Cent'anni
fa nasceva Jean-Pierre Vernant. Ci insegnò a guardare all'antichità
classica con occhi diversi e a ritrovarne le tracce mitiche sepolte
sotto le sabbie dell'oggi.
Marino Niola
Mito e
democrazia. Gli antichi greci secondo Vernant
«La nostra
storia comincia con i Greci. Sono loro che ci hanno
inventato». A dirlo era Jean-Pierre Vernant, l'uomo che ha
inventato i Greci. O almeno li ha reinventati. Ci ha
insegnato a guardarli con gli occhi del presente. Facendone
uno specchio in cui l'uomo contemporaneo vede riflesse in
lontananza le sue grandezze e le sue tragedie.
L'autore di opere capitali come Le origini del pensiero greco, di cui domani si celebra il centenario della nascita, è stato uno degli ultimi mandarini del Novecento francese. La sua influenza è paragonabile a quella di Michel Foucault, Jacques Lacan e Claude Lévi-Strauss, studiosi che hanno messo nuove lenti agli occhi dell'Occidente. Professore di Religioni antiche al Collège de France, Vernant apparteneva a quella schiera di innovatori che non solo hanno rivoluzionato la loro disciplina, ma l'hanno fatta diventare popolare, abbattendo le tradizionali barriere specialistiche che facevano dell'antichistica un sapere esoterico, riservato a pochi eletti. Con lui il fulmine di Zeus, le astuzie di Ulisse, il fuoco di Prometeo, la bellezza di Elena, l'impresa degli Argonauti diventavano addirittura racconti per ragazzi, fiaba, fantasy. Storie meravigliose come quelle che il grande studioso raccontava tutte le sere a suo nipote Julien. E che raccolse in L'universo, gli dei, gli uomini, un libro scritto poco prima della sua scomparsa, avvenuta il 9 gennaio 2007.
È stato un grande traghettatore Jean-Pierre Vernant. I suoi libri, pubblicati in settantotto paesi, hanno segnato un punto di non ritorno nello studio dell'antichità occidentale. Opere come Mito e pensiero presso i Greci, o come Mito e tragedia nell'antica Grecia, costituiscono un'autentica rottura con una lunga tradizione filologica che aveva costruito l'immagine di una civiltà greca imbalsamata nella sua classicità. Sulla scia di Ignace Meyerson e soprattutto di Louis Gernet, Jean-Pierre Vernant ha operato una vitale trasfusione di antropologia e di psicologia sociale nelle vene ormai esauste di quegli studi. Trasformando di fatto la storia greca in antropologia della Grecia. Non più una narrazione di eventi, di battaglie, di eroi. Non più una cultura fatta solo di idee, di astrazioni sospese a mezz'aria, senza riferimento alla realtà fisica e sociale da cui le idee nascono. Insomma Vernant ha restituito alla Grecia il suo colore originario. Ricordandoci che era un mondo a tinte forti, più vicino all'India e all'Oriente che al biancore algido e museale delle statue, tanto caro all'archeologia ottocentesca e alla cultura neoclassica. Di fatto lo studioso francese ha rianimato quel mondo, liberandolo dal peso della "nobile semplicità e quieta grandezza" winckelmaniane.
L'antropologia
storica di Vernant ci ha insegnato a dare la giusta
importanza ai fattori collettivi, alla vita quotidiana delle
persone seguendo quella lezione delle Annales, di Marc
Bloch, di Lucien Febvre, di Fernand Braudel che rappresenta
uno dei grandi contributi della Francia alla cultura europea
del Novecento.
E soprattutto, questo rabdomante del mito ha mostrato come la filosofia greca non sia pensabile al di fuori del quadro storico-sociale costituito dalla polis, la città-stato, caratterizzata dalla libera discussione e dalla gestione assembleare del potere. E perciò madre della democrazia occidentale. L'uomo è tale in quanto è cittadino, parte attiva di una comunità di eguali. Da questo quadro sociale nasce la filosofia, ma anche una religione civile che pone al suo centro narrazioni come quella di Prometeo, primo eroe della condizione umana, e quella di Estia, divinità simbolo del focolare comune, che costituisce il centro geometrico dello spazio urbano. Come dire che una città di eguali ha bisogno di riflettersi in dèi e mitologie che rappresentino simbolicamente tale eguaglianza. Che misurino tale equidistanza dal centro.
Il lavoro di Vernant per un verso rende i Greci nostri contemporanei, consentendoci di riconoscerci in loro. Ma per l'altro verso ce li allontana, li fa assomigliare alle società primitive studiate dagli etnologi: due procedimenti complementari per misurare analogie e differenze tra la nostra umanità e quella degli antichi. In questo senso, la lezione di Vernant ha molto in comune con l'antropologia strutturalista di Claude Lévi-Strauss. Ma anche con l'Ellade cinematografica di Pier Paolo Pasolini. Che proprio negli stessi anni dirige la sua allucinata Medea e i suoi concitatissimi Appunti per un'Orestiade africana.
In ogni caso si tratta di far emergere una comune umanità che, mentre rende gli altri più vicini, inattesamente simili a noi, ci fa scoprire la nostra alterità, quel fondo oscuro che ci rende stranieri a noi stessi. Quel fondo Jean-Pierre Vernant lo vede in Edipo. Che per lui non è l'eroe che risolve l'enigma ma è l'incarnazione stessa dell'enigma. Il che fa dell'infelice re di Tebe il paradigma tragico dell'uomo moderno. Accecato dal destino che egli stesso ha contribuito a creare.
la Repubblica - 03
Gennaio 2014
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