28 marzo 2014

PAUL CELAN POETA DEL DISINCANTO



Questa mattina riprendo da uno dei più bei siti letterari   http://rebstein.wordpress.com  un brano   del saggio di  Gianmarco Pinciroli  sulla poesia del grande poeta tedesco Paul Celan:


Del Tragico che non trova nome.
Paul Celan come poeta del disincanto

La Poesia, Signore e Signori: questa patente d’infinito
data a quanto è pura mortalità e vanità!

Paul Celan


La cosa, la parola       
     Scrive Celan a Nelly Sachs, da Parigi, il 30 maggio 1958:
Tutte le domande che non trovano risposta in questi giorni bui. Questo spettrale e muto non- ancora, questo ancor più spettrale, ancor più muto, non-più, e di-nuovo, e nel frattempo l’imprevedibile, già domani, già oggi.
(Celan/Sachs, 1993; trad. it. 1996, p. 17)
     Celan non ha mai nominato la tragedia come tragedia, è una parola, questa, che inutilmente andrebbe cercata tanto nei suoi versi, quanto nelle sue prose, quanto nelle sue lettere; eppure, egli ha saputo darne presumibilmente una definizione -quella sopra riportata- in grado di illuminare non solo un tratto del senso generale legato al termine tragedia nella cultura europea che, peraltro, la assume come luogo di riflessione privilegiato proprio in quegli anni cinquanta (si pensi all’amico Szondi e al suo Saggio sul tragico pubblicato nel 1961, per esempio), ma anche -e soprattutto- il fondo progettuale donde proviene l’intero corpus della sua poesia.
     Che cos’ è, dunque, tragedia per Celan? Di primo acchito, questa parrebbe domanda che, appunto, non essendo mai formulata esplicitamente in alcuno dei suoi testi, non può trovare risposta, ed in questa lettera che stiamo considerando, per di più, si ritiene che le domande che per lo scrivente contano, proprio quelle non trovano risposte, cosicchè è bene per noi mantenere provvisoriamente la domanda nel suo statuto di domanda (lo stesso scrivente sembra suggerirlo) in attesa di delineare i tratti di una possibile risposta grazie all’analisi della riflessione celaniana stessa esercitata in altri luoghi della sua opera[1]; riflessione sul tragico, va da sè, che noi riteniamo necessariamente allusa nei testi che considereremo implicati -e sarà nostra responsabilità considerarli tali- nell’impostazione del problema. Prendiamo, quindi, di nuovo in esame la frase sopra riportata: i giorni bui nei quali la questione del tragico -secondo quanto ci sembra- viene inizialmente impostata sono forse in grado già di per sè di spiegare la sospensione del domandare-sul-tragico, una sospensione che tiene la parola – la parola che potrebbe rispondere o, più propriamente, preparare meglio la domanda- perennemente sulla soglia: sulla soglia del proprio dire, sulla soglia della propria relazione con la cosa di cui è parola. La risposta, infatti, in questo quadro concettuale, sarebbe finalmente il riposo della parola nella cosa, esattamente ciò che, invece, non può avvenire finchè il clima in cui la parola parla sospende e differisce la propria caduta in ciò di cui si parla. Ma perchè la parola si sospende, si esenta dal dire fino in fondo, si trattiene un attimo prima? e anche: perchè attende la cosa, attende che la cosa si manifesti come la cosa attesa per poterne eventualmente parlare? Infatti, va pur detto che dimorare sulla soglia è attendere: la parola attende la cosa, attende che la cosa si renda disponibile alla nominazione, attende che la cosa diventi (accetti di farsi rappresentare come un divenir) la parola, che la cosa le offra, accogliendola in quanto parola, un altro abitare che le consenta di valere come parola reale di una cosa reale e, in tal modo, di uscire dal possibile, dall’incertezza d’essere un nome, magari proprio il nome, sì, ma non mai definitivamente della cosa di cui porta con fiducia la traccia fonica, il segno grafico, la maschera materiale d’appartenenza. In giorni bui come questi, allora, manca davvero ogni traccia di luce, una notte senza varchi cancella tutti i riferimenti di senso: di luogo e di tempo, e tutto questo è già, prima ancora di costituire una qualche definizione, l’essenza del tragico celaniano.

     E’ fin troppo facile individuare nel percorso esistenziale di Celan l’origine di una tale dolorosa sospensione di senso: l’invasione nazista della natia Bucovina, il suo internamento in un campo di lavoro, la deportazione e la morte dei genitori. L’aneddotica biografica ci permette anche di effettuare una traduzione abbastanza immediata in termini psicologici di questi accadimenti; il complesso di colpa maturato da Celan dopo questi avvenimenti si appoggia, infatti, alla improvvisa, violenta risoluzione -mediante la morte del padre e della madre in campo di concentramento- del complesso edipico evidenziatosi in precedenza durante i frequenti conflitti giovanili tra il laico Paul e l’ortodossa religiosità ebraica del padre, mediata (come spesso accade durante questi conflitti) da una figura materna ben presto identificata, dalla facile predisposizione all’apprendimento linguistico da parte del giovane, nella lingua tedesca -a questo punto: la lingua materna- con la quale il senso di colpa avrà modo di manifestarsi poeticamente, utilizzando a questo fine  tutti i raffinati strumenti retorici e stilistici di cui potrà disporre, nel corso di tutta una vita.

Il paradigma temporale
     Il paradigma attorno al quale sembra raccogliersi la riflessione celaniana circa la tragedia è, dunque, secondo quanto ci pare lecito interpretare grazie alla frase che abbiamo deciso di assumere come suggerimento inizialmente definitorio del tragico celaniano, quello temporale. Siano, infatti, date le tre dimensioni classiche del tempo: passato, presente, futuro; in che senso esse sarebbero, in quanto giorni bui, ma anche spettrali e muti, portatrici d’oscurità? La derealizzazione (in termini di semplificazione, scarnificazione, impoverimento, riduzione) legata alla spettralità e la caduta della voce che mette capo all’ esser-muto del tempo si coniugano nel tema ad essi comune della mancanza e ne descrivono l’effettualità sulle tre dimensioni temporali: il non-ancora, il non-più, il di-nuovo; dove i due non legati al futuro e al passato vengono ribaditi nella loro negatività, nel loro testimoniare ciò che non sono, dal presente, dal di-nuovo in cui essi ripresentano il loro non essenziale. Si tratta, come si vede, di una totale, radicale mancanza di speranza ribadita non tanto dalle due prime negazioni, che potrebbero avanzare i loro non come legittimi -per quanto poco riflettuti in tale loro legittimità- statuti temporali (come afferma il senso comune: il passato è ciò che non è più, il futuro è ciò che non è ancora),  quanto dalla terza negazione, proposta come il presente di una eterna monotonia[2] negativa che ha declinato il non-più e si appresta a declinare il non-ancora attraverso l’insormontabilità di un di-nuovo. Ma nella temporalità celaniana si nasconde -proprio all’interno della continuità tra le tre dimensioni classiche- una quarta dimensione, apparentemente indecifrabile, che potremmo tradurre -tenuto conto del vissuto celaniano rilevabile nei testi e della formazione culturale giovanile improntata alla tradizione ebraica- in termini di imperscrutabilità della volontà divina più che in termini di fato (ciò che è stato detto indipendentemente dal fatto che noi lo si conosca) o di destino (ciò che sta fermo indipendentemente dal nostro volere), e che occupa, nel frattempo (ovvero: posto negli interstizi delle tre dimensioni temporali come la temporalità che li nutre e dona loro l’esigenza di un senso pur non identificandosi ad esse), sempre secondo quanto leggiamo, tanto il presente (già oggi) quanto il futuro (già domani); Celan chiama questa presumibile quarta dimensione temporale l’imprevedibile[3] secondo un paradosso soltanto apparente, in quanto l’imprevedibilità risulta tale in fin dei conti solo in relazione al punto di vista di chi pensa a presente, passato e futuro come all’unico tempo possibile, al tempo degli uomini, laddove invece il tempo umano sarebbe, secondo questa quadruplice scansione, in tutta la sua articolazione preda di quella forma di non-tempo che è, appunto, l’imprevedibile, tutt’al più prevedibile dal saggio proprio e soltanto nella sua insormontabile imprevedibilità. L’imprevedibile, allora, è il dis-umano, giacchè le tre dimensioni classiche del tempo -pur prevedendo ‘saggiamente’ l’imprevedibile come la minaccia essenziale all’umana temporalità- descrivono invece sempre e soltanto, appunto, l’umanizzazione del tempo, il tempo che si fa uomo e progetto; l’imprevedibile accade fuori dalla portata dell’umano e non si umanizza mai completamente, o senza residui, o una volta per tutte: in questo, probabilmente, risiede il cuore segreto del tragico celaniano, risiede il tragico in quanto temporalità umana caduta preda di una dimensione, l’imprevedibile, in cui accade il non-dicibile, ciò che -nella sua terribilità indecifrabile in quanto interpretata e voluta dall’uomo, cui esso accade, fuori dal senso comune che la parola umana quotidianamente edifica nella nominazione- non può essere detto. L’irruzione del non-dicibile imposta l’epoché della parola-che-risponde (che dovrebbe rispondere), l’attesa nei confronti della cosa che la parola avrebbe il compito di dire ma non sa dire, non sa più dire, non può più dire: in questo risiede, infine, l’esser-soglia[4] della parola poetica celaniana, il suo passo sospensivo nei confronti del rispondere, l’angoscia di non poter impostare, se non nel differimento incessante del riposo di una risposta e di una corresponsione d’intenti, la corresponsiva certezza di un Tu. D’altra parte, che cos’altro se non la poesia ha questo compito tutto umano d’impostare autenticamente la comunicazione tra un Io e un Tu?

«Dentro il mistero dell’incontro»
     Nel discorso di Darmstadt (1960) Celan scrive:
Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica.
(Celan, 1983; trad. it. 1993, p. 16)
     In questo passo la scansione che imposta la relazione risulta articolata in tre fasi: c’è prima di tutto una tensione innata nel poema che mette capo alla coscienza del bisogno di qualcosa come l’Altro, c’è poi la ricerca dell’interlocutore che colmi questo vuoto che il poema denuncia, c’è infine -durante la ricerca e sempre prima che essa approdi ad un trovato, quindi: sempre sulla soglia- una seconda coscienza dentro la coscienza di un bisogno che si fa ricerca, c’è la coscienza del fatto che il poema si risolve (e forse proprio in questo cercare incessante si risolve la ricerca) nel suo dedicarsi a tale ricerca. Il poema si dedica alla ricerca di un interlocutore[5] ed è questa la configurazione autentica -ed unica, nonchè paradossale- del Tu di cui la poesia si può far carico: il Tu, in tal modo, ha i tratti mobili, incerti, sempre possibili di un’immagine che si fa e disfà man mano che la ricerca cerca d’arrestarsi su un volto piuttosto che su un altro, quasi a disegnare con angosciosa perseveranza un catalogo, impossibile quanto alla sua completezza, di volti in grado di ridare quell’umano che, dalla soglia, non può che profilarsi come un sogno, un miraggio, un desiderio, non mai una realtà definitiva, il riposo di una cosa che ponga fine alla ricerca stessa intrapresa dalla parola.
     Subito dopo, Celan scrive:
Ogni oggetto, ogni essere umano, per il poema che è proteso verso l’Altro, è figura di questo Altro.
(Celan, 1983; trad. it. 1993, p. 16)
     L’Altro, allora, è il mondo nella sua generalità ontologica (ogni oggetto, ogni essere umano: enti che hanno il semplice essere in comune), ma il mondo, d’altronde, in quanto prodotto di una mondificazione, è poi anche l’umano come luogo, appunto generale, ma del mondificare; il mondo umano è l’Altro della ricerca, ma si badi bene alla natura di questa alterità: essa è figura ovvero è immagine[6], l’essere di questo mondo di cose e persone che la ricerca tutta umana del poema presuppone è essere-immagine, è mondificazione che lascia in sospeso -ancora una volta e malgrado la ricerca di cui il poema si fa strumento privilegiato- non solo il raggiungimento di qualcosa al di là della soglia che esso in quanto poema ha il dovere di rappresentare, ma anche e soprattutto lascia in sospeso lo statuto d’essere fuori-di-poema (dietro la parola) di questo stesso qualcosa eventualmente da raggiungersi nel poema. Il fatto che ogni oggetto, ogni essere umano sia immagine, figura di questo Altro, costringe il poema a riprodurre incessantemente -se lo scopo è il realizzato e realizzante raggiungimento di ciò di cui la figura è figura- il meccanismo (rischiosamente vuoto) della ricerca stessa, di poema in poema, di soglia in soglia, di figura in figura, essendo qui ogni poema una soglia donde chi scrive guarda-verso, guarda nella direzione di, assumendo il proprio guardare come un’adibizione di senso con lo scopo di riconquistare, attraverso la ricerca stessa, l’umano andato perduto, come si diceva sopra, nella dimensione dis-umana, pre-mondificante dell’imprevedibile, che ha fatto irruzione nella storia comune e nella biografia individuale di ognuno con la violenza insensata di un fato, di un destino.
     Nel seguito del discorso di Darmstadt Celan scrive:
L’attenzione che il poema cerca di porre a quanto gli si fa incontro, il suo acutissimo senso del dettaglio, del profilo, della struttura, del colore, ma anche dei ‘palpiti’ e delle ‘allusioni’, tutto questo io credo non è la conquista di un occhio in gara (o in concomitanza) con apparecchiature ogni giorno più perfette: è piuttosto un concentrarsi avendo ben presenti tutte le nostre date.
(Celan, 1983; trad. it. 1993, p. 16)
     Qui, ora, Celan mette in scena all’interno del suo progetto il gioco di una parola, l’attenzione, che descrive bene il protendersi del poema verso l’Altro; l’attenzione, infatti, è una modalità del movimento tutta interna a quello che in precedenza Celan aveva chiamato, evidenziandolo nel testo con il corsivo, il mistero dell’incontro. Aveva, infatti, affermato Celan poche righe prima:
Il poema è solitario. Solitario e in cammino. Chi lo scrive gli rimane inerente. Ma allora il poema non si colloca, proprio per questa ragione, dunque già a questo punto, dentro l’incontro – ‘dentro il mistero dell’incontro?’.
(Celan, 1983; trad. it. 1993, p. 15)
     Dentro il mistero dell’incontro, però, il movimento è doppio[7]: c’è qualcuno che tende verso qualcun altro, e c’è questo qualcun altro che gli si fa incontro, la tensione dell’attenzione è biunivoca e scambievole e garantisce al poema la precisione del tratto descrittivo, il rigore del dato emotivo, l’esclusione -pur dentro il mistero- di qualsiasi casualità affidata all’orfismo ermetizzante di arbitrarie e generiche metafore fonosimboliste; al contrario, l’attenzione del poema risponde poeticamente ad un progetto che assume il compito di dare un nome, nientemeno che il nome di realtà, di res, di cosa accaduta nel luogo e nel tempo, a ciò che un nome fino lì non ha potuto avere e che, proprio per questo, ha sommato il tragico del suo accadimento al tragico della sua indicibilità. E’ facile notare come Celan in questo passo prenda, peraltro, le distanze dalla più diffusa ed efficace delle descrittività moderne, quella legata ad una delle presunte vocazioni, la restituzione della realtà, dell’immagine cinematografica -un occhio in gara (o in concomitanza)con apparecchiature ogni giorno più perfette (Celan, 1983; trad. it. 1993, p. 16)-, cui peraltro il poeta ha offerto nel corso del 1956, quattro anni prima del discorso di Darmstadt, la sua collaborazione, quando traduce in tedesco il commento narrativo di Jean Cayrol per il film di Alain Resnais Nuit et brouillard, il primo documentario sui campi nazisti. Sappiamo, del resto, che fu lo stesso Cayrol, a suo tempo internato a Mauthausen, a proporre Celan come traduttore per la versione tedesca, Nacht und Nebel; il documentario venne presentato quello stesso anno 1956 al Festival di Cannes e le cronache ci informano peraltro che, a causa dell’intervento dell’ambasciatore tedesco Karl Korn, il film non venne accettato.
     L’attenzione del poema, quindi, non ha a che fare con la più completa descrittività analitica e quantitativa, possibile allo strumento cinematografico, quanto, piuttosto, con la selettività e la capacità di concentrazione, con la spoliazione (ma non la spettralità della lettera a Nelly Sachs!) all’insegna della ricerca dell’essenziale; l’acutissimo senso del dettaglio del poema isola in tutta la sua icastica significanza la cosa presa di mira dal poema, consentendole un’emergenza autentica dall’esteriorità del contesto, la sola in grado di caricarsi di palpiti, di allusioni, la sola, cioè,  in grado di rendere conto di una umanizzazione dolorosa ma credibile nei confronti di ciò che è accaduto. In questo, dunque, consiste la concentrazione dell’attenzione del poema nel suo movimento verso la cosa che non è ancora stata detta, che forse non può essere detta, che però Celan ritiene che debba essere detta[8], che debba poter esser detta, proprio in quanto impossibile a dirsi, nella sua impossibilità.
     Ma la qualità di tale attenzione come concentrazione risulta connotata soprattutto dal fatto che essa può esercitarsi avendo ben presenti tutte le nostre date. In un testo dialogico sulla poesia di Osip Mandel’stam, probabilmente scritto nel 1957 e predisposto per un ente radiofonico ma reso noto postumo soltanto nel 1988, Celan scrive:
Qui la poesia [di Mandel'stam, n.d.r.] è la poesia di colui che sa di parlare sotto l’angolo d’incidenza della sua propria esistenza [...] Il luogo del poema è un luogo umano; ‘un luogo nel Tutto’, certo, ma qui, quaggiù, nel tempo. Il poema rimane, con tutti i suoi orizzonti, un fenomeno sublunare, terrestre, creaturale. E’ lingua di un singolo individuo divenuta figura, ed essa possiede oggettività, oggettualità, presenza, presenzialità. Essa si protende nel tempo.
(Celan, 1983; trad. it. 1993, pp. 48-49)
     Le date che il poema deve aver ben presenti vengono da Celan sintetizzate e metaforizzate in una sorta di simulacro cronologico, il 20 gennaio, la data (del 1942) in cui fu decisa dalla Germania di Hitler la ‘soluzione finale’.
     Forse si può dire -afferma Celan nel discorso di Darmstadt- che a ogni poema rimane inscritto il suo ’20 gennaio’?  Forse la cosa nuova nelle poesie che oggi si scrivono è precisamente questa: che si tenta con la massima possibile chiarezza di non smarrire il senso di tali date? Ma non è forse da queste date che noi deduciamo la nostra sorte? E a quali date la votiamo? (Celan, 1983; trad. it. 1993, pp. 13-14).
     Tener presenti tutte le nostre date, saper di parlare sotto l’angolo d’incidenza della propria esistenza: il punto di partenza del poema corrisponde al punto d’arrivo che l’attenzione come concentrazione intende raggiungere: la configurazione dell’Altro come punto d’arrivo della ricerca, infatti, presuppone l’impostazione di un Io che di tale ricerca si faccia carico. Allora, il luogo del poema è luogo di conflitto tra due istanze (l’Io. il Tu) che lottano per la loro reciproca instaurazione, ed è luogo di passaggio dalla fatica e dall’angoscia di un’identità ‘altra’, cercata come luogo di corresponsione, alla gioia desiderata e sognata di un’identità propria trovata, ed è infine luogo in cui tutto ciò che avviene, avvenendo in termini di linguaggio, vale a sua volta come luogo di fondazione, è luogo cioè in cui il fondamento di una lingua adatta a nominare (a fondare nella nominazione) ciò che ancora non ha nome in quanto è l’indicibile e l’innominabile, nel suo sforzo incessante di dire (attraverso ciò che Celan stesso chiama il poema) finisce per dire prima di tutto (e, quindi, fondare) la lingua stessa del fondamento, la lingua capace di balbettare a suo modo -il modo non mai argomentato o logico ma giocato, come vedremo, su una più ricca interazione di registri formativi del poema- la parola, tra l’altro, che salva, che ridà, oltre la grata di linguaggio, la speranza di un nome[9] a chi non l’ha più, sepolto nell’anonimato dei campi di cenere passata per il camino. Aver presenti tutte le nostre date, allora, per Celan è soglia irrinunciabile del poema, è la casa, per quanto provvisoria, del poema donde profilare una prima traccia di umano al fine di fissare diritto negli occhi il dis-umano, ma è anche avere qui-ora, nella presenza, il dato esistenziale che ha sedimentato ciò che è valso comunque come ‘la nostra vita’ (sia comune che individuale, per quanto essa possa apparire fatale, destinale o affidata alla volontà insondabile di un Dio con cui siamo stretti, come lo è l’ebreo, da un vincolo d’Alleanza) al fine di cercare una relazione con la dis-umanità dell’imprevedibile (già domani, già oggi, scrive Celan a Nelly Sachs, come sappiamo, omologando nell’oscura uniformità di un dolore e di un male assoluti il presente e il futuro, murati ambedue nell’accadere -l’Olocausto- riservato al popolo eletto grazie a una decisione divina che non pone in evidenza il senso di questo accadere, lasciando dunque al poema  il compito immane di forzare l’accadimento: compito poetologico, sì, ma non solo, anche e soprattutto compito esistenziale per l’uomo che, in qualità di poeta, se ne fa carico e, sullo sfondo, compito ontognoseologico comune alla natura umana).
     Il poema -afferma Celan- è solitario: il solipsismo di partenza, rispetto al viaggio che porta il poema nella sua tensione verso l’Altro di cui ha bisogno e che gli si fa incontro, è d’altronde un solipsismo del tutto apparente.  Intanto, Celan aggiunge: «Solitario e in cammino». Chi è in cammino e, camminando, tende verso l’Altro, non è già più solitario o, meglio, lo è per quel tanto di cui la sua condizione identitaria necessita al fine di essere un Io non ancora giunto a riposare nell’Altro ma, in quanto camminante in direzione-di, dell’Altro già compartecipe, già condividente, già coappartenente, già dentro il mistero dell’incontro. Tant’è vero che Celan chiarisce sia l’apparente solipsismo[10] di partenza del poema che il suo attento, concentrato, teso e proteso essere in cammino verso l’Altro affermando subito dopo: «Chi lo [il poema, n.d.r.] scrive gli rimane inerente». Gli rimane inerente: l’adesione del poema -come ciò che è tanto solitario quanto in cammino- a chi se ne fa carico trasporta tutto ciò che riguarda il poema (solitudine, cammino) all’Io poetante e ne illumina il destino di senso (il poema come luogo, infine, della produzione di senso da parte dell’Io poetante) caricandolo della coscienza di tutte le nostre date, ponendo la parola del poema sotto l’angolo d’incidenza della sua (dell’Io poetante, n.d.r.) propria esistenza, e ancora: investendo la parola del poema -e il senso di cui si rende responsabile- della vita di colui che ha scritto quella parola, e di quella vita lì, hic et nunc; al tempo stesso, questo trasporto fa, di dettagli profili strutture colori palpiti e allusioni (sono gli elementi che -secondo Celan- il ‘senso’ del poema accumula quando entra in contatto con ciò che gli si fa incontro, con la figura di questo Altro), insomma: di quella vita lì e non di un’altra, fa materia universale di pensiero, fa Poesia.
[...]
[Il saggio sarà pubblicato integralmente in "Quaderni delle Officine", XLI, marzo 2014. Ringrazio autore ed editore per aver gentilmente concesso di riprodurlo.]


Note
[1] Nella stesura di questo saggio sono stati presi in considerazione i seguenti testi in prosa di Celan: Il Meridiano -Discorso in occasione del conferimento del Premio Georg Büchner, Darmstadt, 22 ottobre 1960; Allocuzione -In occasione del conferimento del Premio letterario della Libera Città Anseatica di Brema (1958); Risposta a un questionario della libreria Flinker, Parigi (1958); La poesia di Osip Mandel’stam (prob. 1957, pubblicato postumo). Tutti questi testi, ed altri ancora, tutti di natura poetologica, sono contenuti in: P. Celan, 1983, Gesammelte Werke in funf Banden, vol. III, pp. 155-203 e vol. V, p. 263 (trad. it. La verità della poesia – il Meridiano e altre prose, Einaudi, Torino 1993).
[2] Noi cadiamo:/ Noi fummo. Noi siamo./ Siamo una sola carne con la notte./ Nei cunicoli, cunicoli. (da “Letto di neve” in Grata di parole, p. 283); Questo è un anno/ che non scorre oltre,/ che ricasca nel dicembre, nel novembre,/ che rivanga le sue ferite,/ che si apre a te, giovane/ sorgente dei/ sepolcri,/ bocca da dodici. (da un testo senza titolo in Parte di neve). Questi versi, come tutti gli altri che seguiranno, sono  stati tratti da una delle opere poetiche elencate nella bibliografia in fondo al saggio; a piè pagina diamo soltanto il titolo del testo da cui i versi sono tratti e la raccolta di cui esso fa parte, con la pagina dell’ed. it. Mondadori, I Meridiani, 1998 (vd. bibliografia), salvo diversa indicazione.
[3] Il luogo, ove essi giacquero, quel luogo/ ha un nome -e non ne ha/ alcuno. Non lì, essi giacquero. Qualcosa/ giaceva frammezzo a loro. Essi/ non vedevano oltre. (da “Stretta” in Grata di parole, p. 335)
[4] Menta crespa, di crespa foglia,/ dinanzi a casa, sulla soglia.// Questa ora, che a te tocca,/ e il suo parlar con la mia bocca.// Con la bocca, col suo star muta,/ con la parola che si rifiuta. (da “In tre, in quattro” in La rosa di nessuno, p. 361)
[5] Voi, da preghiera e bestemmia e preghiera/ affilati coltelli/ del mio / silenzio.// Voi, mie parole fatte/ come me storpie, voi,/ mie parole diritte.// E tu:/ tu, tu, tu/ mio ‘Più tardi delle Rose’,/ di giorno in giorno/ più scarnificato di verità-:// Quanto, oh quanto/ mondo. Quante/ strade.// Tu stampella, ala. Noi–” (da “…Mormora la fontana” in La rosa di nessuno, p. 401)
[6] Smorto suono, scorticato/ dal profondo:/ non parola, non cosa,/ ma di entrambe unico nome,// atto in te al volo,/ alla caduta,// sanguinante acquisto/ di un mondo. ( da un testo senza titolo in Luce coatta, p. 1055); Le argillose rituali libagioni,/ torno cui lumache strisciano:// immagine del mondo,/ recata incontro al cielo/ su una foglia di rovo. (ibidem, p. 1003)
[7] Realtà visibile, udibile,/ parola liberata, rizzata/ a tenda:// Insieme. (da “Anabasis” in La rosa di nessuno, p. 441)
[8] Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera/ noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte/ noi beviamo e beviamo/ noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto/ Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive/ che scrive in Germania [...] (da “Fuga della morte” in Papavero e memoria, p. 63)
[9] [...]/ porgetevi il buio,/ dite il mio nome,/ portatemi al suo cospetto. (da “Alla sirena nella nebbia” in Papavero e memoria, p. 73)
[10] Sono solo, metto il fior di cineraria/ nel vaso pieno di nero sedimento. Bocca sorella,/ tu dici una parola che poi vive dinanzi alle finestre,/ e su di me arrampicando sale tacito ciò che sognai. (da un testo senza titolo in Papavero e memoria, p. 89)


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Gianmarco Pinciroli
Solitudine e scrittura
(Disallineamenti del tragico nella modernità)

Como-Pavia, Ibis Edizioni
Collana “Formazione e cultura”, 2013
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Gianmarco Pinciroli
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