28 gennaio 2014

LA SAFFO DI LUCIANO CANFORA


 
Luciano Canfora, insegnando filologia classica all'Università di Bari, conosce bene la sua materia. Per questo è ammirevole quando parla dell'antico mondo greco. 
Non si può dire altrettanto quando fa incursioni politiche nel tempo presente che mostra di non comprendere accecato com'è dal suo inguaribile stalinismo.

 
Luciano Canfora

La Saffo materna e i suoi fratelli



«Nessuna fonte ci fa sapere quando e dove sia stato roso dai topi l’ultimo manoscritto di Saffo o di Menandro», scriveva Paul Maas in una efficace sintesi delle Sorti della letteratura greca antica a Bisanzio . E commentava: «Di avvenimenti di tal genere è fatta la storia della perdita della letteratura antica». Certo è che nel XII secolo, a Bisanzio, il dottissimo Tzetzes, il quale trovava ancora in circolazione le poesie di Ipponatte, lamentava invece la perdita completa delle poesie di Saffo, nell’introduzione al suo trattato Sulla metrica pindarica . Ma non aveva certo a disposizione un «catalogo collettivo», per cui la sua affermazione può anche apparire problematica.

Comunque ciò che s’era perso nel Medio Evo, ogni tanto e sia pure in piccola parte rispuntò, tra Otto e Novecento, dagli scavi in Egitto: spezzoni di libri su papiro, via via finiti sotto terra con il declino e la definitiva scomparsa della civiltà greca in quella regione. Così ad esempio abbiamo recuperato parecchio Menandro, Teopompo, Iperide, Aristotele, Bacchilide eccetera. E anche un po’ di Saffo, poetessa nata nell’isola di Lesbo, forse a Mitilene, alla fine del VII secolo a.C. La nuova poesia di lei, affiorata da ultimo, purtroppo da collezione privata (dunque senza precisazioni sul momento del rinvenimento e sulla provenienza) ha la fortuna di essere stata affidata ad un esperto come Dirk Obbink. Il quale la pubblicherà ben presto in una rivista specialistica di papirologia ed epigrafia. E anche un esperto di poesia greca come Franco Ferrari si è cimentato nella traduzione di questi versi.

Si tratta di due frammenti. Quello più consistente è stato denominato «il frammento dei fratelli». Lo hanno chiamato così perché vi si nominano Carasso e Larico, i due fratelli di Saffo, già noti da Erodoto (II,135), Strabone (XVII,808) e Ateneo (X, 425a). Da Erodoto, in particolare, già sapevamo che Carasso, dopo aver speso molto denaro per riscattare, in Egitto, la vispa cortigiana Rodopi, era tornato a Mitilene, e Saffo si era occupata di lui con parole molto critiche in una sua poesia.
Il nuovo frammento si pone come antecedente immediato di questo fatto noto: ci fa sapere che Carasso sta tornando.

Di Larico parlava già Ateneo: «La bella Saffo loda in diverse occasioni il fratello Larico in quanto coppiere nel pritaneo di Mitilene». Il nuovo frammento anche in questo caso si pone in stretta relazione con la notizia già nota: Saffo auspica che Larico «divenga uomo». Un coppiere infatti sarà stato un giovincello, qual Ganimede. Se diventasse uomo — direbbe la poetessa — «ci libereremmo di molte preoccupazioni». Per il resto il nuovo testo si limita ad auspicare che il viaggio di Carasso vada bene e a spiegare che le cose vanno bene a chi è ben visto dagli dei.

Può stupire che il nuovo pezzo non apporti nulla di nuovo e ci dia solo notizie che già avevamo, ma la vita di Saffo — a parte l’esilio in Sicilia di cui si legge nel Marmor Parium — sarà stata piuttosto povera di eventi, al di là dei suoi fatti privati onnipresenti in tutti i frammenti di lei che sono sopravvissuti. Delusione? Basta non proporsi aspettative troppo alte. Diceva Tocqueville che «basta dare uno sguardo agli scritti che l’antichità ci ha lasciato per scoprire che, se gli scrittori hanno qualche volta mancato di fecondità nei soggetti, di arditezza, di movimento, di generalizzazione nel pensiero, hanno però sempre espresso un’arte e una cura ammirevoli nei particolari» (Democrazia in America , vol. II, 1, cap. 15). Bravi questi vecchi liberali!


Il Corriere della sera – 27 gennaio 2014

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