Pete Seeger insieme a Bruce Springsteen
Come Woody Guthrie,
Pete Seeger ha cantato l'America profonda di chi non ha voce e volto.
Dalle lotte operaie, alle campagne per i diritti civili, alle
manifestazioni contro la guerra in Vietnam le sue canzoni hanno
accompagnato la storia americana dagli anni Quaranta ad oggi.
Alessandro Portelli
«Dicono che l’umanità
non sopravviverà a lungo, ma io vorrei sapere
che cos’è che li fa essere così sicuri. L’ora più buia
è sempre quella prima dell’alba, si sta facendo
mattino, e io so che possiamo ancora avere singing
tomorrows», domani fatti di musica, «giorni cantati».
Così cantava Pete Seeger, e questa è stata
la sua lezione per quasi ottant’anni di musica e di impegno.
Nel corso della sua vita ha cantato le canzoni dei
minatori e degli operai(Which Side are You On?), gli
spiritual di lotta del movimento per i diritti
civili (We Shall Overcome), la protesta contro la
guerra del Vietnam (Waist Deep in the Big Muddy), la
mobilitazione per la salvezza dell’aria
e dell’acqua della sua terra (My Dirty Stream); ha composto
memorabili canzoni di libertà e speranza
(If I Had a Hammer, Where Have all the Flowers
Gone). Ma il senso politico della sua opera era ancora più
radicale: stava nella profonda fiducia, così
profondamente americana e così
intrinsecamente classista, in quell’umanità
di lavoratori, operai, contadini, gente
comune che ha inventato la musica popolare e che
costituisce la vera speranza di un futuro mattino
dopo queste notti di tenebra.
Per questo, faceva
politica anche se cantava le canzoncine per
bambini, le ballate epico-liriche affondate nel Medio
Evo, o quei canti religiosi fatti per essere cantati
insieme, da cui poi è venuta fuori tanta canzone operaia
e sindacale. Faceva politica in primo luogo
perché ribadiva la dignità e la presenza
storica di coloro che avevano creato e trasmesso
quei canti. Ma faceva politica anche perché voleva che
quei canti, sovrastati dal rumore mediatico,
ridiventassero bene comune, e ce li insegnava.
Musicista sofisticato, li riproponeva
in forma apparentemente semplice, che ti faceva
sentire che tutto sommato avresti potuto cantarli
anche tu; e in tutti i suoi concerti insegnava
le canzoni e le faceva cantare, non per una retorica
di «audience participation» ma perché
chi le aveva cantate con lui in concerto se le sarebbe
riportate a casa e le avrebbe conservate in
sé. Il suo primo libro era un manuale per insegnare a suonare
il banjo: la musica, insomma, era qualcosa da fare, non solo
ascoltare; ed era un modo per ritrovare, tutti, la
propria voce e farsi sentire.
La prima volta che l’ho
incontrato, Pete Seeger mi aveva dato appuntamento
a un’assemblea della War Resisters’ League, una
delle più antiche organizzazioni pacifiste
americane. Era forse il più anziano dei presenti,
e certo il più illustre; ma a riunione finita
fu lui a prendere la scopa, pulire il pavimento
e rimettere a posto le sedie. L’ultima volta, tre
mesi prima dell’11 settembre, era proprio davanti
al World Trade Center – aveva quasi novant’anni, era
accompagnato e sostenuto da suo nipote Tayo —
e cantava Money Makes the World Go Round, i soldi
fanno girare il mondo. Fra questi due incontri, ne
rammento un altro: a metà anni ’80, a Lawrence,
Massachusetts, dove si ricordava il memorabile
sciopero del 1912 degli operai e delle operaie
tessili immigrati da quasi trenta paesi, divisi da lingue
e culture e uniti dalla lotta. Sul palco, Pete disse:
«Adesso vi canto una canzone che vi può un po’
sorprendere. Ma vi prego di ignorare gli usi che ne
sono stati fatti, gli stereotipi che ci si sono
incrostati addosso, e di ascoltare semplicemente
quello che dice.» Cantò L’Internazionale, e fu come se non
l’avessimo mai sentita prima.
Se sia mai stato
tesserato comunista, preferiva
glissare; ma quando fu convocato dal Comitato
per la attività non-americane durante la caccia alle
streghe degli anni ’50, si rifiutò di collaborare,
di fare nomi, di dissociarsi. Con Woody Guthrie, Lee
Hayes, Bessie Hawes e altri, aveva fondato prima
della guerra gli Almanac Singers che per primi avevano
riportato agli operai dei sindacati
progressisti la loro stessa tradizione di
canti di lotta. «La canzone popolare cresce se
cresce il movimento operaio,» aveva scritto allora
Woody Guthrie; Pete Seeger declinava questa
massima in forma più ampia: la canzone popolare vive
e cresce se crescono i movimenti popolari.
Così, quando il movimento sindacale si allineò
all’isteria anticomunista degli anni ’50 ed
espulse la sua ala progressista, Pete Seeger non
si fece ridurre al silenzio: trovò subito un altro movimento,
e fu il grande mediatore che riportava le canzoni
del Sud in lotta al pubblico urbano e progressista
delle grandi città. Quando il Black Power emarginò
i bianchi, lui era già in prima linea in un altro
movimento, quello contro la guerra; e finita la
guerra, inventò letteralmente un movimento
ambientalista che riuscì a ripulire
l’inquinato fiume Hudson e restituirlo alle sue
comunità: radicale e internazionalista,
non sdegnava le battaglie locali, le piccole
preziose vittorie. Passa attraverso sconfitte,
e non è mai vinto.
La canzone sulla
notte e sull’alba finisce dicendo: «E quando le tue
mani non ce la faranno più, lascia la tua chitarra a qualcuno
più giovane e più forte». Quella sera, dopo l’assemblea
della War Resisters’League, disse una cosa che mi sorprese:
«Lo strumento della musica popolare del futuro è la
chitarra elettrica.» Lui la chitarra elettrica
non l’ha mai presa in mano: non era di quelli che si affannano
ad essere aggiornati, i suoi strumenti erano altri.
Ma vedeva il futuro, e lo vedeva in modo non dogmatico,
e comunque diverso da sé.
L’ultima memorabile
immagine che abbiamo di lui è sul palco accanto a Bruce
Springsteen, il giorno dell’inaugurazione di Barak Obama.
Pete Seeger non ha mai preso in mano la chitarra
elettrica, Bruce Springsteen non ha mai preso in mano il
banjo; ma quel giorno era proprio come se la simbolica
chitarra di Pete Seeger fosse passata di mano.
Cantavano This Land Is Your Land, la grande bistrattata
e malintesa canzone di Woody Guthrie,
restituendo nel più solenne momento istituzionale
le censurate strofe di protesta. Era come se
Pete Seeger – bollato come nemico della patria e agente
straniero mezzo secolo fa – si prendesse la sua grande
rivincita sui suoi persecutori di mezzo secolo
da fa: loro sono dimenticati, lui era ancora qui,
e l’America migliore, quella della speranza e dell’alba,
era la sua, non la loro. E sono davvero chitarre
elettriche, come quella di Ani DiFranco (che ama
definirsi folk singer) o di Tom Morello, o i
rapper latini di Los Angeles, a raccontare
oggi le lotte, la rabbia e la speranza.
Però: Pete Seeger
ci ha insegnato che prima di tutto vengono le voci, le
voci dei ribelli, degli sfruttati, degli emarginati
che si uniscono per cantare insieme. Sono sicuro che si
sia commosso e consolato sentendo che, nei
giorni intensi di Occupy Wall Stret, le due canzoni che si
cantavano per la strada erano proprio Which Side Are
You On e We Shall Overcome. Due canzoni che, anche se
tanti di quei ragazzi non lo sapevano, ce le aveva
insegnate lui.
Da Il Manifesto del 29 gennaio 2014
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