La poesia e il mondo contemporaneo
Marina Torossi Tevini
“Il mondo contemporaneo è certamente il più inadatto dei mondi possibili per la poesia, perché è il mondo della chiacchiera, del frastuono, dello svilimento incalzante del senso” sosteneva negli anni Novanta Giancarlo Pontiggia, osservando il divario che si era creato tra i poeti, che molto spesso tendevano ad arroccarsi in piccole consorterie, e il pubblico nel senso più lato. Eppure, se percorriamo la letteratura del Novecento, ci accorgiamo che proprio alla poesia è stato affidato il compito di esprimere i punti nevralgici della nostra scombinata esistenza, assieme ai temi che da sempre sono stati appannaggio dell’uomo nella sua dimensione spirituale: il tempo, il senso dell’esistere, gli affetti. Sono stati proprio i grandi poeti del secolo breve a delineare l’uomo moderno più di quanto lo abbia fatto la narrativa. La poesia ha quindi avuto, anche in un secolo travagliato come il Novecento, un’importanza fondamentale. Però con il trascorrere dei decenni, e specialmente nell’ultimo quarto del Novecento, quest’arte ha trovato ben pochi fruitori. Tanti i poeti e pochi i lettori di poesia, questa la sconfortante situazione che perdura tutt’oggi.
Mi
sono spesso chiesta perché nel passato alla grande poesia avesse accesso
un pubblico vasto, pensiamo a Omero e in generale al mondo greco,
contraddistinto dalla partecipazione degli strati sociali più
eterogenei all’ascolto dell’epica. E, per passare a un passato più
recente, a Dante, i cui versi erano conosciuti presso un pubblico
estremamente vario, pubblico certo non capace di comprendere le valenze
retoriche linguistiche e filosofiche delle sue opere, ma che pure,
sebbene a un livello estremamente superficiale, si riconosceva in quegli
scritti. Altri tempi, si sa, e altre coordinate mentali.
Un
grande danno alla poesia del Novecento è stato certamente apportato da
coloro che l’hanno considerata soltanto palestra per un’operazione di
decostruzione del linguaggio spinta agli estremi. Tesi ai loro giochi
alessandrini non hanno espresso che il vuoto, il disagio, la mancanza
di una propria personale visione della vita, una visione al contempo
individuale e universale, che esprima l’autore ma affermi anche valori
in cui gli altri possano in qualche modo (di striscio, in modo
problematico, per opposizione) riconoscersi. C’è stato però anche un
filone, all’interno della poesia del Novecento, per qualche aspetto
riconducibile a Saba, che, attraverso un’attenzione puntuale alla
realtà, colta nella sua essenza, non certo nella sua banale evidenza, ha
conservato la capacità di rivolgersi a un pubblico abbastanza ampio,
sollecitandolo non solo nella sua dimensione intellettuale, ma anche
nella sua sensibilità. Questo mi sembra un interessante percorso che
andrebbe privilegiato per ridurre il divario che negli ultimi decenni si
è prodotto tra gli interessi del pubblico e la poesia, da sempre
strumento privilegiato per esprimere gli scarti dalla norma e le
dissonanze, il sentire privato, ma di un privato reso paradigmatico
nella sua universalità e quindi specchio di quelle che sono le emozioni
più profonde di una collettività.
È
difficile dire quanto la poesia possa recuperare questa sua funzione
perché alcuni parametri della società in cui viviamo lo rende
obiettivamente difficile. E non sono solo la mercificazione
dell’individuo o il proliferare dell’immagine, fenomeni con cui
inevitabilmente ci dobbiamo confrontare, che contendono il posto alla
parola poetica, ma sono anche altri i motivi che rendono la poesia così
poco fruibile dal grande pubblico. Osservando la realtà culturale
dobbiamo rilevare che non sono più i grandi maestri (grandi storici
della letteratura, grandi critici, grandi giornalisti) a indirizzare le
scelte del pubblico, ma lo fanno le grandi case editrici, collegate
economicamente ai quotidiani e agli altri mass media in veri e propri
trust; monopolizzano l’attenzione e le scelte, e nell’immenso bailamme
che abbiamo attorno risultano le sole che riescano davvero a farsi
sentire. Per ovvie ragioni di mercato viene privilegiato ciò che può
interessare il maggior numero possibile di persone, e non sarà certo lo
scarto dalla regola ma la regola, non la raffinata intuizione di ciò che
sta sotto l’apparenza, ma l’apparenza stessa, non la percezione critica
della realtà, ma la sua banale trasposizione. La nostra società dunque,
in quanto si regge su un potere di natura economica che prescinde per
ipotesi da qualsiasi limitazione etica, e lega strettamente la cultura a
detto potere facendone un’offa per l’intrattenimento delle masse,
inevitabilmente sarà portata a riservare poco spazio a un’attività
sottilmente eversiva come la poesia. E questo in barba all’apparenza e
alle varie forme di mistificazione in cui si cerca di rendere l’ultimo
ribelle – l’uomo pensante – un disciplinato e non libero abitante di
questo globalmondo di consumatori.
La
poesia dei grandi del passato ha sempre avuto un significato di rottura
con la società esistente, ha sempre avuto la caratteristica di esprimere
idee e percezioni della realtà che in qualche modo mettevano in forse
il pensiero dominante. Si potrebbe supporre che, se la produzione
letteraria e culturale com’è intesa oggi è tutto fuorché un percorso di
libertà, ciò sia dovuto anche al fatto che la società ha assunto
dimensione così vaste, anche numericamente, che lo stesso concetto di
libertà fa paura. La libertà può essere garantita a piccole consorterie,
ma non certo alle folle che dominano (dominate) la scena del terzo
millennio. Gli uomini d’oggi sono “indirizzati verso” sono “guidati da
voci che si levano dalla televisione o da qualche cartellone
pubblicitario” sono “condotti in modo più o meno subdolo”. E ciò che
meraviglia e turba di più, spesso sono loro a volerlo. Tanto vasta è la
scelta e tanto misere le bussole a disposizione che è l’individuo
stesso a non considerare la libertà un bene. I mass media fanno la loro
fortuna su questa disposizione d’animo dell’uomo d’oggi. Il poeta
quindi, da sempre un individualista, che guarda il mondo rivendicando a
sé la libertà dello scarto dalla norma, la possibilità di non stare nei
canoni imposti, è per ipotesi un nemico di questa società avviata verso
un conformismo disperante. Già negli anni Ottanta il poeta Giorgio
Caproni scriveva: “Poesia significa in primo luogo libertà. Libertà e
disobbedienza di fronte a ogni forma di sopraffazione o di annullamento
della persona: di fronte a ogni forma di irrigidimento o peggio di
massificazione. La società in cui viviamo minaccia con sempre maggior
pesantezza i più elementari diritti del singolo, minaccia la distruzione
totale della persona per ridurre gli individui a “una somma di
consumatori” ai quali – nell’imperante mercificazione anche di quelle
che una volta venivano chiamate le aspirazioni spirituali – si
vorrebbero imporre bisogni artificialmente creati per alimentare una
macchina economica che trae in sé tutto il profitto a pieno scapito di
ogni scelta interiore. Il poeta è il più deciso oppositore, per la sua
propria natura, di tale sistema. Il più strenuo difensore della
singolarità, rifiutando d’istinto ogni parola d’ordine. Per questo il
sistema lo avversa, sia ignorandolo, o fingendo di ignorarlo, sia
cercando di minimizzarne la figura con l’arma della sufficienza o
dell’ironia”.
Nonostante
il panorama fin qui descritto per tanti versi ci appaia desolatamente
sconfortante non rinuncio a pensare che alla poesia e in generale
all’arte spetti un grande compito, quello di togliere il velo
all’apparenza e di far scorgere il senso delle cose nel loro significato
estremo, e non posso non continuare a nutrire la speranza che qualcuno
percorra con forza e capacità questa strada.
Se ciò
non dovesse accadere tutti ne avremmo un grandissimo danno. La società
rimarrebbe in balia dell’utile e del denaro, perdendo la sua intima
struttura, la consapevolezza di se stessa e della sua storia.
Marina Torossi Tevini
Pubblicato oggi da http://viadellebelledonne.wordpress.com/2014/01/22/la-poesia-e-il-mondo-contemporaneo/
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