Renoir, lettrice
Renato Barilli
Renoir, i corpi sono paesaggi
In genere mi sono dato la regola di non parlare di mostre, in sedi nostrane, ricavate trasportando da musei stranieri i capolavori fin troppo noti che vi risiedono, magari approfittando delle loro chiusure temporanee. Faccio un’eccezione per una mostra di Pierre-Auguste Renoir (1841-1920) alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, nella speranza che la sua comparsa in forze possa contrapporsi all’eccessiva visibilità che si dà al suo pur grande collega, Claude Monet, di cui l’abile Marco Goldin si è fatto scudo per una invasione commerciale di tante piazze italiche, fino a far credere che l’Impressionismo si concentri e riassuma in una sorta di monettismo obbligatorio.
Renoir gli fu fianco a
fianco negli anni di nascita del movimento, fine ’60, primi ’70,
con relative «scandalose» esposizioni. Ai due si può applicare
addirittura una formula rovesciata: in Monet il paesaggio va
espandendosi sempre più, fino a ingoiare ogni traccia di presenza
umana, inducendolo soprattutto a evitare un confronto diretto con la
nostra immagine quale è imposta dal ritratto, di cui quasi non ci
sono tracce nella sua opera. Si ha invece un percorso inverso nel
caso di Renoir, nel senso che la figura umana, soprattutto femminile,
con la sua sensualità, col nero morbido e vellutato delle pupille, o
magari con le trasparenze che dominavano le velette delle signore
bene, va a stamparsi sul paesaggio, rendendone a loro volta sensuali
e femminei i vari aspetti.
Non per niente il nero,
bandito dalla tavolozza monettiana, imperversa invece in quella del
suo amico e rivale nello stesso tempo, basta mettere a confronto le
rispettive vedute ricavate dai bordi del fiume fatale per le sorti
dell’Impressionismo, la Senna, e si constaterà appunto che nelle
versioni del primo il sole e l’aria bruciano, consumano, mentre in
quelle dell’altro ci sono ombre morbide, suadenti, che resistono,
insinuando pieghe voluttuose, recessi misteriosi.
Ma soprattutto, si impone
il fatto che Renoir, lungo la sua intera carriera, fu un superbo
ritrattista, non si contano i capolavori che seppe ricavare lungo
questa strada, dati dalle varie Madame Darras, Madame Fournaise,
Madame Bernheim, quest’ultima appaiata anche al marito, in un
trattamento aperto a entrambi i sessi che però manifestava un
evidente favore verso quello cosiddetto «debole», di cui l’artista
si faceva un’arma preziosa per andare a ottenere una immersione
panica nel cosmo, pronta a ridondare in ogni altro elemento, a
conseguire una congiunzione stretta di ogni aspetto.
E se Monet procedé lungo
tutta la sua carriera verso una dissoluzione via via più spinta dei
dati, delle sensazioni, Renoir al contrario si impose un freno su
questa strada, rafforzando i contorni, ancora una volta delle sue
presenze muliebri, anzi, adottò, soprattutto per le teste, una
specie di calotta, per racchiuderne e comprimerne i tratti
fisionomici, come per raccoglierli in cuscinetti gonfi, quasi al
limite, come frutti maturi vicini a squarciarsi e a mostrare allo
scoperto la loro ghiotta interiorità.
Risulta pure molto
interessante prendere in considerazione il «gran finale» verso cui
entrambi si rivolsero, dotati come furono di una notevole longevità.
Monet, lo si sa bene, ebbe il suo appuntamento estremo con le ninfee,
da cui era assolutamente esclusa la presenza di qualche simulacro
umano, si trattava di un puro spettacolo di acque, pronte a catturare
i riflessi delle nubi in alto o le insorgenze delle ninfee dal basso,
il tutto fuso in un unico impasto. Ebbene, anche Renoir ebbe una sua
full immersion, ma non fu certo in una visione paesaggistica, bensì
nella carne umana, con preferenza rivolta come sempre alla carne
femminile. Egli andò a immergere la sua percezione nei nudi di
bagnanti, caldi, procedenti anch’essi, in definitiva, a pulsazioni
continue, simili a movimenti ondulatori, ma dati dalle masse morbide,
infinitamente sensuali, di seni e natiche, con le sfere ben
arrotondate dei volti a dare un supremo tocco finale a questa
sinfonia di ritmi curvilinei.
Egli fu sempre amico e
sodale di Cézanne, frequentandone la compagna e il figlio dopo la
sua scomparsa, eppure non si trova maggiore distanza tra i due modi
di risolvere proprio questo tema delle Bagnanti. Nell’artista
provenzale, sono dure esercitazioni plastiche, situate ormai a un
passo dal Cubismo, nel Nostro, invece, sono abbandoni senza limiti ai
piaceri di una carne abbondante, straripante.
RENOIR. Dalle
collezioni del Musée d’Orsay e dell’Orangerie
A cura di G. Cogeval,
S. Patry, R. Passoni Torino Galleria d’Arte Moderna
Fino al 23 febbraio
l’Unità – 20
dicembre 2013
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