Ci piace questa mattina tornare a parlare del grande regista francese scomparso qualche giorno fa:
Goffredo Fofi
Alain Resnais
(1922-2014)
Sperimentatore
accanito di modi di far cinema che si accostassero a quelli
della letteratura più ambiziosa, di forme dell'immaginario
contemporaneo che recuperassero al cinema i modi del teatro,
del fumetto, della canzone, e persino del saggio, della
scienza, dobbiamo ad Alain Resnais, scomparso il 1° marzo,
opere a volte provocatorie sia nella forma che nei contenuti,
altre elaborazione di un pensiero più pacato ma non meno
ardito, altre puro gioco dell'intelligenza, divertimento che
voleva però condividere con quello di spettatori di spirito
aguzzo, o da assistere nel l'aguzzarlo.
Rispetto agli
altri registi della nouvelle vague, fu certamente più
«borghese» e più colto, ma non meno «cinema» di loro. Come
Rohmer e Rivette, più che come Godard oppositore talvolta
cerebrale, e come Truffaut nervoso pacificatore sentimentale,
ma diverso anche da loro per aperture intellettuali molto
maggiori, e per una sorta di tranquilla autonomia nella
sperimentazione non provocatoria (salvo che al tempo di
Marienbad...) di forme, di strade insolite del narrare.
Resnais ha
rivendicato un rigore più intimo che esterno, che ha trovato i
suoi cardini in dichiarazioni come queste: «Occorre trattare
l'immaginario all'interno del quotidiano», «mi piace porre
allo spettatore le domande che mi pongo io stesso. E dare nelle
risposte tutto quello di cui dispongo come elementi di
informazione, con la stessa quantità di conoscenze, in modo
che autori, personaggi e spettatori si trovino allo stesso
stadio di comprensione, sappiano di ciò che accade esattamente
lo stesso», «credo in un cinema che si avvicini al romanzo
senza averne le regole, un cinema che lasci allo spettatore la
stessa libertà di immaginazione che ha il lettore di un
romanzo».
Rompere
l'autoritarismo del racconto cinematografico – le immagini
decise dal regista, il flusso del racconto fissato dalla
sceneggiatura, l'identificazione dello spettatore con un
personaggio, la costretta sudditanza dello spettatore al volere
degli autori – è stata perseguita da molti grandi registi,
nel tentativo di rendere lo spettatore più attivo, partecipe
del processo creativo con la ragione e non solo col sentimento,
ma è forse Resnais, con Bunuel, quello che ha saputo muoversi
con più libertà nella sollecitazione attiva di questa
intelligenza e nel rendere partecipe lo spettatore del proprio
percorso di ricerca. Non c'è un solo film dei suoi che si sia
sottratto a questo compito, ed è per questo che fino
all'ultimo egli è stato così rispettato da tutti i registi
esigenti, ma con la differenza, da parte sua, rispetto a loro,
di un rifiuto deciso di ogni forma di narcisismo e
magniloquenza. «Essere autori», in cinema come in ogni altra
arte, e specialmente oggi, è ben diverso dal «credersi
autori».
Dell'opera di
questo grande è tuttavia possibile prediligere certe opere, o
sentirle più vicine a una necessaria riflessione sulla storia,
sul tempo in cui si vive. Hiroshima mon amour e Notte e nebbia,
per esempio, riflettevano sui disastri di una guerra finita da
poco, e sulle sue tracce, sulla memoria (tema centrale del
primo Resnais) e il suo lascito di angoscia e rivolta, le sue
insidie e non solo i suoi doveri. Muriel, scritto con l'ausilio
di un grande, Jean Cayrol, non abbastanza conosciuto, trattava
nel modo più intenso e rischioso dell'uso della tortura
durante la guerra d'Algeria, e La guerra è finita, scritto con
Semprun, era l'elogio – per questo accolto con qualche
diffidenza dalla generazione del '68 – della pazienza e
dell'ironia come prime virtù del rivoluzionario, non solo nei
confronti del regime franchista di cui trattava.
Fu ancora
Semprun a scrivere per lui Stavisky, uno dei più complessi
film sugli anni tra le due guerre, confronto tra due storie
opposte d'esilio e sradicamento, di capitalismo e di
bolscevismo, e fu questo film, con l'aggiunta del l'episodio di
Lontano dal Vietnam, film politico per eccellenza, scritto con
Jacques Sternberg, l'ultimo esempio di una riflessione più che
problematica sulla nozione di engagement. Il distacco da questi
temi ha senz'altro liberato la fantasia di Resnais,
perlustratore indefesso di temi e di strade che si allontanava
sempre più «dal Vietnam», ma lo ricollocato pienamente
nell'alveo «borghese» che più gli era proprio, dentro una
sorta di serena inquietudine.
Resnais non ha
mai smesso di interrogarsi e di interrogare le forme del
racconto, esploratore di confronti nei quali anche le
divagazioni in apparenza più libere finivano per tornare a una
ricerca di estrema coerenza intellettuale e morale. Grande
borghese, infine, come ne sono rimasti ben pochi nella cultura
dei nostri ultimi anni anche se molti si fingono ancora tali.
Persi i riferimenti a una tensione politica di cui l'Europa non
sembra più capace, solo raramente il suo cinema ha affrontato
temi inquietanti, dagli anni Ottanta in avanti, dopo
Providence, e se sempre ci ha sollecitato e divertito è solo
con L'amour à mort che è riuscito ancora a sorprenderci
nell'intimo e non solo nell'intelligenza.
Scritto da Jean
Gruault, che aveva già scritto per lui Mon oncle d'Amérique e
La vita è un romanzo, splendidamente didascalici ma fin troppo
cerebrali, ma che era lo stesso Gruault che aveva fornito a
Truffaut l'adattamento dal racconto di Henry James, La camera
verde, parlava del nostro rapporto con la morte, con i morti e
anzi, come insiste il suo titolo, del rapporto tra l'amore e la
morte. Era ancora un'interrogazione forte, anzi estrema e di
nuovo provocatoria, conturbante.
Nell'opera di
Resnais – e non sappiamo quanto egli ne fosse cosciente,
mentre sappiamo quanto ne sia stato cosciente Marker e quanto
ne sia ancora cosciente Godard – abbiamo dovuto confrontarci
con l'impotenza della politica ma anche con quella della
cultura a risolvere i problemi di fondo dell'esistenza, nella
nostra epoca storica e in assoluto. In definitiva, il suo è
stato un modo di tirarsi fuori dai dilemmi contingenti cercando
di mirare a quelli di sempre, ma si è trattato, ancora una
volta della dimostrazione di un fallimento, anche se affrontato
con rara signorilità e con raro pudore.
Il Sole 24 Ore – 9
marzo 2014
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