22 gennaio 2014

I GIOVANI E I NUOVI MEDIA


Matteo Di Gesù

Il digitale ci seppellirà? Le nuove generazioni e i nuovi media


Petite pouchette, ‘Pollicina’, è il titolo originale del libretto di Michel Serres che Bollati Boringhieri, nell’edizione italiana, ha vòlto, forse non troppo felicemente, in Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere (2013) L’epistemologo evoca appunto Pollicino -o meglio una sua versione femminile, Pollicina, a rimarcare una differenza di genere tutt’altro che irrilevante- per riposizionarsi dalla parte dei cosiddetti ‘nativi digitali’ e ragionare, con la sua candida arguzia provocatoria (che avevamo imparato a conoscere, tra l’altro, nel Mantello di Arlecchino. «Il terzo-istruito»: l’educazione nell’età futura, Marsilio 1992), sulla rivoluzione del sapere prodotta dalla società digitale: «Il nome della mia eroina», scrive l’autore, «non indica “qualcuno della sua generazione”, “qualche adolescente di oggi”, espressioni un po’ sprezzanti. No, non si tratta di trarre un elemento x da un insieme A, come si dice in teoria. Pollicina è unica, esiste in quanto individuo, in quanto persona, non come astrazione. […] Come un tempo il milite ignoto, il cui corpo giace davvero nella tomba, e alla cui identità si potrebbe risalire con l’analisi del DNA, questo anonimo è l’eroe dei nostri giorni. Pollicino codifica tale anonimato».
Si tratta di una questione nominalistica tutt’altro che capziosa, dunque. Ma, soprattutto, si tratta di una questione di punti di vista: o meglio di sforzarsi di guadagnarne uno davvero diverso, di abbandonare la propria postazione, specie se si tratta di un presidio intellettuale dal quale è ormai compromesso uno sguardo soddisfacente sulle cose (o, ancora peggio, se ci si ostina a volersi rappresentare le cose per come le si scruta da un punto d’osservazione inadeguato), per guardare finalmente da un’altra prospettiva lo stato delle trasformazioni in corso. Senza dubbio, dislocarsi altrove, come fa Serres, gioverebbe a molti analisti della decadenza culturale italiana, a numerosi protagonisti di un dibattito ormai per lo più scadente e inservibile. In fondo basterebbe prendere spunto dai cartoni animati, dai fumetti, dalle fiabe: in Tom e Jerry gli umani entrano “nell’inquadratura” solamente dalle ginocchia in giù, nei Peanuts gli adulti rimangono sempre fuori dalle vignette e di essi si legge tutt’al più la voce, in un balloon senza personaggio (come quella della maestra di Piperita Patty).
Serres postula una serie di enunciati assiomatici su come la percezione dello spazio, del tempo, del corpo, per questa generazione (alla quale egli guarda con manifesta benevolenza, concedendone ben poca al mondo degli adulti), sia radicalmente mutata, ma soprattutto pone drasticamente, senza troppi preamboli, la questione dell’organizzazione dei saperi, della loro smaterializzazione, della loro trasmissione e della loro fruizione, dei nuovi modelli di relazione e negoziazione che questa trasformazione impone. E lo fa indugiando, con sapiente retorica, sull’allegoria del vescovo Dionigi, martire cristiano che doveva essere decapitato sulla sommità di Montmartre: la Leggenda aurea racconta che la soldataglia, stufa della salita, lo decollò a metà strada; ma Dionigi, decapitato, miracolosamente si risollevò, raccolse la propria testa e risalì la china fino alla cima. Pollicina, come Dionigi, tiene tra le mani la propria testa, potendo smanettare su un dispositivo sempre connesso che le permette di reperire un’enorme quantità di informazioni e di condividerle con altrettanta rapidità (sì, l’allusione ai pollici è anche questa, non priva della suggestione sul recupero di una manualità che pareva dismessa): Pollicina ha tra le mani parte di quella facoltà cognitiva che un tempo sarebbe stata ‘interna’. Ma, anziché ingrossare le fila degli apocalittici, turbati da questa epocale decollazione digitale di massa, Serres ci ricorda, sulla scorta di Montaigne, che a «una testa ben piena» è sempre comunque preferibile «una testa ben fatta»: meglio, allora, darsi da fare per rifondare collettivamente le agenzie della mediazione culturale e per istituire nuovi legami sociali orizzontali, assecondando le potenzialità antigerarchiche e inclusive che la rivoluzione informatica dispiega.
Sarebbero svariati gli usi pratici che di questo breve saggio si potrebbero fare nel nostro Paese: arginare i sospiri sconsolati del/della collega docente che, al cospetto di uno studente che tentenna sulla collocazione storica del Pastor fido, rimpiange la solida preparazione di quelli dei tempi andati (manco a dirlo, il collega docente non è capace di salvare un file in formato pdf per trasmetterlo a quello stesso sciagurato studente), tanto più se l’autore è un accademico professore ultraottantenne, quale Serres è; modificare il frame del sempiterno discorso su intellettuali e impegno, che dalle nostre parti si ripropone senza variazioni da una quarantina d’anni (Maurizio Ferraris è tornato recentemente a interrogarsi sulla relazione tra intellettuale ‘novecentesco’ e nuovi media); arricchire una riflessione avviata con provocatoria intelligenza da Roberto Casati con il suo Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere (Laterza); mettere in dubbio la prospettiva dalla quale brillanti autori progressisti sessantenni di successo, con stuoli di “signore mie” al seguito, scrutano (inesorabilmente dall’alto e da lontano) i loro figli. Ma forse, ancora più utilmente, si potrebbe provare a farlo reagire con un saggio che, per tornare all’antagonismo tra vecchi e giovani implicato nel titolo italiano del libro di Serres, della conflittualità generazionale fa un vero e proprio paradigma analitico per scandagliare una crisi culturale e civile pluridecennale; e che, al pari dello scritto del filosofo francese, pone la questione del radicale cambiamento di prospettiva come precondizione per l’efficacia di qualsiasi analisi: Italia revolution. Rinascere con la cultura (Bompiani 2013) di Christian Caliandro, trentaquattrenne storico dell’arte contemporanea e studioso di Cultural studies. «Una delle caratteristiche principali di questa società è quella di usare, in ogni territorio della vita collettiva e civile (politica, economia, impresa, cultura) griglie di interpretazione antiquate, che altrove sono state abbandonate. Queste griglie obsolete vengono adottate evidentemente da cervelli obsoleti», vi si legge al culmine di una lunga, inesorabile disamina della «bolla spazio-temporale» che ha avvolto l’Italia negli ultimi trent’anni, a partire dagli anni Ottanta («i più lunghi del mondo occidentale»). Caliandro auspica un rapido abbandono di questi «inservibili e dannosi schemi obsoleti», prospettando, per una indifferibile presa di coscienza nazionale rifondata su nuovi statuti culturali, un modello concettuale sintetizzabile nella formula «strumenti antichi/schemi nuovi». In effetti, la parte più interessante del lavoro del critico – che suffraga il rigore della sua inchiesta con uno stile incalzante, serrato, a tratti rabbioso: di potente efficacia sono gli intermezzi autoriali su l’Aquila dopo il terremoto, «La capitale spettrale d’Italia» – è proprio il collaudo di queste nuove griglie interpretative nell’anamnesi di questo lungo collasso civile nazionale. Caliandro analizza una grande mole di materiali culturali: romanzi, film, opere d’arte, ma anche canzoni pop, programmi televisivi, tendenze sottoculturali (qui si trovano alcuni dei passaggi più originali e intelligenti del libro), ricavando da essi una serie di tracce, di segni che codificano un omogeneo ancorché articolato discorso sull’Italia contemporanea. Il pregio migliore del suo lavoro è proprio quello di aver saputo ricostruire questo codice e di averlo saputo interpretare, restituendoci un testo credibile quanto implacabile. Ma, una volta inchiodata alle proprie indiscutibili responsabilità storiche la generazione dei baby boomers italiani, la pars costruens del saggio si rivela deludente: l’autore, per interrompere questa trentennale «allucinazione di realtà», prospetta (anche lui!) un ritorno a una vaghissima nozione di “realismo”, sovrapponendo con sorprendente superficialità un’istanza culturale e politica davvero indifferibile (infrangere la bolla di cui sopra) a una nozione estetica ed epistemologica pasticciata e fumosa, che invoca anch’essa legittimazione dal nume consumato del Pasolini di Petrolio.
Se non altro, un nuovo punto d’osservazione sembra essere finalmente presidiato. E, dati i tempi, non è poco.

 

Nessun commento:

Posta un commento