16 gennaio 2014

in memoria di Juan Gelman



E' morto Juan Gelman, anima poetica dell'Argentina. Cantò l'amore, il vino e la gioia. Cantò il dolore degli oppressi e dei perseguitati. Usò la poesia come un'arma contro la dittatura. Non perse mai la speranza. Ci piace ricordarlo con tre sue brevi liriche e un articolo di Benedetto Vecchi pubblicato oggi dal Manifesto.



Tre poesie di  Juan Gelman

Il vino

Rosso all’occhio/dolcezza al bevitore/
il suo corpo arde in Spagna/
il suo aroma tocca l’India/
langue nella caraffa/attende
di scioglierti la bocca/di illuminarti il palato/
di celebrare un mistero nella tua testa/
il disgraziato che ha ancora cuore/
sangue nel cuore/mescolato
a lacrime/solleva
la caraffa/proibisce le pene
col sangue di un popolo di grappoli/
gira la caraffa/passa
da una mano al calore di altra mano/
come se ogni amico
lustrasse una faccia del diamante
 
 

Mia amata Buenos Aires
Seduto al bordo di una sedia sfondata,
Ubriaco, malato, quasi vivo,
Scrivo versi previamente pianti
Per la città dove sono nato.
Bisogna catturarli.
Anche qui
Sono nati dolci figli miei
Che in tutto questo dolore ti addolciscono con bellezza.
Bisogna imparare a resistere.
Nè ad andarsene
Nè a rimanere.
A resistere.
Anche se di sicuro
Ci sarà ancor più dolore e oblio.
 
 

Epitaffio

Un uccello viveva in me.
Un fiore viaggiava nel mio sangue.
Il mio cuore era un violino.
Volessi o no. Però a volte
volevo. Anche a me
hanno rallegrato: la primavera,
le mani intrecciate, la felicità.
Affermo che l'uomo deve esserlo!
Qui giace un uccello.
Un fiore.
Un violino.
 
 
Benedetto Vecchi

I versi che illuminano lo sgomento

«Dai morti si sol­leva una nuova bat­ta­glia», scri­veva Juan Gel­man. Ai vivi restano la pol­vere e pochi graffi su un muro. Segni deboli da inter­pre­tare, se ne saremo capaci. Se «l'utopia non ci si sarà sec­cata in testa». «Nes­suno», leg­giamo in una sua poe­sia della rac­colta Valer la pena (tra­du­zione di Laura Bran­chini, Guanda), «ti inse­gna a essere mucca», così come «nes­suno ti inse­gna a volare nello spavento».

Ebreo di ori­gine ucraina, comu­ni­sta da sem­pre e per sem­pre, gior­na­li­sta prima alla rivi­sta Cri­sis e poi redat­tore capo del quo­ti­diano Noti­cias, tra­dut­tore per l'Unesco, poli­glotta sen­si­bile alle voci del mondo, Juan Gel­man si è spento il 14 gen­naio scorso a Città del Mes­sico, dove viveva da circa vent'anni.

Nel vor­tice dello «spa­vento», Gel­man ci era volato dav­vero e più di una volta, ma sem­pre con rigore e corag­gio. Nel 1975, l'allora mem­bro delle Forze armate rivo­lu­zio­na­rie e della gio­ventù mon­to­nera si era recato all'estero per spie­gare al mondo ciò che il mondo non voleva capire, né sapere sui cri­mini con cui la Tri­ple A, l'Alianza anti­co­mu­ni­sta argen­tina, stava «rifor­mando» il paese. Non fece ritorno, per­ché «con­dan­nato a morte» dal regime.

Alla madre morta durante il suo esi­lio, Gel­man ha dedi­cato uno dei suoi lavori più belli (Carta a mi madre), men­tre in Sala­rios del impíos (1993) rac­con­terà il suo mala che per il sin tierra coin­cide con la dop­pia estra­neità delle parole e delle cose.

Ma le cose vanno viste e rac­con­tate, anche con la poe­sia. Una poe­sia che, in Gel­man, fin dal suo esor­dio del 1956 con Vio­lín y otra­scue­stio­nes, è sem­pre stata un dia­logo con gli amici lon­tani (la madre, i fami­gliari, i com­pa­gni scom­parsi), ma anche il ter­reno neces­sa­rio del dub­bio. Spe­cial­mente negli ultimi anni, quando la sua let­tura dei mistici ha ria­perto il grande campo dell'esilio. La pre­sta­zione fon­da­men­tale sot­tesa alla sua opera appare allora come una car­to­gra­fia di que­sto eslio, ovvero di ciò che ci lascia nudi, dav­vero nudi dinanzi allo scon­forto della ragione.

Solo nella poe­sia è pos­si­bile rilan­ciare infi­ni­ta­mente i pro­pri dadi, soprat­tutto ora che si sono distratti i signori del mar­ke­ting e i distratti si accor­gono che «non tutto si può pagare in con­tanti o a cre­dito». Il coup de dés della poe­sia di Gel­man è la prova di que­sta verità e al tempo stes­sola sot­tra­zione a tutte le maschere che que­sta verità reclama. La dispe­ra­zione poe­tica, in ogni sua forma, com­presa quella della riscrit­tura dei grandi caba­li­sti spa­gnoli a cui si è ala­cre­mente dedi­cato Com/posizioni, Rayuela edi­zioni) appare in Gel­man un tran­sito a una rin­no­vata ispi­ra­zione pra­tica. Una parola senza inse­dia­mento, senza luogo, che pro­prio quando ritrarsi all'interpretazione, si apre sul con­fine sem­pre incerto dell'altro: parola «senz'altro padrone che il cammino».



Qua e là non è dif­fi­cile cogliere rife­ri­menti al figlio ven­tenne, Mar­cello, e a sua nuora Maria, rapiti, tor­tu­rati e uccisi dai mili­tari. Maria era però incinta di sette mesi al momento della scom­parsa e Gel­man non rinun­ciò mai a rin­cor­rere, inse­guire, deci­frare le tracce esili – ecco nuo­va­mente, qui, i «segni deboli» da inter­pre­tare — della bam­bina. Nata? Morta? Mai nata? Alla fine, tre­dici anni fa, la ritrovò in Uru­guay dove era regi­strata come figlia di un poliziotto.

"Nes­suno rac­conta la sospen­sione dell'uccello in ogni cosa di fuori. E per­ché allora la poe­sia dovrebbe rac­con­tare le pro­ces­sioni della memo­ria ter­ri­bile den­tro la carne che s'incurva?» Para­fra­sando René Char, Juan Gel­man amava scri­vere e ricor­dare che «biso­gna saper leg­gere le regole dello sgo­mento anche in una città illu­mi­nata dal sole». Nei giorni che sem­brano felici, i grandi crolli sono annun­ciati da pic­coli cedi­menti nelle parole. Il com­pito del poeta è lavo­rare con la mate­ria oscura di quelle parole, decifrando,traducendo, riscrivendo.

Anni fa, inter­vi­stan­dolo per il mani­fe­sto ci disse: «comin­cio a scri­vere quando sento un rumore all'orecchio e mi prende un malu­more straor­di­na­rio. Sento den­tro di me un'ossessione. Quello che tutti chia­mano ispi­ra­zione per me è sol­tanto que­sto: un'ossessione. Non so di pre­ciso che cosa mi accada. Potrei dire – scher­zando, ovvia­mente – che scrivo per leg­germi e capire, a poste­riori, quello che mi accade.(...) La poe­sia è una signora molto occu­pata, poi­ché ci sono poeti dap­per­tutto. Biso­gna aspet­tarla, non chia­marla. Non è que­stione di pazienza o di volontà. Si tratta di atten­dere che arrivi con ciò che ho chia­mato ossessione».E ancora, par­lando di sua nipote e di desa­pa­re­ci­dos: «quando si parla di numeri, il caso spa­ri­sce. Si dice che sono stati tren­ta­mila, cen­to­mila, die­ci­mila. Solo numeri e tutte le sto­rie per­so­nali – il dolore, la rab­bia, la vita – sono assor­bite dalla cifra. Al con­tra­rio, quando si sot­to­li­nea una caso par­ti­co­lare, allora anche tutti gli altri si illu­mi­nano. È il volto che riap­pare. Non il numero».

Pochi giorni fa, infine, una domanda che ora più che mai suona come una chia­mata verso quelle forme di comu­nità e di pen­siero ancora e sem­pre da costruire. Anche con la poe­sia: «nella mano che colpì il nemico risie­deva anche il male. Con che bontà, allora, si col­pi­sce l'ingiustizia?».

il manifesto | 16 Gennaio 2014



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