18 gennaio 2014

L' ECOLOGIA POETICA DI ANDREA ZANZOTTO


Raoul Bruni

L’ecologia poetica di Andrea Zanzotto



Nessuno scrittore contemporaneo ha saputo trasmettere l’essenza profonda del paesaggio come Andrea Zanzotto, il quale, dall’esordio, intitolato, per l’appunto, Dietro il paesaggio (1951), fino alla sua ultima raccolta, Conglomerati (2009), ne ha fatto il nucleo più autentico della sua ricerca poetica. Attorno a questo nucleo non ruotano soltanto le poesie zanzottiane, ma anche un consistente gruppo di prose sparse – interventi, articoli, saggi, ricordi autobiografici – pubblicate tra la metà degli anni Cinquanta e gli anni duemila, e ora opportunamente raccolte – nel secondo anniversario dalla morte dell’autore – sotto il titolo Luoghi e paesaggi (Bompiani, pp. 228, euro 11,00). Come osserva l’attento curatore del volume, Matteo Giancotti, per Zanzotto «il paesaggio non esiste in senso assoluto ma si manifesta come evento, accadimento che lega in un intreccio indissolubile e non descrivibile – se non per approssimazioni – la realtà del luogo e la condizione psico-fisica dell’uomo».
Nel caso di Zanzotto il paesaggio è, per eccellenza, quello veneto, che il poeta non abbandonò mai, se non per brevi periodi (fa eccezione un giovanile soggiorno a Vienna, di cui, in questo libro, si può leggere il vivace resoconto): quindi, innanzitutto, la natia Pieve di Soligo e il Quartier del Piave, dove svetta l’amatissimo Molinetto, un mulino cinquecentesco a cui il poeta allude a più riprese nelle sue prose; i Colli Euganei; Padova; e poi naturalmente Venezia, a cui è dedicato, tra l’altro, lo splendido scritto Venezia, forse – probabilmente il capolavoro in prosa di Zanzotto – che accompagnava il catalogo fotografico di Fulvio Roiter Essere Venezia (1977).
Se già negli anni Sessanta, in pieno boom economico, Zanzotto aveva denunciato gli allarmanti contraccolpi ambientali dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione indiscriminate («resta quasi dovunque sfregiato il volto antico delle città e le campagne vengono infiltrate da una specie di sfilacciato tessuto urbano, proliferante in costruzioni amorfe, come quelle villette-benessere che, se saziano un’antica fame di abitazioni per tutti, oscurano con la loro caotica disseminazione ogni angolo del paesaggio»), in seguito, la sua prospettiva diventa sempre più radicale e drastica nel denunciare i dissesti di ciò che, in una lirica che dà il titolo a un suo fortunato libro-intervista, chiamò progresso scorsoio (In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, 2009). Che Zanzotto abbia avuto, da sempre, una sensibilità ecologica è fuori di dubbio, anche se il suo ecologismo non è certamente assimilabile a quello esibito da certi partiti politici. Per il poeta, infatti, la devastazione dell’ambiente non è un dato puramente chimico-bilogico, ma ha profonde implicazioni metafisiche.
Dalle prose di Zanzotto emerge un’idea poetica della natura, che lo fa parlare di un «Deus vivente nella natura, e probabilmente al di là di essa». Si direbbe che la natura/paesaggio rappresenti per Zanzotto l’ultimo rifugio del sacro nel mondo contemporaneo: «senza voler sottovalutare gli altri fattori, è in primo luogo nel paese e nei suoi dèi che bisogna credere». Questa interessante notazione sembra assimilabile a certe concezioni del romanticismo tedesco e europeo, che hanno prospettato un’immagine poetica e quasi divina della natura (si pensi a Novalis); mentre in ambito italiano non è inopportuno chiamare in causa un autore tra i più amati da Zanzotto, cioè Leopardi, che non parlò soltanto di una natura matrigna, ma anche anche di una natura «ordinata ad un effetto poetico» (Zibaldone, 22 agosto 1823). Anche Andrea Zanzotto, nell’intervento Il paesaggio come eros della terra (2006), riconduce i progetti della natura alla poiesis («A differenza di quelli umani, “I progetti” della natura non si presentano mai come “progetti”, essendo “genesi” anch’essi,  poeisis, nel senso più arcaico della parola») e continua ad alludere alla presenza di «un deus che continuamente sorprende manifestando il suo esistere anche con abbaglianti precisioni», lo stesso deus «che si riconnette ai testi di poesia». La poesia dà voce al misterioso deus del paesaggio e della natura, e forse anche Zanzotto avrebbe poturo far sua la singolarissima dichiarazione di poetica di Leopardi, che, parafrasando un celeberrimo passo del Purgatorio dantesco, affermava «I’ mi son un che quando Natura parla», definendo la poesia una «facoltà divina» (Zibaldone, 10 settembre 1828).
La natura, in Zanzotto, così come in Leopardi, si lega profondamente alla poesia. Non è un caso che in Zanzotto le esplorazioni del paesaggio siano anche, se non soprattutto, esplorazioni poetiche e spirituali. Basta pensare alle frequenti incursioni di Zanzotto nei luoghi petrarcheschi, come i già citati Colli Euganei e il Monte Ventoso. Così come il paesaggio, anche la poesia e i suoi miti sono minacciati. Con un geniale cortocircuito, che ci mostra come, anche negli anni della vecchiaia, fosse tutt’altro che chiuso nella proverbiale torre d’avorio, il poeta veneto stabilisce un sorprendente parallelismo tra il declino del mito della Laura petrarchesca, la cui esistenza è messa in discussione da alcuni studiosi, e il successo della canzone Laura non c’è al Festival di Sanremo del 1997: «Nek è il nome del cantautore che viene a sottolineare questa vera e propria nex (strage) pur senza volerlo: intanto i ragazzi d’Italia ci piangiucchiano sopra».
Nonostante le sue crescenti preoccupazioni per le sorti nazionali e globali, Zanzotto non si abbandonò mai a un banale e lagnoso catastrofismo (si noti l’ironia del passo appena citato), e anche nelle punte più estreme di pessimismo non si arrese mai completamente all’«inesausta invadenza dell’economia a tutti i livelli del mondo dell’uomo». Anzi: queste prose, e, più in generale, molta parte dell’opera di Zanzotto, possono anche considerarsi una forma esemplare di resistenza: etica non meno che estetica.

Da Europa  18 gennaio 2014 

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