anche qui è stata indicata la semiminima (quarto) puntata e non la croma come tempo di battuta. Le indicazioni metronomiche per l’Ottava stabiliscono un legame fra i tempi dell’Allegretto scherzando e dell’Allegro vivace finale. Nell’Adagio della Nona tendo verso un tempo più scorrevole, che si avvicina quasi ad un andante, e la variazione nella sezione centrale secondo me non deve mantenere dogmaticamente lo stesso tempo. Personalmente preferisco dare alla seconda variazione un po’ più di respiro.
Che cosa c’è di nuovo per l’ascoltatore nell’insieme? Una maggiore trasparenza? Con quali organici?
Con i Berliner Philharmoniker abbiamo eseguito la Prima, la Seconda, la Quarta e l’Ottava Sinfonia con soltanto tre contrabbassi, quattro violoncelli, sei viole, otto secondi e dieci primi violini. È importante, poiché in certi momenti eseguiamo questi pezzi come musica da camera. Si è parlato sovente di quali formazioni lo stesso Beethoven impiegasse, e sono stati fatti grossi errori. Il compositore dirigeva spesso le Sinfonie nei palazzi viennesi, con organici di dimensioni ridotte, con pochissimi archi. A palazzo Pálffy, per esempio. In fin dei conti i locali che aveva a disposizione non erano che grandi camere, con grande risonanza e poco spazio per i musicisti. D’altra parte lo stesso Beethoven aveva osservato che per l’esecuzione delle grandi sinfonie – la Quinta, la Settima o la Nona – si sarebbero anche potuti raddoppiare i legni e incrementare gli archi, adeguando l’organico a grandi sale. Qual’è allora la scelta giusta? Non è necessariamente prescritto l’uso di un organico limitato; l’unica cosa importante è preservare la trasparenza dell’articolazione, del fraseggio e della dinamica. Senza dimenticare che alla fine deve trattarsi di musica. È questo il mio obiettivo principale.
In ogni caso, anche Lei si distanzia dalla vecchia tradizione tedesca, non è vero?
Sì, una volta si eseguiva questa musica con compagini di grandi dimensioni. Anch’io talvolta ho optato per formazioni più ampie, ma le ho ridotte gradualmente: ora interpreto coerentemente Beethoven con un’orchestra più ristretta.
Qual è nella nuova lettura della Nona Sinfonia il rapporto fra strumenti e coro? Anche quest’ultimo è ridotto?
Sì, il coro deve assolutamente essere proporzionato all’orchestra. Si deve tener presente, ad esempio, che Beethoven impiegava i tromboni per rinforzare il coro: a quei tempi non erano concepiti come strumenti solisti, non avevano grande potenza. Per questo abbiamo scelto i tromboni più piccoli. Essenziale è anche la pronuncia totalmente omogenea del testo da parte del coro. Molti ottimi cori sono perfettamente affiatati, ma non pronunciano il testo all’unisono. È importante che si capisca ogni parola.
Lei si ispira dunque al cosiddetto movimento per la sonorità originale autentica? A quanto Harnoncourt ha iniziato anni fa con Monteverdi o Bach?
Certamente. Ciò che si è verificato nella musica barocca per Monteverdi o nel Classicismo Viennese per Mozart – il lavoro con i manoscritti originali – mi è stato di grande aiuto nell’interpretazione di Beethoven, e anche di Schubert, ad esempio. Ma questo soltanto non basta, poiché ogni compositore effettua correzioni, è una cosa che ho imparato occupandomi di musica del nostro tempo, lavorando insieme ai compositori. È comunque importante basarsi sulla maggior quantità possibile di fonti originali.
Durante gli studi a Vienna ha acquisito una conoscenza particolarmente approfondita delle Sinfonie di Beethoven? Qual’ è immagine del compositore che Le ha trasmesso Hans Swarowsky?
Per lui Beethoven era senz’altro importante. Swarowsky è stato un ottimo insegnante. Ma secondo lui tutti i direttori d’orchestra erano mediocri, Furtwängler era terribile, l’unico bravo direttore era per lui Toscanini, che faceva tutto nel modo giusto, zac, zac, tempo! Di mentalità a mio avviso matematica, Swarowsky seguiva la partitura in modo estremamente rigoroso, non approvava mai un’esecuzione ricca di fantasia, un’esecuzione che giungesse ad un significato diverso.
Su quale argomento aveva le cose più importanti da dire nelle sue lezioni?
Sulla struttura analitica delle partiture. Mi ha aiutato molto ad esempio nell’imparare a memoria partiture moderne, con un metodo pressoché matematico: si deve conoscere molto bene la partitura, all’inizio, l’architettura, il fraseggio, l’arco globale. Poi si deve praticamente dimenticare tutto quanto, sentire e pensare soltanto alla musica. Swarowsky aveva una similitudine: costruendo una casa, si erigono prima di tutto le strutture di sostegno. Queste sarebbero le 16 o 32 misure iniziali. Nel mezzo c’è il portone, come in un edificio, quindi la struttura generale. Ora, si studiano, si analizzano soltanto le prime misure e si cerca di saperne tutto. Col passare del tempo ho imparato che c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire: non si deve mai pensare di conoscere definitivamente ed esaustivamente un pezzo. Qualcosa da scoprire c’è sempre.
Non è d’ostacolo per un musicista ascoltare un pezzo nell’esecuzione di altri interpreti, anche su disco?
All’inizio ho avuto difficoltà a liberarmi di certe interpretazioni cui avevo fatto l’orecchio; nondimeno Furtwängler è sempre stato per me il punto di riferimento più importante. La Nona di Beethoven da lui eseguita era la migliore. Un giorno Richard Strauss, dopo averlo ascoltato eseguire Morte e trasfigurazione, gli disse: “È la più bella interpretazione dell’opera che io abbia mai sentito. Non si è sempre attenuto a quanto ho scritto, ma è stata sublime”. Questo ci rende l’idea della grandezza di Furtwängler. Un altro esempio è costituito dalla Carmen di Peter Brook: è magnifica, ma non è più la Carmen di Bizet, bensì un’elaborazione, è musica da camera.
Che effetto hanno sugli strumentisti abitudine e senso della tradizione nell’interpretazione di pezzi musicali? Esistono differenze (di mentalità) fra le orchestre?
Le orchestre si abituano a certi tempi. Una volta, in occasione di una prova con i Wiener Philharmoniker, feci notare che proprio lì, nel Musikverein di Vienna, erano conservate partiture, parti orchestrali contenenti correzioni di pugno dello stesso Beethoven, su cui si basava la mia lettura. Alcuni la accettarono, altri no. Alcuni ribatterono: “Noi avevamo eseguito questo pezzo sempre così”. È una reazione che si incontra in tutte le orchestre. Alla fine, però, hanno accettato la nuova interpretazione.
La infastidiscono conflitti di questo genere? No, non troppo.
Ho vinto parecchie battaglie nella mia vita, e continuerò a farlo. Però è un peccato: la mia idea è quella di fare musica insieme, proprio come nella musica da camera. Non dovrebbe essere diverso con l’orchestra.
È stato più facile a Berlino che a Vienna dirigere basandosi su una nuova edizione beethoveniana?
Sì, anche perché l’orchestra di Berlino è molto più giovane. Negli ultimi dieci anni, da quando sono a Berlino, si sono aggiunti 80 nuovi strumentisti, più di metà dell’intero organico. Ora l’orchestra stessa desidera seguire la nuova edizione delle Sinfonie beethoveniane di Jonathan del Mar. Gli archi suonavano prima con molti cambi d’arco, non con le arcate originali. Questo è mutato.
Come definirebbe la differenza fra i Berliner ed i Wiener Philharmoniker, dal punto di vista della sonorità, ad esempio?
Si tratta di due grandi orchestre, le migliori del mondo. A Berlino gli strumentisti eseguono quasi esclusivamente concerti, soltanto una volta all’anno hanno l’opportunità di interpretare musica operistica. I Wiener – in qualità di orchestra della Wiener Staatsoper – si dedicano all’opera durante tutta la stagione, e soltanto di rado concerti filarmonici. È una cultura musicale del tutto diversa. Gli archi di Vienna hanno una sonorità più delicata, e naturalmente si esibiscono in una sala, il Musikverein, dalla risonanza più dolce. La Philharmonie di Berlino è diversa, ma anch’essa ha un’acustica meravigliosa; si tratta della migliore sala moderna.
Qual è il Suo debito verso Vienna?
Ho imparato molto durante il periodo di Vienna. Lì vent’anni fa la prassi esecutiva delle opere di Beethoven, Mozart o Schubert incominciava a cambiare, ad allontanarsi dalla sonorità bruckneriana e wagneriana, a riavvicinarsi a quella del primo Ottocento. È sempre interessante imparare qualcosa da specialisti, benché non si debba mai considerare come una verità assoluta quanto si è imparato.
Tornando al raffronto fra le orchestre: si può individuare un certo carattere prussiano nei musicisti berlinesi, un carattere austriaco nei musicisti viennesi e nella loro musica?
Ogni paese ha una propria cultura, che senz’altro si riflette anche nella musica. Vienna è contraddistinta da quell’immediato amore per la cultura, per la musica, che vi ha sempre costituito una grande tradizione. Qui a Berlino la cultura musicale è sempre stata aperta: dopo la guerra la presenza di francesi, russi, inglesi, americani ha dato origine ad un carattere internazionale. I Berliner Philharmoniker sono oggi un’orchestra molto aperta, internazionale: ne fanno parte musicisti francesi, svizzeri, italiani, ungheresi, polacchi, ed anche giapponesi e americani. Inoltre nell’organico ci sono anche musiciste e in questo si differenziano dai Wiener.
E questa internazionalità rende più facile far musica insieme?
Quando le persone sono aperte, e si dedicano con grande amore alla musica, non ci sono più confini, l’internazionalità diviene irrilevante.
Com’è nata l’idea del nuovo ciclo beethoveniano di Berlino? Era anche un desiderio dell’orchestra?
È stato un desiderio di noi tutti sin da quando nel 1989 ho iniziato a lavorare a Berlino. Già durante la realizzazione del ciclo brahmsiano si parlava delle Sinfonie di Beethoven. È per così dire normale per una grande orchestra interpretare ed incidere integrali di questo tipo.
Lei ha eseguito cicli beethoveniani con i Wiener Philharmoniker, anche a New York, Tokyo e Parigi, e inoltre con la London Symphony Orchestra. Che cosa è cambiato nella Sua concezione di Beethoven?
Non è facile a dirsi. Nel corso degli anni si imparano parecchie cose sul fraseggio, sulle note giuste, sui tempi giusti, sull’articolazione giusta. Soprattutto sui rapporti fra i tempi. Prendiamo ad esempio l’Ottava Sinfonia. L’ultimo movimento è estremamente difficile da eseguire. E proprio per tale difficoltà il tempo, in cui la semibreve (o l’intera misura) corrisponde a 84 battiti del metronomo, veniva preso molto più lentamente. Si potrebbe anche pensare ad un errore nell’indicazione metronomica, ma io non ne sono convinto, poiché Beethoven per l’Allegretto scherzando stabilisce la croma (ottavo) a 88 battiti. Ciò si avvicina moltissimo agli 84 battiti dell’ultimo movimento, è praticamente lo stesso tempo. Vi è sicuramente una certa logica.
Questo tempo è molto più veloce di quello di Furtwängler, che ad esempio prendeva il Tempo di Minuetto dell’Ottava in modo piuttosto lento.
Sì, è senz’altro un po’ più rapido. Trovo che il trio nel Tempo di Minuetto debba essere quasi altrettanto rapido. Appare più lento soltanto perché Beethoven aveva indicato in partitura “dolce”, il che si riferisce però ad un cambiamento nel carattere della musica, non del tempo. Peraltro Jonathan Del Mar ha annotato “soli” nella sua edizione partitura in corrispondenza del trio dell’Ottava. Beethoven scrisse “solo” per i corni e “soli” per i violoncelli (intendeva l’intera sezione dei violoncelli, non uno strumento solista); l’espressione si riferisce al carattere: suonare come un solista.
Che cosa è cambiato nella Sua interpretazione di Beethoven? Esiste, a causa della frequente esecuzione delle Sinfonie in concerto e su disco, il problema dell’usura? Nel 1970 il compositore Mauricio Kagel, in occasione del secondo centenario della nascita di Beethoven, aveva pur sempre proposto di non eseguire musica beethoveniana per un certo periodo.
Cerco sempre di vedere e di sentire la musica in modo nuovo, di mettere da parte le cattive abitudini; d’altronde è difficile fare una distinzione fra abitudini giuste e sbagliate. Naturalmente conosco le partiture. Ma ciò che ha detto Kagel è giusto: l’usura nasce dalle cattive abitudini.
Ci siamo allontanati sempre più nel tempo dal XIX secolo, dalla tradizione beethoveniana. È mutato qualcosa a proposito della fede nel “messaggio” di Beethoven, del suo sentimento umanitario?
Non mi sembra, anzi, trovo che la fede si sia rafforzata. Io cerco di imparare ogni giorno. Prendiamo ad esempio Goethe: non approvava i lieder di Beethoven, il modo in cui questi aveva messo in musica i suoi testi poetici. Però poi ha ascoltato la Quinta Sinfonia e ne ha compreso la genialità, l’incredibile portata rivoluzionaria. Si tratta veramente di una rivoluzione. Si pensi solo al primo movimento della Quinta: il trattamento superficiale, sprezzante del tema iniziale, lo storpiamento o addirittura l’uso scherzoso che si incontrano oggi danneggiano la musica. Ascoltando attentamente ci si accorge che si tratta di una tema costituita di due soli toni, ripetuti due volte. Beethoven riesce a fare meraviglie con questo tema così breve e semplice: lo sviluppo dell’intera sinfonia è semplicemente sconvolgente!
Quale delle Sinfonie di Beethoven ama di più?
Quella che sto dirigendo al momento è sempre la più bella. Le amo tutte e nove, che devo dire? Fra me e me ho riflettuto rapidamente: che sia la Sesta, la Nona o la Ottava? Le amo tutte. Si tratta, sotto vari aspetti, di nove universi differenti, ognuno ha una sua sfera propria. La Prima è legata ad Haydn, la Nona, sin dal primo movimento, si libra su nuove idee che a quell’epoca nessuno aveva mai avuto… Secondo me è importante comprendere tutto di questi capolavori: non ci sono limiti, vi si scopre sempre qualcosa di nuovo. Quando la gente dopo un concerto dice: “Oh, questo non l’avevo mai sentito”, non è perché io vi abbia cambiato qualcosa, ma perché il compositore l’ha scritto proprio così. In ciò consiste la grandezza di questi lavori: nella continua scoperta.

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