20 gennaio 2014

WALTER SITI RILEGGE RIMBAUD



Walter Siti

Il supplizio del giovane Rimbaud divenne la verità di un veggente


Non è che non voglia dire niente», scrive Rimbaud al suo professore di liceo inviandogli per lettera questa poesia; mette le mani avanti, teme che il testo possa passare per un giochino goliardico, con quei termini buffi o inventati e quel ritmo da filastrocca. Così infatti la prenderà il professore, che gli rimanderà indietro una parodia con la stessa metrica; il trioletera una forma medievale (strofe di otto versi su due sole rime, in cui il quarto verso ripete il primo mentre il settimo e l’ottavo ripetono i primi due) ripresa recentemente dai parnassiani, ultimo grido della moda poetica.

Rimbaud non ha ancora compiuto diciassette anni, scrive poesie da quando ne aveva quindici e frigge dal desiderio di essere pubblicato. Questo testo lo invia anche a Paul Demeny, un poeta amico del suo professore, e a lui lo presenta come un esercizio anti-romantico, una fantasia bizzarra composta in antitesi ai cuoricini e alle sviolinate; vuole mostrarsi cinico, scafato, ma da adolescente aggiunge «non si arrabbi». Sa di avere in mano una bomba, la trascrizione di un’esperienza che quei due letterati non si sognano neanche; la superiorità che sente su di loro è tale che non vale la pena di dichiararla. Molti adolescenti snobbano gli adulti, ma in questo caso lui ha ragione.

Da quando ha sedici anni Rimbaud scappa di casa: la madre è anaffettiva, tratta il figlio con severità ottusa e lui parte da Charleville per Parigi ma non ha i soldi per il biglietto, sicché lo riportano a casa; allora riparte a piedi. Arriva a Parigi nel mese che precede lo scoppio rivoluzionario della Comune, per dormire si rifugia in una caserma. È un biondino di sedici anni curioso di tutto, i soldati sono eccitati e alticci, succede l’irreparabile e lo violentano.

Quando lo ha inviato al professore, il titolo di questo testo era Il cuore suppliziato,a Demeny l’ha spedito come Il cuore del pagliaccio; solo per Verlaine, ricopiandoglielo, troverà il titolo Il cuore rubato (in francese volé, a un passo da violé, violentato). Trasforma il trauma in una recita grottesca: il cuore che sbava da dietro è l’osservazione precisa, crudele, dell’avvenuto stupro. Il “caporal” è il tabacco di pessima qualità che masticavano i militari: sono gli sputi, le derisioni, le cicche che gli danno il voltastomaco. Eppure non si tira indietro da niente, l’ottonario non dimentica una sillaba e gli occhi restano asciutti — è già il ragazzo che due anni dopo si proclamerà «della razza di chi cantava sotto i supplizi» e condannerà la vita come «una farsa universale».

Qualche accademico prudente dà al testo un’interpretazione simbolica: la nave sarebbe la società provinciale che il giovane Rimbaud detesta, la truppa sarebbero i buoni borghesi e lo sbavare a poppa sarebbe semplicemente il protagonista che vomita tutto il suo disgusto. Troppo pallido, tutta l’energia va perduta. Qui a essere un naviglio è lui stesso, come pochi mesi dopo sarà un battello ubriaco, ansioso che l’acqua penetri il suo scafo per lavarlo.



Nelle caserme parigine era raffigurato lo stemma della città, un vascello con sotto il motto fluctuat nec mergitur; il latino può essere l’abracadabra dei flutti, da lì può venire la metafora marinaresca, i graffiti sporcaccioni dei soldati sulla parete dello stemma come affreschi accanto al timone. I “pioupiou” sono le reclute, o spine: inventando un aggettivo canagliesco che li riguarda si pone sul loro piano di scherzi, quasi sta dalla loro parte; musicalmente si identifica con gli aggressori senza smettere di sentirsi vittima — lo schifo del mondo (a Parigi viene denunciato perché scoperto a scrivere «merda a Dio» su una panchina) si confonde con una voglia oscura di autodistruzione; con un estremismo esistenziale e formale che può essere paragonato solo ai più violenti degli odierni gangsta rapper.

Ci sono dei testi-limite, dei testi-spartiacque;nella stessa lettera in cui gli spedisce questo, Rimbaud confessa al suo professore di volersi rendere veggente— «si tratta», scrive, «di giungere all’ignoto mediante lo sregolamento di tutti i sensi» e aggiunge «io è un altro». Come non vedere che proprio il trauma raccontato qui (e proprio perché ha saputo tenergli testa col ritmo) provoca in lui una scissione psichica, spingendo la sua poesia verso l’allucinazione e la droga?

La visionarietà del Rimbaud maggiore sarà sempre materialista come solo certi mistici sanno esserlo: via verso un altro mondo perché l’esistente non ci merita ma senza spiritualismi nebulosi — concreti e brutali nella fantasia come si è saputo essere fantasiosi nella brutalità. La domanda finale, in quella caserma parigina, è stata «come agire?»; per lui la poesia è azione, ribellione spinta fino al bisogno di cambiare la vita. La lirica, presa alla lettera, conduce a un dissidio insanabile con la realtà, il sogno mostra la corda e la vita si vendica: spogliata dei suoi veli ambigui ebbene sì, «la poesia è una cretinata».

Rimbaud a diciannove anni avrà già bruciato l’intercapedine di malafede che permette alla poesia di esistere e di volare, non scriverà più. Peregrinerà per l’Europa esercitando i mestieri più strani, lo scaricatore di porto e l’interprete in un circo, poi in Africa sarà commerciante e trafficante d’armi. Tornato in Francia con un tumore complicato dalla sifilide, muore a trentasette anni. Il mondo ha vinto, la poesia si è suicidata per eccesso di onestà.

La Repubblica – 19 gennaio 2014

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