Renato Guttuso, Il funerale di Togliatti
Massimo Raffaeli
Guttuso scrittore
La questione del realismo, tornata con
la durezza di una crisi senza precedenti, impone la domanda sullo
statuto di realtà. Che l’arte ne sia sempre un riflesso e insieme un
trattamento ovvero una necessaria manipolazione/stilizzazione è cosa
troppo ovvia per dover essere ancora una volta ribadita ma che,
viceversa, l’“effetto di realtà”, come lo immaginò una volta Roland
Barthes, debba corrispondere per forza a un diniego preventivo, a
un’evasione o alla negazione di qualunque rapporto fra il linguaggio e
il mondo delle cose tangibili, questo lo poteva pensare soltanto chi
aveva decretato la “morte dell’autore” e, con essa, la resa al mercato e
cioè a una distesa di merci di cui le opere d’arte costituivano una
anonima e proliferante pigmentazione, un insieme di manufatti, azioni o
persino di ingiunzioni le quali alludessero a un residuo valore d’uso
sottratto al valore di scambio.
Ma la storia dell’avanguardia e delle
sue ricorrenze induceva a pensare, come disse qualcuno, che il gesto più
vano, dopo avere messo i baffi alla Gioconda, fosse aggiungerle anche
la barba. Dunque non deve stupire che quasi in punto di morte, nel 1985,
uno dei nostri massimi pittori, Renato Guttuso, trovi consonante con la
sua la posizione del giovane Jean Clair di Critica della modernità. All’apice della parabola, nel ’60, Guttuso spiega in che cosa consista Il realismo nella pittura:
“Il documentarismo? Ebbene, io penso che l’istanza realistica non si
può esaurire nel documento. […] Una pittura simbolica? Ebbene, io sono
per una pittura di idee. […] Voglio dire semplicemente che quel che
conta, oggi, è che la scelta di ognuno abbia per obiettivo
un’implicazione più larga possibile del reale. […] Chi oggi si richiami
con coraggio a una pittura figurativa di ispirazione realista, tende a
ricostruire l’integrità dell’uomo. Coloro che cercano la realtà e non
sono figurativi, ci dicono che l’uomo è dilaniato, che la realtà è a pezzi. Ma l’uomo non è a pezzi,
perché le grandi lotte attraverso le quali la società cerca il suo
nuovo assestamento costituiscono una poderosa spinta verso una nuova unità umana”.
Quando scrive queste parole, da militante comunista per i lettori di “Mondo Nuovo”, Guttuso ha firmato da vent’anni la Crocifissione col Cristo rosso, da dieci la Occupazione delle terre incolte in Sicilia e lo splendido pannello della Battaglia del ponte dell’Ammiraglio
che, nonostante sia apprezzato da Longhi, gli stolti prendono ad
esempio d’arte propagandistica e illustrativa: del resto la sua
posizione umanistica (un umanesimo progressivo, nel fuoco di aspri
mutamenti sociali) consuona con l’opzione del realismo critico la cui
“scelta”, così la chiama per etimologia, richiama i nomi di Piero,
Caravaggio, David, Goya, Courbet, Cézanne e ovviamente, in guisa di
epicentro secolare come di eterno sparring, Pablo Picasso cui è riservata la zona nevralgica degli Scritti
(a cura di Marco Carapezza, con in contributi di Fabio Carapezza
Guttuso e Massimo Onofri, Bompiani “Classici”, pp. CX+1942, € 50.00),
ora in una edizione esemplare per la ricchezza degli apporti e la
precisione della curatela, a tanti anni dalla prima sequenza che Natale
Tedesco ne fornì in un numero monografico di “Galleria” (’71) e dalla
silloge molto parziale che Guttuso intitolò Mestiere di pittore (De Donato 1972).
L’attuale raccolta, che esclude i testi
di natura propriamente politica, si divide in tre parti: nella prima
compaiono pagine di ricordo e di accompagnamento ai suoi contemporanei
(meno noti ma bellissimi i testi giovanili, per lo più pubblicati su
“L’Ora”, veri e propri affondi di critica militante), i pezzi
monografici, a volte molto estesi, sui classici e massime su Caravaggio e
Courbet, nonché il baricentrico Dossier Picasso, le cui pagine
datano dal ’33 al 1986; nella seconda parte sono incluse notazioni di
diario, gli scritti di poetica e più in generale sulla questione del
realismo; la terza è infine riservata agli interventi sull’impegno
civile e la difesa di un patrimonio artistico nazionale già intaccato
dalla incuria, negli anni settanta, e a rischio di sfacelo come di
fagocitazione mercantile. Decisamente, Guttuso scrittore assomiglia al
pittore. Il segno è marcato, tridimensionale, rifrangente di aloni
tattili, la frase è tornita senza essere massiccia, il periodo sostenuto
da una ritmica talora incalzante, il tono è tipico di una comunicazione
partecipata, appassionata. All’avvio il modello non può non essere
Benedetto Croce cui si sovrappone presto l’ombra di Roberto Longhi
(tuttavia mai imitato, essendo inimitabile), ma l’eterno referente è
Verga, con i suoi spessori e la sua nuda ponderalità. Netta è la scelta
di campo che non esclude l’onore delle armi agli antipodi o ai nemici
del verosimile: basti citare le pagine d’omaggio a Paul Klee, a Jackson
Pollock o a Giorgio Morandi che, anzi, torna alla maniera di uno spettro
propizio nella fase centrale della sua produzione pittorica (e appunto
si veda il Morandi del ’65). Ma insomma cos’ha da dirci, qui e
ora, il realismo di Guttuso, quale cifra ci consegna al di là di una
poetica che si vuole innanzitutto critica e insieme umanistica? Quanto,
in altri termini, la sua natura volitiva ha ceduto all’oratoria dell’engagement, voltando le spalle ad un secolo di cui si riteneva testimone e interprete implacabile?
Nel suo scritto introduttivo (che si lega a un saggio del ’96, Guttuso nella terra dei letterati, ora in Altri italiani. Saggi sul Novecento, Gaffi 2012) Massimo Onofri ne stila un bilancio a partire dall’opera più indiziata, Funerali di Togliatti (’72), di cui dà una lettura innovativa a partire dal nesso con altre due partiture polifoniche, La cerimonia d’apertura del II Congresso della Terza Internazionale (’21-’24) di Isaak Brodskij e Au rendez-vous des amis (’22), il sacrario surrealista di Max Ernst. Proprio dal rosso dilagante dei Funerali,
dal suo deflusso malinconico e mutamente imponente, Onofri deduce non
una mesta elegia o peggio una agiografia ma, al contrario, una fervida
contraddizione e una costante tensione sulla tela del pittore siciliano,
la stessa che può esserci fra una volontà di liberazione (il rosso
effuso, sperperato o gridato) e un senso perpetuo di disperazione, di
violenza primordiale, di rabbia talora inespressa ma sempre tellurica:
“Siamo, insomma, dentro un sistema di spinte e controspinte, nei modi di
una permanente dialettica tra un primevo, irrefutabile, senso di
disperazione e un imperativo bisogno di liberazione, procrastinata in un
futuro che diventa sempre più lontano. Quello di Guttuso, insomma,
resta un rapporto agonistico con la vita e col mondo, nei modi di un
realismo esacerbato, risentito”. Questo era peraltro e per proverbio il
suo carattere, a dispetto della decalcomania che in tempi di
postmodernismo (e/o di aggressivo revisionismo) lo ritrae volentieri
come il pittore ufficiale del Partito comunista italiano nonché
firmatario di infamanti “picassate”. Invece era un pittore
straordinario, inquieto e generoso anche nelle debolezze, nelle sue
cadute, pervaso, scriveva giovanissimo nel necrologio di Scipione, “da
voluttà incendiaria in tramonti infuocati di lava”. Non ha giocato col
suo secolo come tanti appenditori di baffi e di barbe à la page, Renato Guttuso, ma gli ha reso onore fino all’ultimo.
[Questo articolo è già uscito su «Alias - il manifesto» e oggi sul sito http://www.leparoleelecose.it
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