Beppe Chierici
realizza un omaggio al grande chansonnier francese. Una summa della
sua arte tradotta, commentata, interpretata, disegnata e evocata.
Guido Festinese
Georges Brassens,
l’orafo delle parole
Ci vuole molto amore,
e molto coraggio, per sfondare porte poetiche
e letterarie che sembrano aperte,
apertissime, e che invece, ostinatamente,
appena giri l’occhio tornano ad essere socchiuse,
facendo appena intuire cosa c’è dentro, nella stanza.
Prendete il canzoniere di De André: comunque lo
rigiri, ad aver coraggio di approfondire, salta
sempre fuori qualcosa di nuovo e stimolante.
Prendete il songbook di Frank Zappa: un labirinto che
si ricompone ogni volta in modo diverso, come se le tessere
del puzzle fosse di pongo. Non si sono usati a caso i due
esempi: Faber e Zappa avevano, ognuno a suo modo,
parecchio in comune con il Signor Poesia di cui qualcuno,
per fortuna, torna a parlare. Il Signor Georges Brassens.
E sì: l’uno, il
genovese con la voce fonda, su Brassens modellò una buona
metà della sua carriera spigolosa e dolcissima,
assorbendone umori libertari, arte della chanson
levigata e l’amore carnale ed intellettuale
per Signorina Anarchia. L’altro, un oceano di
lontananza, ebbe una identica attitudine
apparentemente disillusa e un po’ cinica,
e medesimi impulsi di insofferenza verso la
stupidità autoritaria, fatto salvo il
lasciare struggimenti nascosti un po’ ovunque.
E aggiungiamo solo, en passant, che tutti e tre
hanno abitato la vita terrena per ben poco, non vedendo il
settimo decennio: muore presto chi è caro agli
Dei, oppure, per dirla con George Brassens, «Se dio c’è,
esagera».
Torna a parlare
di Georges Brassens, e veramente a tutto tondo,
uno specialista dello chansonnier per
eccellenza, con un libro (e due cd acclusi: La Cattiva
erba e Storie d’amore) che riprofilano
e ridefiniscono, ancora una volta, i contorni
di un continente poetico apparentemente
destinato a sfuggire ad ogni cartografia.
Il tutto in Brassens, la cattiva erba (Amici Miei
Editore), ad opera di Beppe Chierici e di un bella
pattuglia di amici mobilitati per rendere
il tutto una sorta di «summa» dell’arte brassensiana
tradotta. E commentata, cantata,
disegnata, evocata.
Chissà quanti oggi,
incrociando nelle strade umbre il bel signore con la barba
ingrigita che vive con la moglie adorata Mireille e una
splendida comunità di quattordici gatti,
avrebbero modo di intuire che lì sta passando un pezzo di
vita avventurosa e irripetibile,
perennemente allacciata al controcanto
delle canzoni di Brassens, faro di rimasta saggezza.
Sì, perché forse per Beppe Chierici l’adorato
Brassens, il «miscredente di Dio» incontrato ad
ogni occasione per sottoporgli le traduzioni
possibili dei suoi versi rimati perfetti e secondo
qualcuno intraducibili è stato l’unico
punto certo nelle capriole del destino di una vita piena. Che
assomiglia a quella di Maqroll il Gabbiere
di Mutis, o una serie di tavole di Corto Maltese.
Vita che comincia
nella Provincia Granda cuneese, quando la cappa
opprimente democristiana intesseva trama
e ordito delle esistenze di tutti, proseguita
poi in Francia da facchino, lavapiatti, marinaio,
venditore di macchine da scrivere , approdata
poi nel Gabon. Nel cuore del cuore delle foreste equatoriali,
nel «Reame del Tutto Verde» quando si cercavano il legno
pregiato dell’albero okumé, e si aprivano strade
a colpi di machete. Lì Beppe Chierici s’era portato
un giradischi a pile, lì, nella foresta,
ronzavano gracchiando loro malgrado i dischi
con la voce dell’ Uomo per male, e Beppe si esercitava,
con un libro di testi in mano, nell’arte di tradurre
e rendere in italiano quelle strofe mirabili,
metricamente perfette. Poi rientra in Europa, ed
inizia una quarta (quinta? Sesta?) vita da attore, Teatro
della Ringhiera di Roma, e doppiatore, È il
1969, la contestazione immette mercurio
nella stagnante circolazione di idee dello
Stivale, Beppe Chierici incide il suo primo 33 giri per la
Belldisc.
Brassens è il
grimaldello che scardina certezze e lancia
sassate negli stagni dell’ipocrisia, forse anche da lì
parte una ricerca parallela nella canzone popolare
italiana e francese da far ri-conoscere alla gente
che una generazione prima era contadina. Nell’87
Chierici si autoesilia in Francia, e inizia
una nuova carriera, nell’adorata lingua dell’amico
Brassens: cinema, tv, un mare di teatro. Nel 2008 lo
ritroviamo attore in Italia, in Noi Credevamo di
Mario Martone, ed è anche un anno importante per
segnare un’altra tappa della cartografia
brassensiana: esce Suppliche e celebrazioni,
un disco che ha poca fortuna commerciale, ma tanto
peso estetico.
E matura il germe de La
cattiva erba, con lo sforzo straordinario
inseguito per una vita di riuscire a rendere
Brassens esattamente com’è, perché Chierici
dichiara di essere «continuamente ossessionato
dalla volontà di non tradire l’autore e obnubilato
dal desiderio di essergli sempre fedele. Nei
miei tentativi di trasposizione
letteraria e ritmica ho cercato
e cerco sempre di far rimanere integra
l’immortale eredità poetica e musicale che
Brassens ci ha lasciato, poiché sono intimamente
convinto che egli sia, da sempre, l’indiscusso maestro
dei cantautori italiani ed europei».
Una fedeltà che
significa anche rispetto ossessivo per le rime, cercando
di superare l’ostacolo tremendo dell’accento
sull’ultima sillaba che caratterizza il francese,
e di conservare assonanze interne e metrica
esatta del Maestro con la pipa: tant’è che Chierici
precisa, con motivato orgoglio, che le sue versioni
in musica da Brassens si possono sovrapporre secondo
dopo secondo all’originale, e tempi e metronomo
incontrano le medesime spaziature. Il bello
è che la gran voce ruvida d’attore s’appoggia su
arrangiamenti particolari che mettono
in conto l’uso di sikus e e bandoneon, banjo
e mandolini, eppure tutto funziona.
È la scelta di Carlos
Ernesto Moscoso Thompson, peruviano, musicista
e liutaio: che ha donato aromi latinoamericani,
jazz e country alla chanson di Brassens. Il
libro che ha la curatela grafica di Oliviero
Piacenti (a simulare in pratica un grande «blocco
d’appunti») vive anche di colori e disegni: sono
quelli, preziosi, del disegnatore Dario Faggella,
che offre anche due veri e propri racconti su
canzoni di Brassens. Qualcosa della violenta
dolcezza di Andrea Pazienza sembra essersi
proficuamente incagliato nelle sue chine e nei
suoi colori: Paz avrebbe apprezzato. L’ «orafo delle parole»
Brassens anche.
Il Manifesto – 7
febbraio 2014
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