Volete capire davvero cosa
intendeva Jung quando parlava di archetipi? Guardate le opere di
Brancusi.
Rinaldo Censi
Brancusi, l'abbraccio
della pietra
La
a Colonna senza fine è alta 29 metri e 30 centimetri.
Ognuno dei suoi quindici romboedri misura un metro
e 80 e pesa 860 chili, e due metà di romboedro
segnano le estremità. Eseguiti in una fonderia
di Petrosani, i moduli in fusione sono stati infilati
su un’asta di acciaio solidamente piantata nelle
fondamenta, infilati ’come perle’, diceva
Brancusi». Sgabelli-clessidre, la Porta del Bacio, Tavola del
silenzio: Serge Fauchereau ha probabilmente
scritto il testo più esaustivo riguardo a quella
composizione di opere, tra scultura
e architettura, che definisce l’insieme di
Tîrgu-Jiu, cittadina rumena, non distante dal luogo dove
Constantin Brancusi è nato, il 19 febbraio
del 1876.
C’è chi ha visto in
questa colonna, la più alta mai concepita fino alla
prima metà del Novecento (viene costruita tra il 1937 e il
1938, e quando Fauchereau ne scrive, nel 1994, il suo
colore giallo dorato è già quasi dissolto in uno strano
beige) una variazione rispetto a forme canoniche
presenti sul territorio rumeno; c’è anche chi
vi ha rintracciato (versante «avanguardista»)
riminiscenze d’arte negra o modernista.
Qualcun altro invece, forse più accorto, ha ritrovato in
questa colonna l’amore di Brancusi per linee aviformi:
una passione per il volo. Per Pontus Hultén questa
colonna suggerisce infatti il battito d’ali di
un uccello in ascesa verticale. Una specie di
cronofotografia, ma a tre dimensioni.
Non tentava forse Etienne-Jules Marey di cogliere il volo di un
uccello, la cui traccia e inscrizione sarebbe
rimasta su pellicola (o su lastra)? Oppure, come se
questi quindici blocchi incastonati come un
filo di perle fossero quindici fotogrammi accostati,
infilati uno vicino all’altro.
Sarà per questo
che Paul Sharits si è recato a Tîrgu-Jiu, nel 1984,
per filmare l’insieme di sculture, e soprattutto
la Colonna senza fine (Brancusi’s Sculpture Garden at
Tîrgu Jiu)? Vi avrà forse colto una specie di forma
«metrica»? Qualcosa colpisce colui che la osserva,
proprio per la sua inafferrabilità. Per
Brancusi: «L’arte fa nascere le idee, non le riproduce.
Vuol dire che un’opera d’arte vera nasce intuitivamente
senza una ragione conosciuta prima, perché l’arte è la
ragione stessa e non si può spiegare a priori».
Lo
ricorda Fauchereau: «Dalla sua forma tra una forza
incantatoria che impressiona il visitatore.
Ma non è tutto. Secondo le variazioni del cielo,
l’orientamento della luce, la distanza e l’angolo visuale,
cambia colore e di forma. Nessun servizio
fotografico potrebbe rendere questa mobilità».
Presenza fisica (la colonna è troppo sottile per
agevolare qualsiasi reminiscenza fallica)
e incessante senso di instabilità luminosa.
Sarà per questo
che Brancusi ha cominciato a filmare con una
lussuosa cinepresa 35mm le sue opere (L’inizio del
mondo, o Leda, Musa addormentata, Princess X)
facendole roteare su se stesse, proprio per cercare
di cogliervi l’instabilità, l’instabilità della luce? Paul
Sharits dal canto suo, si accontenterà di cogliere
la fisicità delle sculture raschiando il microfono
della presa del suono sulla pietra. Suono grezzo, che sfonda la
piattezza bidimensionale delle riprese e lavora
in profondità, donando una terza dimensione alle
immagini.
Questa
divagazione serve a rendere conto di una felice
riproposta, giunta da poco in libreria: si tratta
della ristampa, aggiornata, del volume Riga (n. 19*) dedicato
a Constantin Brancusi, curato minuziosamente
da Elio Grazioli e Marco Belpoliti (marcos
y marcos, 25 euro). Un volume esaustivo, in grado di
cogliere l’opera di Brancusi attraverso diverse
sfaccettature, tanto che l’insieme dei contributi
lascia emergere appunto una sorta di variazione luminosa,
prismatica.
Oltre al testo citato, potrete trovarvi
la trascrizione del famoso interrogatorio
e contro interrogatorio sostenuto
da Brancusi contro gli Stati Uniti, a proposito
del suo Uccello nello spazio acquistato da Edward
Steichen. Un testo mirabile: una lezione teorica in
una Corte della Dogana. E poi l’attenzione filologica
di Paola Mola a proposito della ricezione di
Brancusi in Italia, Mircea Eliade e le
mitologie di Brancusi, i ricordi di Henri-Pierre
Roché, l’acuta riflessione di Michel Frizot riguardo al
lavoro fotografico di Brancusi, una sorta di
«scultura della superficie».
E molto altro. Un
poema di Mina Loy e poi di Jean Arp. E poi uno dei testi
che hanno segnato un giro di boa nella lettura dell’opera di
Brancusi, ci riferiamo al saggio di Rosalind E.
Krauss, Brancusi e il mito della forma ideale. John
Berger e la sua lettera da Parigi.
L’intervento più
toccante resta quello di Benjamin Fondane, poeta
rumeno, scrittore e cineasta, poco conosciuto in
Italia. «Nulla prova, in effetti, che l’uccello, il gallo,
il bambino di Brancusi siano delle opere d’arte; a prima
vista sono soltanto vertebre, pezzi di roccia,
spicchi di gesso, conchiglie vuote, frammenti
disarticolati durante lo smontaggio del
globo, pura creazione di oggetti quasi nuovi che la natura, si
direbbe, avrebbe potuto anch’essa creare se avesse potuto
spingere il suo sogno tanto in alto fino a questa
purezza (…) La vita ha il diritto di sgorgare da una
pietra?». Pare di sì.
Il Manifesto – 21
febbraio 2014
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