13 marzo 2014

IL LOTTO E' UNA ANTICA TASSA SUI POVERI








Inventato a Genova (e non a Napoli, come solitamente si crede) nel XVI secolo il lotto è un particolare modello di gioco d’azzardo che lo Stato usa da sempre per fare cassa. È da considerare una forma di tassa che i cittadini accettano nella aleatoria speranza di una vincita
Marco Dotti

Il nuovo oppio dei poveri
Dinanzi a un fab­bi­so­gno finan­zia­rio in cre­scita e a metodi di riscos­sione gene­ral­mente e tra­di­zio­nal­mente inef­fi­cienti e costosi, dagli anni Trenta del XVIII secolo il lotto si è dimo­strato un modello isti­tu­zio­nale sem­plice, pra­tico e soprat­tutto effi­cace per risa­nare le casse di un era­rio in crisi. A par­tire dal XVIII secolo, infatti, le finanze pub­bli­che dei prin­ci­pali Stati euro­pei si rivol­sero al lotto e alla lot­te­ria – con la quale il primo è stato a lungo, strut­tu­ral­mente e ter­mi­no­lo­gi­ca­mente, con­fuso – ogni qual volta, pre­te­stuo­sa­mente o meno, si rite­neva neces­sa­rio far ricorso a entrate speciali.

Il legame fra il lotto a novanta numeri e la finanza pub­blica costi­tui­sce uno degli ele­menti di mag­giore impor­tanza per com­pren­dere a pieno la for­tuna del più lon­gevo tra i gio­chi legati alla sorte. Sem­bra sia stato Gia­como Casa­nova, che non disde­gnava le vesti del finan­ziere, a con­si­gliarne l’incentivo in Fran­cia e l’adozione nella Prus­sia di Fede­rico II. Pas­seg­giando con lui nel parco di Sans-Souci, a Post­dam, Gia­como Casa­nova ebbe infatti modo di esporre a Fede­rico il pro­prio pro­gramma. Poche parole, ma chiare. Ci sono, disse, «tre spe­cie di impo­ste, con­si­de­ran­dole in rap­porto agli effetti. La prima spe­cie è rovi­nosa, l’altra neces­sa­ria, men­tre la terza è sem­pre eccel­lente». È facile intuire, leg­gendo il terzo tomo dell’Histoire de ma vie, di quale Casa­nova pre­di­casse l’attributo «tou­jours excellente».



Una con­tri­bu­zione volontaria

Dal punto di vista fiscale, con il lotto i van­taggi finan­ziari per le casse di uno Stato non deri­vano infatti da un pre­lievo for­zoso, bensì da una con­tri­bu­zione volon­ta­ria. Tanto più volon­ta­ria da con­fi­gu­rare, secondo un osser­va­tore di metà Otto­cento, quasi una sorta di azio­na­riato popo­lare e dif­fuso, una cedola atten­stante la pro­pria sot­to­mis­sione fiscale (secondo la vec­chia mas­sima ubi fiscus, ibi impe­rium) all’impresa-Stato. Scri­veva infatti mon­si­gnor Mario Felice Peraldi che «nel gioco del lotto non v’è impo­si­zione ma una spon­ta­nea con­tri­bu­zione di spe­cu­la­zione».

La pero­ra­zione del Peraldi, che sul tema scrisse «Una causa del popolo ossia giu­sti­fi­ca­zione del pub­blico giuoco del lotto» (1850), si fon­dava su un assunto sem­plice e chiaro, quanto luci­fe­rino: nel lotto il gio­ca­tore non sarebbe espo­sto né a mag­gior alea, né a mag­gior rischio rispetto a quelli che incon­tre­rebbe in qual­siasi altra spe­cu­la­zione com­mer­ciale. Dovremmo quindi vie­tare anche i com­merci e le spe­cu­la­zioni di altra natura?

Il fisco – pro­se­gue Peraldi, che rove­scia com­ple­ta­mente la que­stione – si tro­ve­rebbe inol­tre quasi in con­di­zione di svan­tag­gio rispetto alla massa dei gio­ca­tori che, anche per­dendo, trar­reb­bero comun­que van­tag­gio dalla con­tri­bu­zione volon­ta­ria, per­ché dareb­bero modo all’erario di ridurre altre, più odiose voci del loro carico fiscale. Chi in que­sti mesi ha seguito le pole­mi­che governative-parlamentari sul tema dell’azzardo legale, sa quanti pate­tici, invo­lon­tari imi­ta­tori di voci abbiano tro­vato le cap­ziose parole del Peraldi. Parole, que­sta, alle quali aveva già rispo­sto ante lit­te­ram il Galiani.

Nel quinto dei suoi otto Dia­lo­gues sur le com­merce des bleds, pub­bli­cati a Parigi nel 1770 da madame d’Epinay e Denis Dide­rot, l’illuminista napo­le­tano Fer­di­nando Galiani osser­vava infatti che un popolo di gio­ca­tori altro non è che un popolo di cie­chi. I com­merci di que­sti cie­chi sono costan­te­mente in per­dita, il debito pub­blico avanza e avan­zando per­verte le fina­lità del corpo poli­tico – lo Stato – non meno dei «diritti essen­ziali della sovra­nità» che ven­gono «impe­gnati, alie­nati, usur­pati».



Non c’è gra­zia, ma disgra­zia in que­sta sorte. Come se qual­cosa si insi­nuasse nel mar­gine incerto, alea­to­rio di que­sta oscil­la­zione, tra­sfor­mando la spe­ranza in pre­sa­gio e il lavoro in iner­zia. In una società di cie­chi, dediti a rime­stare pula e a gio­care d’azzardo, con­ti­nua­mente nascono nuovi biso­gni, e nuovi desi­deri per­ver­tono i vec­chi, men­tre «il gusto per le feste e per il fasto ger­mo­glia nel cuore dei potenti; vogliono il lusso; oppri­mono il debole per sod­di­sfarsi. Non cono­scendo il prezzo delle opere delle arti che sono loro sco­no­sciute, tutto sem­bra loro mera­vi­glioso e pre­zioso. Lo stra­niero ne appro­fitta. Il denaro dimi­nui­sce e scom­pare. La cul­tura ne sof­fre e il red­dito nazio­nale dimi­nui­sce. Lo Stato tocca il fondo, il male è all’apice».

Un popolo di gio­ca­tori, osserva infine l’abate Galiani, è ben dispo­sto verso l’allegria, ma non è mai con­tento. Un popolo di gio­ca­tori non ammet­terà mai respon­sa­bi­lità nel con­corso alla pro­pria rovina. Ver­serà la pro­pria quota col sor­riso sulle lab­bra e lo Stato incas­serà, ma fino a quando? Cer­cando una gra­zia ultra­mon­dana, la mol­ti­tu­dine tro­verà una mon­da­nis­sima disgrazia.

Il lotto è stato comun­que visto dalla mag­gior parte degli inter­preti più cri­tici come un’imposta occulta e regres­siva, che col­pi­sce indif­fe­ren­te­mente dal red­dito e di con­se­guenza grava molto di più sulle fasce deboli. Non a caso Bal­zac par­lerà del lotto come dell’«oppio della mise­ria» e dell’attesa dei suoi numeri fatali come di una spe­ranza quasi reli­giosa di gra­zia, coscienza rove­sciata del mondo. Vol­gendo in chia­smo una meta­fora al tempo ricor­rente, con Bal­zac non la reli­gione sarebbe dun­que l’oppio dei popoli, ma l’oppio la reli­gione dei popoli. Di oppio del popolo («Opium des Vol­kes»), è noto, par­lerà Marx lad­dove Hei­rich Heine aveva già par­lato di «gei­sti­ges Opium», Rous­seau di «opium pour l’âme» e l’economista Jean-Baptiste Say osser­vato che, nelle lot­te­rie gene­ral­mente, «c’est pre­sque tou­jour le pain de la misère qu’on y hasarde».

Dal punto di vista giu­ri­dico, il lotto dà vita a un con­tratto alea­to­rio tra lo Stato e i gio­ca­tori. Lo Stato crea l’evento alea­to­rio, nello schema clas­sico estraendo cin­que numeri da un’urna di novanta in dati inter­valli di tempo (una, due, oggi infi­nite volte a set­ti­mana), men­tre il gio­ca­tore con­corre pun­tando una somma su una com­bi­na­zione di numeri, nella spe­ranza di vederli estratti e otte­nere così un pre­mio. Lotto d’Olanda o lotto a classi e lotto all’uso di Genova – che for­ni­sce lo schema chiave per il lotto quale noi oggi lo cono­sciamo – sono stati a lungo con­fusi, anche terminologicamente.

Nel modello della lot­te­ria – il lotto d’Olanda – il banco decide il pro­prio mar­gine teo­rico di pro­fitto, dato dalla dif­fe­renza tra il valore dei biglietti messi in ven­dita e il valore dei beni dati in pre­mio, con l’unico rischio della rispo­sta del mer­cato (ossia: quanti biglietti ver­ranno effet­ti­va­mente ven­duti), men­tre nel lotto vero e pro­prio il rischio del banco è ben più com­plesso, essendo di tipo pro­ba­bi­li­stico, e dipende anch’esso dalla sorte.



La scom­messa pontificia

Quando è nato il lotto? Come si sono for­mati si sono for­mati, tra il XVI e il XVIII secolo, i suoi mec­ca­ni­smi? Quale il rap­porto tra isti­tu­zione pub­blica e spe­cu­la­zione pri­vata? Se la leg­genda del lotto si perde nella notte dei tempi, la sua ori­gine è tra le poche cose certe che la sto­ria altri­menti com­plessa del gioco e dell’azzardo accerti. Ciò nono­stante, anche tra gli stu­diosi accorti con­fon­dere sto­ria e leg­genda non è cosa rara. È pro­prio della natura gioco, d’altronde, come già ricor­dava Eugen Fink, pren­dersi gioco di noi. Corre però in nostro aiuto un libro docu­men­ta­tis­simo di Gio­vanni Asse­reto, che alla que­stione sto­rica dedica il suo regente Un giuoco così utile ai pub­blici introiti. Il lotto di Genova dal XVI al XVIII secolo (Fon­da­zione Benetton-Viella, pp. 131, euro 20).

Il lotto nasce a Genova, non a Napoli, come un imma­gi­na­rio un po’ con­fuso ten­de­rebbe a cre­dere, e nem­meno a Milano. Con­tra­ria­mente a quanto si potrebbe cre­dere, infatti, a Napoli il gioco del lotto trovò cit­ta­di­nanza solo nel 1682, quasi tre decenni dopo la sua intro­du­zione a Milano, che risale al 1655. L’atteggiamento della Chiesa nei con­fronti del lotto fu di sostan­ziale ambi­guità, diver­sa­mente da quanto avve­niva con le lot­te­rie, nella quali teo­lo­gi­ca­mente e moral­mente non si riscon­tra­vano que­gli ele­menti di disva­lore che, fino al 1731, osta­co­le­rannno. Il 9 dicem­bre del 1731, a nem­meno un anno dalla sua ele­zione, toccò a Lorenzo Cor­sini, Papa Cle­mente XII, rista­bi­lirlo nello Stato pon­fi­cio e que­sto nono­stante gli inter­detti dei suoi pre­de­ces­sori, da Ales­san­dro VII (1669) a Bene­detto XIII (1727). Con i pro­venti del lotto, venne costruita la Fon­tana di Trevi e si rifece il trucco alla fac­ciata di San Gio­vanni in Late­rano.



Ciò nono­stante, ma solo in forma resi­duale, rimase in vigore la sco­mu­nica per tutti coloro che «tratti dalla folle spe­ranza di vin­cere per mezzi ripro­vati ed ille­citi, use­ranno nel gio­care al lotto arti prave o si ser­vi­ranno di dete­sta­bili e dan­nate super­sti­zioni». Anche tra le mura di San Pie­tro pre­val­sero ragioni era­riali e il modello, ancora una volta, era quello genovese.

Ma come nac­que il modello geno­vese? Nac­que prin­ci­pal­mente dalla pra­tica di scom­me­tere sui nomi degli estratti da un’urna, detta semi­na­rio, pra­tica che negli anni si isti­tu­zio­na­lizzò fino a essere lega­liz­zata dive­nendo appan­nag­gio del governo.

Nel 1576 le Leges novæ o «Leggi di Casale» sta­bi­li­rono che, due volte all’anno, la scelta dei cin­que patrizi com­po­nenti i Sere­nis­simi Col­legi, ovvero la prin­ci­pale carica di governo della Repub­blica di Genova, venisse affi­data a un sor­teg­gio. L’assetto isti­tu­zio­nale, dopo anni di faide e con­tra­sti, ne uscì raf­for­zato e restò inva­riato e sta­bile fino al 1797, quando Napo­leone can­cellò quasi ogni trac­cia della riforma che per un lungo aveva rego­lato la vita della ari­sto­cra­tica Januen­sis Respu­blica. Pro­iet­tan­dosi ben oltre i due secoli che sepa­rano l’approvazione delle Leges novæ dalla caduta della Sere­nis­sima, avvia­tasi con la Rivo­lu­zione di Genova del 22 mag­gio 1797, qual­cosa comun­que rimase. 
 
 
 
 Rimase una pra­tica diven­tata pre­sto isti­tu­zione e da lì evo­lu­tasi fino a costi­tuire ciò che, nell’Europa pre e post gia­co­bina, verrà ricor­dato come il gioco del Semi­na­rio o lotto all’uso di Genova, e che noi, oggi, cono­sciamo con un parola sem­plice, fami­liare e lon­tana al tempo stesso: il lotto. Sorto dall’uso di scom­met­tere sui patrizi dei Sere­nis­simi col­legi, negli anni, dopo un pro­cesso di emer­sione dal «nero», la pra­tica di indo­vi­nare l’esito di spe­ci­fici sor­teggi pra­ti­cati a cadenze rego­lari, divenne un vero e pro­prio modello «vir­tuoso» appli­cato per far cassa da gran parte dei governi d’Europa. La scom­mesa sui cin­que papa­bili all’elezione era stata isti­tu­zio­na­liz­zata nel 1644, quando la Repub­blica di Genova auto­rizzò le scom­messe, appal­tan­done la gestione a pri­vati «pren­di­tori», come si chia­ma­vano allora.



Lucrosi sor­teggi

Già dal XIV, però, a Genova era pra­tica d’uso lo scom­met­tere – in forma orga­niz­zata e con l’appoggio dell’amministrazione che ne rica­vava un utile – sul sor­teg­gio delle cari­che pub­bli­che. Pra­tica d’uso comune, que­sta, nell’Europa del Medioevo, là dove si pun­tava sull’elezione o la morte di car­di­nali, papi e impe­ra­tori. Qual­cosa di comune, tanto che, osserva Gio­vanni Asse­reto, nel momento della sua nascita si può affer­mare che, nei suoi ele­menti, il lotto di Genova nulla avesse di nuovo eppure nell’insieme rap­pre­sen­tasse un’assoluta e ori­gi­nale novità, capace di riscuo­tere suc­cesso e atten­zione attra­verso i secoli. In pochis­simo tempo, visti i riscon­tri alta­mente posi­tivi per le finanze pub­bli­che (e per gli inte­ressi pri­vati di spe­cu­la­tori e appal­ta­tori), il «modello» geno­vese si dif­fuse in tutta Europa.

Quando il governo prov­vi­so­rio della ribat­tez­zata Repub­blica Ligure, dotata da Bona­parte di una Costi­tu­zione sul modello di quella fran­cese dell’Anno III, si trovò a sti­lare il pro­spetto di tutte le entrare in data 1797, al primo posto, con 376.000 lire, il con­ta­bile annotò: «impresa del Semi­na­rio». A seguire, veni­vano la gabella del sale, con le sue 365.802 lire, l’imposta sul com­mer­cio marit­timo, 318.000 lire, la posta, con 222.200 lire, e una serie di spet­tanze di ben più mode­sto importo. Il sale era ancora di fon­da­men­tale impor­tanza nell’economia mer­can­tile di que­gli anni, ma il gioco si era ora­mai preso anche la sua parte.


Il Manifesto – 7 marzo 2014

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