Walter Siti
Il supplizio del giovane Rimbaud divenne la verità di un veggente
Non è che non voglia dire niente», scrive Rimbaud al suo professore di liceo inviandogli per lettera questa poesia; mette le mani avanti, teme che il testo possa passare per un giochino goliardico, con quei termini buffi o inventati e quel ritmo da filastrocca. Così infatti la prenderà il professore, che gli rimanderà indietro una parodia con la stessa metrica; il trioletera una forma medievale (strofe di otto versi su due sole rime, in cui il quarto verso ripete il primo mentre il settimo e l’ottavo ripetono i primi due) ripresa recentemente dai parnassiani, ultimo grido della moda poetica.
Rimbaud non ha ancora
compiuto diciassette anni, scrive poesie da quando ne aveva quindici
e frigge dal desiderio di essere pubblicato. Questo testo lo invia
anche a Paul Demeny, un poeta amico del suo professore, e a lui lo
presenta come un esercizio anti-romantico, una fantasia bizzarra
composta in antitesi ai cuoricini e alle sviolinate; vuole mostrarsi
cinico, scafato, ma da adolescente aggiunge «non si arrabbi». Sa
di avere in mano una bomba, la trascrizione di un’esperienza che
quei due letterati non si sognano neanche; la superiorità che sente
su di loro è tale che non vale la pena di dichiararla. Molti
adolescenti snobbano gli adulti, ma in questo caso lui ha ragione.
Da quando ha sedici anni Rimbaud scappa di casa: la madre è anaffettiva, tratta il figlio con severità ottusa e lui parte da Charleville per Parigi ma non ha i soldi per il biglietto, sicché lo riportano a casa; allora riparte a piedi. Arriva a Parigi nel mese che precede lo scoppio rivoluzionario della Comune, per dormire si rifugia in una caserma. È un biondino di sedici anni curioso di tutto, i soldati sono eccitati e alticci, succede l’irreparabile e lo violentano.
Quando lo ha inviato al
professore, il titolo di questo testo era Il cuore suppliziato,a
Demeny l’ha spedito come Il cuore del pagliaccio; solo per
Verlaine, ricopiandoglielo, troverà il titolo Il cuore rubato (in
francese volé, a un passo da violé, violentato). Trasforma il
trauma in una recita grottesca: il cuore che sbava da dietro è
l’osservazione precisa, crudele, dell’avvenuto stupro. Il
“caporal” è il tabacco di pessima qualità che masticavano i
militari: sono gli sputi, le derisioni, le cicche che gli danno il
voltastomaco. Eppure non si tira indietro da niente, l’ottonario
non dimentica una sillaba e gli occhi restano asciutti — è già
il ragazzo che due anni dopo si proclamerà «della razza di chi
cantava sotto i supplizi» e condannerà la vita come «una farsa
universale».
Qualche accademico prudente dà al testo un’interpretazione simbolica: la nave sarebbe la società provinciale che il giovane Rimbaud detesta, la truppa sarebbero i buoni borghesi e lo sbavare a poppa sarebbe semplicemente il protagonista che vomita tutto il suo disgusto. Troppo pallido, tutta l’energia va perduta. Qui a essere un naviglio è lui stesso, come pochi mesi dopo sarà un battello ubriaco, ansioso che l’acqua penetri il suo scafo per lavarlo.
Nelle caserme parigine
era raffigurato lo stemma della città, un vascello con sotto il
motto fluctuat nec mergitur; il latino può essere l’abracadabra
dei flutti, da lì può venire la metafora marinaresca, i graffiti
sporcaccioni dei soldati sulla parete dello stemma come affreschi
accanto al timone. I “pioupiou” sono le reclute, o spine:
inventando un aggettivo canagliesco che li riguarda si pone sul loro
piano di scherzi, quasi sta dalla loro parte; musicalmente si
identifica con gli aggressori senza smettere di sentirsi vittima —
lo schifo del mondo (a Parigi viene denunciato perché scoperto a
scrivere «merda a Dio» su una panchina) si confonde con una voglia
oscura di autodistruzione; con un estremismo esistenziale e formale
che può essere paragonato solo ai più violenti degli odierni
gangsta rapper.
Ci sono dei testi-limite, dei testi-spartiacque;nella stessa lettera in cui gli spedisce questo, Rimbaud confessa al suo professore di volersi rendere veggente— «si tratta», scrive, «di giungere all’ignoto mediante lo sregolamento di tutti i sensi» e aggiunge «io è un altro». Come non vedere che proprio il trauma raccontato qui (e proprio perché ha saputo tenergli testa col ritmo) provoca in lui una scissione psichica, spingendo la sua poesia verso l’allucinazione e la droga?
La visionarietà del
Rimbaud maggiore sarà sempre materialista come solo certi mistici
sanno esserlo: via verso un altro mondo perché l’esistente non ci
merita ma senza spiritualismi nebulosi — concreti e brutali nella
fantasia come si è saputo essere fantasiosi nella brutalità. La
domanda finale, in quella caserma parigina, è stata «come agire?»;
per lui la poesia è azione, ribellione spinta fino al bisogno di
cambiare la vita. La lirica, presa alla lettera, conduce a un
dissidio insanabile con la realtà, il sogno mostra la corda e la
vita si vendica: spogliata dei suoi veli ambigui ebbene sì, «la
poesia è una cretinata».
Rimbaud a diciannove
anni avrà già bruciato l’intercapedine di malafede che permette
alla poesia di esistere e di volare, non scriverà più. Peregrinerà
per l’Europa esercitando i mestieri più strani, lo scaricatore di
porto e l’interprete in un circo, poi in Africa sarà commerciante
e trafficante d’armi. Tornato in Francia con un tumore complicato
dalla sifilide, muore a trentasette anni. Il mondo ha vinto, la
poesia si è suicidata per eccesso di onestà.
La Repubblica – 19
gennaio 2014
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