Cento anni fa iniziava
un ciclo di guerre e rivoluzioni destinato a durare trent'anni e a
cambiare radicalmente la faccia del mondo. Un argomento su cui
torneremo nei prossimi mesi. Iniziamo a parlarne con questo
intervento di Vittorio Zucconi apparso su La Repubblica.
Vittorio Zucconi
1914. Gli ultimi giorni prima della catastrofe
«Dall’alto della propria torre orgogliosa la Morte guardò il suicidio dell’isola nel mare ai suoi piedi». Fu questo verso di Poe che la storica Barbara Tuchman scelse per narrare il secolo del suicidio europeo cominciato nel 1914, l’anno fatale nel quale il continente più prospero, colto, sviluppato, civile, più egemone che il mondo avesse mai conosciuto, decise, per ragioni ancora inspiegabili, di autodistruggersi. L’Europa fu il Cavallo di Troia di se stessa. Implose — senza invasioni né attacchi, né orde di barbari — spalancando le porte della storia al Secolo Americano.
È difficile, per noi che abbiamo conosciuto soltanto l’Europa della miracolosa, e ora claudicante rinascita un secolo dopo quel 1914, comprendere quanto assoluta fosse la supremazia del nostro continente sul pianeta. E quanto improbabile apparisse in quell’anno la «marcia dei sonnambuli» — secondo la definizione di Christopher Clark a Cambridge — verso l’abisso. Chi lamenta la globalizzazione di oggi, non sa quanto già globale fosse il mondo della Belle Époque e profonda l’interdipendenza fra le nazioni del Vecchio Continente. Basteranno due cifre per dare la misura dello strapotere europeo: il 67 per cento della produzione industriale mondiale veniva da qui; l’80 per cento delle flotte militari e commerciali batteva bandiere europee.
Una guerra fra le corone, tutte posate sulla testa di parenti, cugini e cognati, e l’unica grande repubblica del tempo, la Francia, appariva anche più assurda di quanto possa sembrare oggi alle legioni di ragazzi che sciamano da un’università all’altra sotto il segno di Erasmo, ai turisti che salgono e scendono da voli low cost e treni superveloci, che passeggiano lungo le rive del Reno, della Mosa, della Vistola dopo avere attraversato frontiere di garitte vuote o bunker ormai coperti di edera. In un best seller del tempo, il Nobel per la pace sir Norman Angell poteva scrivere nel 1910 che la devastazione del credito e della finanza avrebbero impedito lo scoppio di una guerra o ne avrebbe reso brevissima la durata, nella solita fiaba del “tutti a casa per Natale”.
Ironicamente, il titolo
del suo saggio, La grande illusione, sarebbe divenuto un
indimenticabile film contro la guerra. Ma Angell non avrebbe potuto
immaginare che la rivoltella di un allucinato nazionalista
serbo-bosniaco, Gavrilo Princip, contro l’erede al trono degli
Asburgo Francesco Ferdinando a Sarajevo avrebbe messo in moto «la
marcia dei sonnambuli» destinata a durare per l’intero «secolo
breve», come lo chiamò Eric Hobsbawm. La stampa Usa, di fronte al
clamore suscitato da quell’assassinio, si concesse addirittura
qualche ironia. L’Heralddi New York scrisse che «con tutti i duchi
e gli arciduchi che hanno in Europa, uno in meno non può fare grande
differenza». Cento anni dopo, e ben più di cento milioni di morti
direttamente o indirettamente attribuibili a quell’«arciduca in
meno», storici della guerra come John Keegan si chiedono addirittura
se non sia stata la farraginosità e la lentezza delle comunicazioni
fra Cancellerie, non ancora adeguata alla velocità del telegrafo,
dei telefoni già esistenti in cavi sottomarini, della neonata radio,
a scatenare la reazione a catena.
Ma ciò su cui nessuno ha dubbi è il meccanismo di azioni e reazioni, catastrofi e vendette, conti di sangue lasciati in sospeso, che avrebbe prodotto la Guerra dei Trent’anni europea, chiusa soltanto nel maggio di trentun anni dopo per poi congelare il continente nella glaciazione del conflitto ideologico fra Est e Ovest. Tutto quello che sarebbe accaduto nella Seconda guerra, e nel lungo Dopoguerra che ancora tocca con le proprie dita gelide i rapporti fra Russia e Occidente, ha le proprie radici in quelle giornate di agosto 1914. Le mostruose tecnologie di morte usate nella Seconda guerra hanno il Dna nella Prima, i bombardamenti aerei, i tentativi di estendere la sofferenza alle popolazioni civili colpendo Parigi con supercannoni dalla gittata di 130 chilometri, i panzer, i primi rudimentali missili usati per abbattere palloni aerostatici e dirigibili. E i gas letali che dalle trincee sarebbero passati direttamente alle camere dello sterminio nazista e, ancora oggi, sostanzialmente identici, ai massacri in Siria.
Molti, se non tutti, i protagonisti, della Seconda guerra, erano figli della Prima. Churchill, Lord dell’Ammiragliato fino al 1915; Gamelin, vincitore della prima battaglia della Marna nel 1914 e poi disastroso comandante supremo dell’Armée francese nel 1940; Hitler, reduce rancoroso e ferito nelle trincee del fronte occidentale; Zhukov, il conquistatore di Berlino, decorato sui campi del 1915 contro le armate del Kaiser; Badoglio, vincitore del Sabotino e poi Capo di Stato Maggiore per la sciagurata offensiva contro la Grecia del 1940. E naturalmente Mussolini, ferito sul Carso da una bomba durante un’esercitazione.
Insieme con il cumulo di macerie, cadaveri, di immensi danni economici che dimezzarono le capacità industriali di nazioni come la Germania e divorarono una generazione di giovani uomini che in Francia lasciarono, nel 1918, una proporzione di sei donne per quattro maschi e centinaia di migliaia diinvalides,l’eredità più sottilmente velenosa di quel 1914 fu quella che John Keegan definì «la militarizzazione della politica».
Nei totalitarismi
prodotti dalla guerra, dove le ideologie e i partiti erano stati
messi in divisa restò, e ancora sotto pelle sopravvive, «il morso
dell’odio per il nemico e quel risentimento — scrive sempre
Keegan — che è sempre veloce nell’azzannare e lentissimo nel
lasciare la preda ». Dovette essere l’America, due volte strappata
al sonno del suo isolazionismo, a impedire alla Terra Madre di
precipitare in un abisso senza ritorno.
Oggi quel campo della morte che fu l’Europa è silenzioso. Ma la Signora di Edgar Allan Poe, alta sulla propria gigantesca torre, osserva l’isola nel mare ai suoi piedi e aspetta paziente.
La Repubblica 12 gennaio
2014
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