Inventato a Genova (e
non a Napoli, come solitamente si crede) nel XVI secolo il lotto è
un particolare modello di gioco d’azzardo che lo Stato usa da
sempre per fare cassa. È da considerare una forma di tassa che i
cittadini accettano nella aleatoria speranza di una vincita
Marco Dotti
Dinanzi a un
fabbisogno finanziario in crescita e a
metodi di riscossione generalmente
e tradizionalmente inefficienti
e costosi, dagli anni Trenta del XVIII secolo il lotto si
è dimostrato un modello istituzionale
semplice, pratico e soprattutto efficace per
risanare le casse di un erario in crisi. A partire
dal XVIII secolo, infatti, le finanze pubbliche dei
principali Stati europei si rivolsero al lotto
e alla lotteria – con la quale il primo è stato
a lungo, strutturalmente
e terminologicamente, confuso
– ogni qual volta, pretestuosamente o meno,
si riteneva necessario far ricorso a entrate
speciali.
Il legame fra il lotto
a novanta numeri e la finanza pubblica costituisce
uno degli elementi di maggiore importanza per
comprendere a pieno la fortuna del più longevo
tra i giochi legati alla sorte. Sembra sia stato
Giacomo Casanova, che non disdegnava le vesti del
finanziere, a consigliarne l’incentivo in
Francia e l’adozione nella Prussia di Federico
II. Passeggiando con lui nel parco di Sans-Souci,
a Postdam, Giacomo Casanova ebbe infatti modo di
esporre a Federico il proprio programma. Poche
parole, ma chiare. Ci sono, disse, «tre specie di imposte,
considerandole in rapporto agli effetti. La
prima specie è rovinosa, l’altra necessaria,
mentre la terza è sempre eccellente». È facile
intuire, leggendo il terzo tomo dell’Histoire de ma vie, di
quale Casanova predicasse l’attributo «toujours
excellente».
Una contribuzione
volontaria
Dal punto di vista
fiscale, con il lotto i vantaggi finanziari per le
casse di uno Stato non derivano infatti da un prelievo
forzoso, bensì da una contribuzione
volontaria. Tanto più volontaria da
configurare, secondo un osservatore di metà
Ottocento, quasi una sorta di azionariato popolare
e diffuso, una cedola attenstante la propria
sottomissione fiscale (secondo la vecchia
massima ubi fiscus, ibi imperium) all’impresa-Stato.
Scriveva infatti monsignor Mario Felice Peraldi che
«nel gioco del lotto non v’è imposizione ma una
spontanea contribuzione di
speculazione».
La perorazione
del Peraldi, che sul tema scrisse «Una causa del popolo ossia
giustificazione del pubblico giuoco del
lotto» (1850), si fondava su un assunto semplice
e chiaro, quanto luciferino: nel lotto il giocatore
non sarebbe esposto né a maggior alea, né
a maggior rischio rispetto a quelli che
incontrerebbe in qualsiasi altra speculazione
commerciale. Dovremmo quindi vietare anche
i commerci e le speculazioni di altra
natura?
Il fisco – prosegue
Peraldi, che rovescia completamente la
questione – si troverebbe inoltre quasi in
condizione di svantaggio rispetto alla massa dei
giocatori che, anche perdendo, trarrebbero
comunque vantaggio dalla contribuzione
volontaria, perché darebbero modo all’erario
di ridurre altre, più odiose voci del loro carico fiscale. Chi in
questi mesi ha seguito le polemiche
governative-parlamentari sul tema dell’azzardo legale, sa quanti
patetici, involontari imitatori di voci
abbiano trovato le capziose parole del Peraldi. Parole,
questa, alle quali aveva già risposto ante litteram
il Galiani.
Nel quinto dei suoi otto
Dialogues sur le commerce des bleds, pubblicati
a Parigi nel 1770 da madame d’Epinay e Denis Diderot,
l’illuminista napoletano Ferdinando Galiani
osservava infatti che un popolo di giocatori altro
non è che un popolo di ciechi. I commerci di
questi ciechi sono costantemente in perdita,
il debito pubblico avanza e avanzando perverte
le finalità del corpo politico – lo Stato – non meno
dei «diritti essenziali della sovranità» che vengono
«impegnati, alienati, usurpati».
Non c’è grazia,
ma disgrazia in questa sorte. Come se qualcosa si
insinuasse nel margine incerto, aleatorio di
questa oscillazione, trasformando la
speranza in presagio e il lavoro in inerzia.
In una società di ciechi, dediti a rimestare pula
e a giocare d’azzardo, continuamente
nascono nuovi bisogni, e nuovi desideri pervertono
i vecchi, mentre «il gusto per le feste e per
il fasto germoglia nel cuore dei potenti; vogliono il
lusso; opprimono il debole per soddisfarsi. Non
conoscendo il prezzo delle opere delle arti che sono loro
sconosciute, tutto sembra loro meraviglioso
e prezioso. Lo straniero ne approfitta. Il
denaro diminuisce e scompare. La cultura ne
soffre e il reddito nazionale diminuisce.
Lo Stato tocca il fondo, il male è all’apice».
Un popolo di
giocatori, osserva infine l’abate Galiani, è ben
disposto verso l’allegria, ma non è mai contento.
Un popolo di giocatori non ammetterà mai
responsabilità nel concorso alla propria
rovina. Verserà la propria quota col sorriso sulle
labbra e lo Stato incasserà, ma fino a quando?
Cercando una grazia ultramondana, la
moltitudine troverà una mondanissima
disgrazia.
Il lotto è stato
comunque visto dalla maggior parte degli interpreti
più critici come un’imposta occulta e regressiva,
che colpisce indifferentemente dal
reddito e di conseguenza grava molto di più
sulle fasce deboli. Non a caso Balzac parlerà del
lotto come dell’«oppio della miseria» e dell’attesa
dei suoi numeri fatali come di una speranza quasi religiosa
di grazia, coscienza rovesciata del mondo. Volgendo
in chiasmo una metafora al tempo ricorrente, con
Balzac non la religione sarebbe dunque l’oppio dei
popoli, ma l’oppio la religione dei popoli. Di oppio del
popolo («Opium des Volkes»), è noto, parlerà Marx
laddove Heirich Heine aveva già parlato di
«geistiges Opium», Rousseau di «opium pour l’âme»
e l’economista Jean-Baptiste Say osservato che, nelle
lotterie generalmente, «c’est presque
toujour le pain de la misère qu’on y hasarde».
Dal punto di vista
giuridico, il lotto dà vita a un contratto
aleatorio tra lo Stato e i giocatori. Lo
Stato crea l’evento aleatorio, nello schema classico
estraendo cinque numeri da un’urna di novanta in dati
intervalli di tempo (una, due, oggi infinite volte
a settimana), mentre il giocatore
concorre puntando una somma su una combinazione
di numeri, nella speranza di vederli estratti e ottenere
così un premio. Lotto d’Olanda o lotto a classi
e lotto all’uso di Genova – che fornisce lo
schema chiave per il lotto quale noi oggi lo conosciamo –
sono stati a lungo confusi, anche terminologicamente.
Nel modello della
lotteria – il lotto d’Olanda – il banco decide il
proprio margine teorico di profitto, dato dalla
differenza tra il valore dei biglietti messi in vendita
e il valore dei beni dati in premio, con l’unico rischio
della risposta del mercato (ossia: quanti biglietti
verranno effettivamente venduti), mentre
nel lotto vero e proprio il rischio del banco è ben
più complesso, essendo di tipo probabilistico,
e dipende anch’esso dalla sorte.
La scommessa
pontificia
Quando è nato il
lotto? Come si sono formati si sono formati, tra il XVI
e il XVIII secolo, i suoi meccanismi? Quale
il rapporto tra istituzione pubblica
e speculazione privata? Se la leggenda
del lotto si perde nella notte dei tempi, la sua origine è tra
le poche cose certe che la storia altrimenti complessa
del gioco e dell’azzardo accerti. Ciò nonostante, anche
tra gli studiosi accorti confondere storia
e leggenda non è cosa rara. È proprio
della natura gioco, d’altronde, come già ricordava Eugen
Fink, prendersi gioco di noi. Corre però in nostro aiuto un
libro documentatissimo di Giovanni
Assereto, che alla questione storica dedica il suo
regente Un giuoco così utile ai pubblici introiti. Il lotto di
Genova dal XVI al XVIII secolo (Fondazione
Benetton-Viella, pp. 131, euro 20).
Il lotto nasce a Genova,
non a Napoli, come un immaginario un po’
confuso tenderebbe a credere, e nemmeno
a Milano. Contrariamente a quanto si
potrebbe credere, infatti, a Napoli il gioco del lotto
trovò cittadinanza solo nel 1682, quasi tre decenni
dopo la sua introduzione a Milano, che risale al
1655. L’atteggiamento della Chiesa nei confronti del lotto fu
di sostanziale ambiguità, diversamente da
quanto avveniva con le lotterie, nella quali
teologicamente e moralmente non si
riscontravano quegli elementi di disvalore
che, fino al 1731, ostacolerannno. Il 9 dicembre
del 1731, a nemmeno un anno dalla sua elezione, toccò
a Lorenzo Corsini, Papa Clemente XII, ristabilirlo
nello Stato ponficio e questo nonostante
gli interdetti dei suoi predecessori, da
Alessandro VII (1669) a Benedetto XIII (1727).
Con i proventi del lotto, venne costruita la Fontana
di Trevi e si rifece il trucco alla facciata di San
Giovanni in Laterano.
Ciò nonostante, ma
solo in forma residuale, rimase in vigore la scomunica
per tutti coloro che «tratti dalla folle speranza di vincere
per mezzi riprovati ed illeciti, useranno nel
giocare al lotto arti prave o si serviranno di
detestabili e dannate superstizioni».
Anche tra le mura di San Pietro prevalsero ragioni
erariali e il modello, ancora una volta, era quello
genovese.
Ma come nacque il
modello genovese? Nacque principalmente
dalla pratica di scommetere sui nomi degli estratti
da un’urna, detta seminario, pratica che negli anni
si istituzionalizzò fino a essere
legalizzata divenendo appannaggio del
governo.
Nel 1576 le Leges novæ
o «Leggi di Casale» stabilirono che, due volte
all’anno, la scelta dei cinque patrizi componenti
i Serenissimi Collegi, ovvero la principale
carica di governo della Repubblica di Genova, venisse affidata
a un sorteggio. L’assetto istituzionale,
dopo anni di faide e contrasti, ne uscì rafforzato
e restò invariato e stabile fino al 1797,
quando Napoleone cancellò quasi ogni traccia della
riforma che per un lungo aveva regolato la vita della
aristocratica Januensis Respublica.
Proiettandosi ben oltre i due secoli che
separano l’approvazione delle Leges novæ dalla caduta della
Serenissima, avviatasi con la Rivoluzione
di Genova del 22 maggio 1797, qualcosa comunque
rimase.
Rimase una pratica
diventata presto istituzione e da lì
evolutasi fino a costituire ciò che,
nell’Europa pre e post giacobina, verrà ricordato
come il gioco del Seminario o lotto all’uso di
Genova, e che noi, oggi, conosciamo con un parola
semplice, familiare e lontana al tempo stesso:
il lotto. Sorto dall’uso di scommettere sui patrizi dei
Serenissimi collegi, negli anni, dopo un processo
di emersione dal «nero», la pratica di indovinare
l’esito di specifici sorteggi praticati
a cadenze regolari, divenne un vero e proprio
modello «virtuoso» applicato per far cassa da gran parte
dei governi d’Europa. La scommesa sui cinque papabili
all’elezione era stata istituzionalizzata
nel 1644, quando la Repubblica di Genova autorizzò le
scommesse, appaltandone la gestione a privati
«prenditori», come si chiamavano allora.
Lucrosi sorteggi
Già dal XIV, però,
a Genova era pratica d’uso lo scommettere –
in forma organizzata e con l’appoggio
dell’amministrazione che ne ricavava un utile – sul
sorteggio delle cariche pubbliche. Pratica
d’uso comune, questa, nell’Europa del Medioevo, là dove si
puntava sull’elezione o la morte di cardinali,
papi e imperatori. Qualcosa di comune, tanto
che, osserva Giovanni Assereto, nel momento della sua
nascita si può affermare che, nei suoi elementi, il lotto
di Genova nulla avesse di nuovo eppure nell’insieme
rappresentasse un’assoluta e originale
novità, capace di riscuotere successo e attenzione
attraverso i secoli. In pochissimo tempo, visti
i riscontri altamente positivi per le finanze
pubbliche (e per gli interessi privati di
speculatori e appaltatori), il
«modello» genovese si diffuse in tutta Europa.
Quando il governo
provvisorio della ribattezzata Repubblica
Ligure, dotata da Bonaparte di una Costituzione sul
modello di quella francese dell’Anno III, si trovò
a stilare il prospetto di tutte le entrare in data
1797, al primo posto, con 376.000 lire, il contabile
annotò: «impresa del Seminario». A seguire,
venivano la gabella del sale, con le sue 365.802 lire,
l’imposta sul commercio marittimo, 318.000 lire, la
posta, con 222.200 lire, e una serie di spettanze di ben
più modesto importo. Il sale era ancora di fondamentale
importanza nell’economia mercantile di quegli
anni, ma il gioco si era oramai preso anche la sua parte.
Il Manifesto – 7 marzo
2014
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