30 gennaio 2014

L'arte perduta del Cuntu in piazza




Busacca a Mezzojuso nel dicembre 1984 - Foto di Pino Di Miceli




    Mi piace recuperare dall'archivio del giornale La Repubblica un bel pezzo di Tano Gullo che, prendendo spunto da un libro di Mimmo Cuticchio, descrive un'arte perduta:


Tano Gullo

L'arte perduta del Cuntu in piazza
 


C´era una volta il contastorie, quello che d´estate nei giardini pubblici delle città e d´inverno attorno a un braciere, incantava con le sue storie fantastiche di re e regine, di paladini e saraceni, di cuori d´oro e maramaldi, di amori e tradimenti. Le sue narrazioni cominciavano sempre con il rituale «c´era una volta» e mai avrebbe potuto immaginare che il racconto della propria esistenza sarebbe cominciato con la stessa formula classica utilizzata da un paio di secoli per rappresentare vicende remote o fantastiche. I contastorie - che come i loro personaggi, vagano in massa ormai nel regno della memoria e della fantasia - sono stati spazzati via dalla televisione e dai devastanti cambiamenti sociali che hanno rivoluzionato l´universo relazionale. Nei paesi siciliani da almeno un trentennio nessuno inventa più storie, né parole. Nessuno sa più come si intreccia un canestro o come si innesta un pero in un prugno selvatico, nessuno conosce più gli uccelli che svolazzano, le verdure che spuntano selvatiche e i nomi delle contrade a vista d´occhio. Quell´afasia della parola già denunciata da Pasolini trent´anni fa ha inceppato la trasmissione dei saperi.

Nessuno ha più voglia di insegnare, e nessuno d´altra parte ha più voglia di imparare. Con la scomparsa delle lucciole assistiamo anche al dissolvimento di una civiltà millenaria. Tra le macerie del terremoto antropologico che ha investito paesi e città c´è un sopravvissuto (tra i pochi): Mimmo Cuticchio, cuntista e puparu, testimone e protagonista di un mondo svanito. Cuticchio non solo conserva memoria della tradizione epico-cavalleresca e dell´arte del cuntu, ma ha avuto la genialità di innestare nella contemporaneità queste ancestrali tecniche espressive, modernizzandole. Grazie a lui un pezzo significativo della nostra storia culturale si è salvato. E ha messo radici nel terzo millennio. Un pezzo della nostra vita che ora rivive nelle pagine del libro "Il teatro di Mimmo Cuticchio" della veneta Chiara Andrich (edizioni dell´Associazione Figli d´arte Cuticchio, 222 pagine riccamente illustrate). Lo studio, nato come una tesi di laurea sull´ultimo esponente della popolare dinastia di pupari, si è poi allargato ai tanti aspetti culturali che egli interpreta.





L´autrice per prima cosa sgombera il campo da un equivoco: il contastorie è cosa assai diversa del cantastorie, il quale canta - ormai sporadicamente - le sue ballate sui fattacci di cronaca, su eroi e briganti, accompagnandosi con la chitarra mentre indica sui tabelloni i disegni che istoriano la vicenda. Il contastorie non "tiene" musica, né disegni sgargianti; ha due soli strumenti drammaturgici: il corpo e la voce. Con i quali riesce a ipnotizzare l´uditorio, creando un campo magnetico che annulla tempo e spazio, in cui mette a coltura il pathos narrativo. «La tecnica performativa è basata sostanzialmente su due livelli - scrive la Andrich - uno colloquiale con intonazione monotona in cui il cuntista, generalmente seduto, dà spazio a descrizioni e dialoghi di raccordo con andamento narrativo; un altro più dinamico e ritmato dove il cuntista racconta i momenti delle battaglie, gesticolando intensamente». «Il secondo momento - continua - si basa sull´alterazione del respiro, sulla scomposizione ritmica della narrazione. L´impressione è quello di un´affabulazione concitata».

Mimmo Cuticchio (ormai noto a livello internazionale con i suoi spettacoli di cuntu, opera dei pupi e prosa) è il massimo esponente di questa tecnica, che ha acquisito attraverso una lunga gavetta e che poi ha elevato ad arte nobile introducendola nel cinema e nel teatro.

Gli eroi dei cuntisti sono gli stessi cavalieri carolingi dell´opera dei pupi, ma non solo. Questi artisti da strada spesso inventavano dalla farina del loro sacco guerrieri impavidi, uomini astuti che aggiravano come niente i classici sette ostacoli che li tenevano lontani dalla donna amata o dal regnante carogna, streghe che preparavano incantesimi e intrugli e popoli sofferenti da aiutare nella controffensiva di riscatto. Attraverso questi personaggi, così come accade nel ciclo dell´opera dei pupi, il cuntista metteva in scena con i protagonisti delle gesta eroiche il suo patrimonio di valori. Arroganze e cattiverie da mortificare, generosità e umiltà da esaltare. E poi, il senso dell´onore, della lealtà, il valore della parola data, il rispetto per la donna-madonna e su tutto un´impostazione bambinocentrica in cui i più piccoli erano quasi creature divine.

Mimmo Cuticchio ha fatto un´altra cosa importante. trascrivere su carta quello che finora era stato tramandato per via orale attraverso un percorso faticosissimo. Oggi l´arte di Mimmo è patrimonio collettivo, sull´arca della salvezza.

A questo punto apriamo il libro sulle pagine che raccontano l´avventurosa vita del cuntista, figlio d´arte, ma anche ribelle d´arte, una ribellione contro il tradizionalista padre che ha però salvato opera dei pupi e cuntu. Ha fatto diventare cultura viva quello che era ormai negli anni Settanta solo patacca per turisti. Ha evitato che al suo teatrino accadesse quello che è accaduto nelle tonnare dove i tonnaroti ormai recitano la parte di se stessi per mattanze organizzate solo per turisti in cerca di emozioni.

Mimmo Cuticchio è figlio di Giacomo, puparo itinerante che pianta il suo teatrino in lungo e largo per la Sicilia. Tant´è che i suoi figli nascono ognuno in un posto diverso, Gela, San Cipirello, Terrasini.

I pupi per Mimmo sono fratelli, sorelle, zii, amici, nemici. Soprattutto compagni di giochi e di fantasie, esseri vivi con cui impara la vita. «In questo ambiente si forma, imparando un mestiere e viaggiando attraverso le avventure meravigliose dei pupi - scrive la Andrich - I pupi rappresentano per Mimmo Cuticchio un universo, grazie a loro si può viaggiare e sognare, percorrendo mondi sconosciuti e terre lontane». Piccolissimo comincia a districarsi in quella ragnatela che è l´albero genealogico della cavalleria. Ragazzino curioso comincia a guardarsi intorno, si fa raccontare le vicende dei cuntisti storici di Palermo, Salvatore Ferreri, Antonino Manzella, Salvatore Palermo, Nino Brucoli e i fratelli Nino e Paolo Camarda, mastru Ramunnu, Tano Lo Verde, Roberto Genovese, Totò Spataro, personaggi ormai scomparsi dall´immaginario collettivo. Pitrè nell´Ottocento aveva censito diciotto cuntisti a Palermo, quelli cioè che con il cuntu ci campavano. Sicuramente erano molti di più, considerato quelli che lo praticavano solo per diletto. Nei paesi ce n´erano a centinaia. Erano il cinema e la televisione del tempo. Allietavano le sere dopo le fatiche dei campi o le ore dedicate a lavori di compagnia, come la mondatura del grano, delle olive, delle mandorle. E poi c´erano le botteghe, barbieri e ciabattini su tutti, che diventavano palcoscenico di queste narrazioni.

Mastru Ramunnu aveva imparato il cuntu in carcere e cominciò a praticarlo per i colleghi dell´Ente Porto prima di specializzarsi in un repertorio per famiglie. Tano Lo Verde nei primi anni del dopoguerra elegge Villa Bonanno come luogo d´esercizio per un pubblico di pensionati e sfaccendati. Alla sua morte gli succede Roberto Genovese, anch´egli formatosi nella scuola dell´opera dei pupi, come suonatore di pianino a cilindro, senza un vero apprendistato. E se Totò Spataro, come riporta la Andrich, incarnava uno stile molto sanguigno, Peppino Celano è un maestro d´armi «molto abile nell´uso del coltello», tanto da essere ribattezzato ´u mafiusu.

Mimmo con il padre vive l´esperienza del Festival di Spoleto e poi lavora a Parigi. Infine la lacerazione con il genitore. Mastro Giacomo è un tradizionalista a tutto tondo che non ammette la minima trasgressione sul percorso indicato dai padri. Il figlio smania, vuole innovare. È la rottura dolorosa. Ma il giovane capisce subito che senza un maestro non ha dove andare. Cerca che cerca lo trova in Peppino Celano, puparo e cuntista, uno degli ultimi, e grande istrione teatrale (poi incontrerà un altro maestro, Salvo Licata, che lo guida in una lettura culturale nel mondo dei pupi). Ci vogliono due anni di corteggiamento per farsi accettare come allievo nel laboratorio di via Scippateste di Celano. Il maestro lo tiene fuori dalla porta mesi prima di consentirgli di guardarlo mentre costruisce i suoi pupi. E qui affiora il rapporto particolare e oggi incomprensibile che un tempo si instaurava tra maestro e allievo, basato con la caratteristica del "furto del mestiere". «Celano si lascia guardare, si lascia rubare l´arte, ma al tempo stesso verifica la vocazione dell´allievo, la sua tenacia e la sua autenticità». Di soldi, ovviamente, nemmeno a parlarne.

Mimmo supera tutte le prove, ruba l´arte a Celano, quella di costruire pupi, di raccontare fatti e di inscenare emozioni. Quando è il momento il maestro, a tradimento, lo lancia nella mischia. E fu così che l´allievo superò il maestro. E vissero tutti felici e contenti. E noi, tanto per proseguire nella rituale formuletta, siamo rimasti con la lingua in mezzo ai denti.

(LA REPUBBLICA, Palermo 20 febbraio 2008)

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