No. Auschwitz non è storia, ma attualità e il giorno del ricordo un fatto politico e non una semplice celebrazione di un passato ormai lontano. Ricordare la Shoah significa prima di tutto schierarsi contro i vecchi e nuovi fascismi.
Susanna Nierenstein
Auschwitz non è un museo
Smettiamo di considerare Auschwitz un museo perché Mein Kampf di Adolf
Hitler, oltre a essere stato in questi giorni sdoganato dalla Baviera
che sinora ne aveva vietato la pubblicazione, è già un bestseller tra
gli ebook (in inglese ce ne sono sei versioni ed è al primo posto nella
sezione “Political and Propaganda Psychology” di Amazon e al 12esimo in
“Politics and Current Events” dell’iTunes Book Store oltre a essere tra i
libri più letti nei paesi musulmani). Auschwitz non è un museo perché
nel 2012 in Francia sono stati registrati 614 atti antisemiti, 1,6 al
giorno, il 58 per cento in più dell’anno prima, tra cui aggressioni e
uccisioni a mano armata spesso a sfondo israelofobico da parte di chi
inneggia alla jihad. E perché in Ungheria e Grecia l’antisemitismo è
rappresentato in parlamento. E in Italia ci sono onorevoli che parlano
di complotto dei banchieri ebrei.
Auschwitz non è un museo perché c’è ancora molto da sapere e da chiarire
dello sterminio nazista: per restare ai dati, l’United States Holocaust
Memorial Museum di Washington, raccogliendo i risultati delle ricerche
per l’enciclopedia in corso di pubblicazione, è arrivata solo quest’anno
a focalizzare numeri scioccanti, di gran lunga superiori a quelli noti.
Ha infatti catalogato 42.500 tra ghetti e lager realizzati dai nazisti
in tutta Europa, alcuni campi dedicati allo sterminio, ma anche: 30.000
campi di lavori forzati, 1.150 ghetti, 1000 destinati ai prigionieri di
guerra, 980 campi di concentramento, 1.000 di prigionia di guerra, a cui
ne vanno aggiunti altre migliaia di più piccoli e meno noti, come i 500
bordelli con relative schiave del sesso, i lager (circa 90) destinati
all’eutanasia dei vecchi e dei malati, e quelli per gli aborti forzosi, e
ancora quelli di “donazione di sangue” (tolto ai bambini slavi –
lasciati morire – per i soldati tedeschi feriti), e altri di
“germanizzazione”, posti dove veniva raccolta un’infanzia soprattutto
polacca e russa (dall’aspetto insomma razzialmente puro) presi dagli
orfanotrofi o rapita alle famiglie: gli “elementi validi” erano dati in
adozione a tedeschi, quelli scartati uccisi.
In questo sistema concentrazionario entrarono dai 15 ai 20 milioni di
persone, e ne morirono tra i 7 e gli 8 (tra i 3,5 e i 4 gli ebrei), a
cui vanno aggiunte le fucilazioni e le fosse comuni ad Est, che portano a
6 i milioni di ebrei uccisi. «Le cifre e le diverse tipologie dei campi
sono state sorprendenti anche per noi» ci ha detto Geoffrey Mergaree
direttore dell’enciclopedia, «a questo punto al fatto che i tedeschi non
sapessero quel che stava avvenendo non può più credere nessuno”. Nella
sola Berlino c’erano 3.000 centri dove erano detenuti gli ebrei, ad
Amburgo 1.300. Questi numeri sono così immensi che finiscono quasi per
annullarsi, per ubriacarci. Ma riguardano tutti singoli individui, con
un nome e un cognome, una vita prima dell’annientamento, una realtà che
può sfuggire se invece smettiamo di ragionare su come si arrivò alla
rottura di civiltà europea, se musealizziamo il Giorno della Memoria.
Due libri diversissimi tra loro in uscita per il 27 di gennaio colgono
bene il tema oltre il nuovo The Devil That Never Dies di Daniel
Goldhagen incentrato sulle figure dei nuovi odiatori di ebrei, come Ysuf
al-Qaradawi che nei suoi popolari sermoni su Al Jazeera predica la
punizione degli ebrei per la loro corruzione, «dopo Hitler sarà per mano
dei credenti (leggi musulmani ndr) che verrà portata a termine»: la
cosa non scandalizza nessuno. Ma torniamo ai nostri due libri. Prima,
brevemente, Scorzedi Georges Didi-Huberman (Nottetempo, trad. Anna
Trocchi) filosofo e storico dell’arte francese, un racconto fotografico
di un luogo dove sembra non ci sia più niente da vedere, Auschwitz
Birkenau appunto, “museo della memoria” con i suoi allestimenti,
ricostruzioni (come quella delle immagini prese di nascosto da un membro
del Sonderkommando su un gruppo di prigionieri che corrono nudi verso
le camere a gas sotto la minaccia dei soldati: manca nella messa in
scena delle foto quella fuori fuoco, l’unica che poteva spiegare,
evocare la circostanza travolgente in cui furono tutte scattate, in
segreto, e salta anche il punto di vista dell’uomo – la porta della
stessa camera a gas – che rischiò per documentare l’obbrobrio).
Uno sguardo attento come quello di Didi-Huberman sconvolge l’asetticità
del museo e recupera quel che i nazisti distrussero: coglie ad esempio i
fiori nati dove riposano le ceneri del crematorio, le tracce – schegge e
frammenti di ossa che la pioggia ha fatto risalire in superficie – dei
massacri di massa nelle aree continuamente ricoperte di nuova terra.
Auschwitz non è un museo, appunto. Gli esseri distrutti sono ancora lì –
12.000 assassinii al giorno durante l’estate ’44 ad esempio,aggiungiamo
noi – nel più grande cimitero del mondo.
Attacca ancor più direttamente la sterilità di un retorico “dovere della
memoria” e indica invece le strade da seguire (Come ricordare? recita
il sottotitolo), lo storico francese Georges Bensoussan (grande
indagatore della storia contemporanea ebraica e della Shoah, con alle
spalle numerosi titoli e riconoscimenti). Il suo ampliamento de
L’eredità di Auschwitz (Einaudi, trad. Camilla Testi, postfazione Mauro
Bertani) porta non uno ma mille spunti su come vada corretta
l’impostazione attuale che comunque continua a considerare la Shoah come
lezione oscura sacralizzata, incarnazione di un male assoluto e folle,
impossibile da indagare a fondo e da attualizzare. Difficile tirare
fuori da questo testo fitto fitto di suggestioni e indicazioni, le cose
essenziali. Eccone alcune.
Primo, la Shoah non è affatto la ripetizione di tragedie ebraiche
passate: è una cesura della civiltà europea, ma non è assolutamente un
incidente della Storia, è un crimine bio-politico sviluppato da dentro
l’idea dell’igiene del mondo a sua volta originata dal darwinismo
sociale sviluppato nel XIX secolo, un fenomeno da tenere a mente, dice
Bensoussan, anche mentre guardiamo l’oggi e la nostra deificazione della
scienza. Ma per quanto il millenario antigiudaismo cristiano e
l’antisemitismo nazista siano diversi, mette in guardia Bensoussan, essi
non sono opposti: l’antigiudaismo cristiano ha preparato il terreno, ha
introdotto l’identità demoniaca degli ebrei, e non solo quello (anche
la limpieza del sangue richiesta nella Spagna del XV secolo).
Oltre a questo, c’è molto altro. Ovvio. Se il nemico per il nazismo è un
oggetto biologico da eliminare, il progetto genocida è anche frutto di
una visione millenarista e appunto demonizzante (come non pensare anche
qui all’oggi, e alla definizione degli ebrei come figli di scimmie,
all’assurda denuncia che i soldati israeliani distribuiscano caramelle
avvelenate ai bambini palestinesi), tanto che con la ragione non si
arriva a stabilire una casualità lineare: sono un milione i tasselli da
mettere insieme.
E Bensoussan ce li suggerisce chiedendo di fare Storia, non di
ricordare. Lo sforzo di comprensione ci spinge a fare paragoni,
sacrosanti ma non devono livellare, ogni genocidio ha la sua
specificità. Quello degli ebrei, delle camere a gas, nasce dal ventre
dell’Europa e dalla modernità: il terreno di ricerca, di archeologia
storica è ancora in gran parte incolto, gli interrogativi che pone sono
ancora molti, da rivolgere a se stessi e nelle scuole. Leggete
Bensoussan e ve ne renderete conto.
La Repubblica – 24 gennaio 2014
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