E' morto Juan Gelman,
anima poetica dell'Argentina. Cantò l'amore, il vino e la gioia.
Cantò il dolore degli oppressi e dei perseguitati. Usò la poesia come un'arma contro la dittatura. Non perse mai la
speranza. Ci piace ricordarlo con tre sue brevi liriche e un articolo di Benedetto Vecchi pubblicato oggi dal Manifesto.
Tre poesie di Juan Gelman
Il vino
Rosso all’occhio/dolcezza al
bevitore/
il suo corpo arde in Spagna/
il suo aroma tocca l’India/
langue nella caraffa/attende
di scioglierti la bocca/di illuminarti il palato/
di celebrare un mistero nella tua testa/
il disgraziato che ha ancora cuore/
sangue nel cuore/mescolato
a lacrime/solleva
la caraffa/proibisce le pene
col sangue di un popolo di grappoli/
gira la caraffa/passa
da una mano al calore di altra mano/
come se ogni amico
lustrasse una faccia del diamante
il suo corpo arde in Spagna/
il suo aroma tocca l’India/
langue nella caraffa/attende
di scioglierti la bocca/di illuminarti il palato/
di celebrare un mistero nella tua testa/
il disgraziato che ha ancora cuore/
sangue nel cuore/mescolato
a lacrime/solleva
la caraffa/proibisce le pene
col sangue di un popolo di grappoli/
gira la caraffa/passa
da una mano al calore di altra mano/
come se ogni amico
lustrasse una faccia del diamante
Mia amata Buenos
Aires
Seduto al bordo di una sedia sfondata,
Ubriaco, malato, quasi vivo,
Scrivo versi previamente pianti
Per la città dove sono nato.
Ubriaco, malato, quasi vivo,
Scrivo versi previamente pianti
Per la città dove sono nato.
Bisogna catturarli.
Anche qui
Sono nati dolci figli miei
Che in tutto questo dolore ti addolciscono con bellezza.
Bisogna imparare a resistere.
Anche qui
Sono nati dolci figli miei
Che in tutto questo dolore ti addolciscono con bellezza.
Bisogna imparare a resistere.
Nè ad andarsene
Nè a rimanere.
A resistere.
Anche se di sicuro
Ci sarà ancor più dolore e oblio.
Nè a rimanere.
A resistere.
Anche se di sicuro
Ci sarà ancor più dolore e oblio.
Epitaffio
Un uccello viveva in me.
Un fiore viaggiava nel mio sangue.
Il mio cuore era un violino.
Un fiore viaggiava nel mio sangue.
Il mio cuore era un violino.
Volessi o no. Però a volte
volevo. Anche a me
volevo. Anche a me
hanno rallegrato: la primavera,
le mani intrecciate, la felicità.
le mani intrecciate, la felicità.
Affermo che l'uomo deve esserlo!
Qui giace un uccello.
Un fiore.
Un violino.
Un violino.
Benedetto
Vecchi
I versi che
illuminano lo sgomento
«Dai morti si
solleva una nuova battaglia», scriveva
Juan Gelman. Ai vivi restano la polvere e pochi
graffi su un muro. Segni deboli da interpretare,
se ne saremo capaci. Se «l'utopia non ci si sarà seccata
in testa». «Nessuno», leggiamo in una sua
poesia della raccolta Valer la pena (traduzione
di Laura Branchini, Guanda), «ti insegna a essere
mucca», così come «nessuno ti insegna a volare
nello spavento».
Ebreo di
origine ucraina, comunista da sempre e
per sempre, giornalista prima alla
rivista Crisis e poi redattore capo del
quotidiano Noticias, traduttore per
l'Unesco, poliglotta sensibile alle voci del
mondo, Juan Gelman si è spento il 14 gennaio
scorso a Città del Messico, dove viveva da circa
vent'anni.
Nel vortice
dello «spavento», Gelman ci era volato davvero
e più di una volta, ma sempre con rigore e coraggio.
Nel 1975, l'allora membro delle Forze armate
rivoluzionarie e della gioventù
montonera si era recato all'estero per spiegare
al mondo ciò che il mondo non voleva capire, né sapere sui
crimini con cui la Triple A, l'Alianza
anticomunista argentina, stava
«riformando» il paese. Non fece ritorno, perché
«condannato a morte» dal regime.
Alla madre morta
durante il suo esilio, Gelman ha dedicato uno
dei suoi lavori più belli (Carta a mi madre), mentre
in Salarios del impíos (1993) racconterà il
suo mala che per il sin tierra coincide con la doppia
estraneità delle parole e delle cose.
Ma le cose vanno
viste e raccontate, anche con la poesia. Una
poesia che, in Gelman, fin dal suo esordio
del 1956 con Violín y otrascuestiones,
è sempre stata un dialogo con gli amici lontani
(la madre, i famigliari, i compagni
scomparsi), ma anche il terreno necessario
del dubbio. Specialmente negli ultimi anni,
quando la sua lettura dei mistici ha riaperto il
grande campo dell'esilio. La prestazione
fondamentale sottesa alla sua opera
appare allora come una cartografia di questo
eslio, ovvero di ciò che ci lascia nudi, davvero nudi
dinanzi allo sconforto della ragione.
Solo nella
poesia è possibile rilanciare
infinitamente i propri dadi,
soprattutto ora che si sono distratti i signori del
marketing e i distratti si accorgono che «non
tutto si può pagare in contanti o a credito». Il
coup de dés della poesia di Gelman è la prova di
questa verità e al tempo stessola sottrazione
a tutte le maschere che questa verità reclama. La
disperazione poetica, in ogni sua forma,
compresa quella della riscrittura dei grandi
cabalisti spagnoli a cui si è alacremente
dedicato Com/posizioni, Rayuela edizioni) appare
in Gelman un transito a una rinnovata
ispirazione pratica. Una parola senza
insediamento, senza luogo, che proprio quando
ritrarsi all'interpretazione, si apre sul confine
sempre incerto dell'altro: parola «senz'altro padrone
che il cammino».
Qua e là non è
difficile cogliere riferimenti al figlio
ventenne, Marcello, e a sua nuora Maria, rapiti,
torturati e uccisi dai militari. Maria era
però incinta di sette mesi al momento della scomparsa
e Gelman non rinunciò mai a rincorrere,
inseguire, decifrare le tracce esili – ecco
nuovamente, qui, i «segni deboli» da
interpretare — della bambina. Nata? Morta?
Mai nata? Alla fine, tredici anni fa, la ritrovò in
Uruguay dove era registrata come figlia di un
poliziotto.
"Nessuno
racconta la sospensione dell'uccello in ogni cosa
di fuori. E perché allora la poesia dovrebbe
raccontare le processioni della memoria
terribile dentro la carne che s'incurva?»
Parafrasando René Char, Juan Gelman amava
scrivere e ricordare che «bisogna saper
leggere le regole dello sgomento anche in una
città illuminata dal sole». Nei giorni che
sembrano felici, i grandi crolli sono annunciati
da piccoli cedimenti nelle parole. Il compito
del poeta è lavorare con la materia oscura di
quelle parole, decifrando,traducendo, riscrivendo.
Anni fa,
intervistandolo per il manifesto ci
disse: «comincio a scrivere quando sento un
rumore all'orecchio e mi prende un malumore
straordinario. Sento dentro di me
un'ossessione. Quello che tutti chiamano ispirazione
per me è soltanto questo: un'ossessione. Non so
di preciso che cosa mi accada. Potrei dire –
scherzando, ovviamente – che scrivo per
leggermi e capire, a posteriori, quello che mi
accade.(...) La poesia è una signora molto occupata,
poiché ci sono poeti dappertutto. Bisogna
aspettarla, non chiamarla. Non è questione
di pazienza o di volontà. Si tratta di attendere che
arrivi con ciò che ho chiamato ossessione».E ancora,
parlando di sua nipote e di desaparecidos:
«quando si parla di numeri, il caso sparisce. Si
dice che sono stati trentamila, centomila,
diecimila. Solo numeri e tutte le storie
personali – il dolore, la rabbia, la vita –
sono assorbite dalla cifra. Al contrario,
quando si sottolinea una caso particolare,
allora anche tutti gli altri si illuminano. È il
volto che riappare. Non il numero».
Pochi giorni fa,
infine, una domanda che ora più che mai suona come una
chiamata verso quelle forme di comunità e di
pensiero ancora e sempre da costruire. Anche con
la poesia: «nella mano che colpì il nemico risiedeva
anche il male. Con che bontà, allora, si colpisce
l'ingiustizia?».
il
manifesto | 16 Gennaio 2014
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