“Ridurre la
sofferenza degli uomini e delle donne a numeri,
statistiche, sottocommissioni,
regolamenti e procedure significa
anestetizzare la rabbia, la ribellione, la
reazione collettiva. Significa rendere la
disoccupazione, il licenziamento, la
perdita di ogni possibilità di sostentamento,
la debolezza davanti alla malattia e alla vecchiaia,
una questione privata, un fallimento dei
singoli”.
La povertà razzismo
d'Europa
I perchè della lista
Tsipras
Daniela Padoan
«La casa di tutti noi
è in fiamme, anche se ognuno cercasse rifugio
nella sua tana minuscola e illusoria». Sono
state forse queste parole — contenute
nell’appello con cui alcuni intellettuali hanno
sentito che occorreva guardare alla Grecia
come a una sorella — a convincermi che
qualcosa di nuovo stava accadendo: l’irrompere della
realtà, la necessità di nominare la miseria come
una presenza che ci interpella, che minaccia le
nostre esistenze, che erode un mondo di concetti di cui
ci è rimasta in mano un’inutile se non dannosa
carcassa.
Né l’Europa divisa
nuovamente in caste è un rifugio, né lo è la
nostra esistenza piccoloborghese, dove la
parola «povertà» ha finora riguardato solo e sempre
gli altri.
Perché l’Europa
– intesa come mostro burocratico al servizio
del capitale industriale e finanziario –
abbia ogni interesse a occultare la questione
sociale, è evidente: ridurre la sofferenza
degli uomini e delle donne a numeri, statistiche,
sottocommissioni, regolamenti
e procedure significa anestetizzare
la rabbia, la ribellione, la reazione collettiva.
Significa rendere la disoccupazione, il
licenziamento, la perdita di ogni possibilità
di sostentamento, la debolezza davanti alla
malattia e alla vecchiaia, una questione
privata, un fallimento dei singoli.
Ma perché la
questione sociale sia stata considerata
marginale dai partiti della sinistra, che
proprio nel non sapersene fare interpreti hanno
decretato il loro disfacimento, è meno
evidente. Da un certo punto in avanti, la sinistra ha
smesso di rappresentare i più deboli,
è diventata sorda al dolore, all’umiliazione, ha
delegittimato ogni sentimento di rivolta
di fronte al sopruso. Si è fatta partecipe
e mediatrice di politiche devastanti,
alimentando dottrine di sacrificio di
fronte al disastro, assumendo il concetto di crisi
come fenomeno naturale, sciagura ineluttabile
dalla quale solo gli esperti possono trarci in salvo.
La povertà, parola
impronunciabile, è diventata – da
ossificazione nelle figure rassicuranti
perché estreme del clochard, del barbone, del
senzatetto, del drop-out – una questione di atti
amministrativi, normativi, una materia
di direttive: una politica occultata sotto sigle
illeggibili che in Grecia si è concretizzata
nel fatto che i malati muoiono di cancro senza più
assistenza ospedaliera, che le università
chiudono, che il tasso di mortalità neonatale
giunge alle percentuali di quello che eravamo
soliti chiamare Terzo Mondo.
Abbiamo ancora nelle
orecchie gli eufemismi ai quali sono ricorse, nel
tempo, diverse dittature per mascherare i propri
atti criminali: la mattanza compiuta dalla
dittatura argentina, che fece sparire
trentamila oppositori gettandoli in
mare dagli aerei, venne chiamata «processo di
riorganizzazione nazionale»;
l’eliminazione industriale nelle camere a gas di sei
milioni di individui venne chiamata, nella
Germania nutrita di Goethe, «soluzione finale
della questione ebraica». Oggi, nella democratica
Europa, nata sulle rovine della Seconda guerra mondiale come
antidoto alle dittature, una politica
economica agita da un potere sovranazionale
con il vassallaggio dei governi democratici
viene chiamata austerity , fiscal compact ,
pareggio di bilancio, ristrutturazione
del debito.
Quando, tre anni dopo
il default dell’Argentina, andai a Buenos Aires per
scrivere un libro sulle Madri di Plaza de Mayo, ebbi modo di
vedere i cartoneros che vivevano
a migliaia nelle bidonville tutt’attorno alla città,
e i bambini che si prostituivano in pieno
giorno sulla centralissima Avenida 9 de
Julio. La presidente delle Madri, Hebe de Bonafini,
mi portò in un manicomio dove gli internati, che
chiamava «prigionieri psichiatrici»,
erano abbandonati a se stessi, nella sporcizia,
con quasi nulla da mangiare.
Ricordo che, davanti al mio
sconcerto, più volte mi disse: fai un errore se ci guardi
come un mondo diverso dal tuo, siamo solo il primo esempio,
la prima palestra del neoliberismo,
arriverà anche da voi. «Noi Madri», ripeteva,
«crediamo che i disoccupati siano i nuovi
desaparecidos del sistema, e che la
mancanza di lavoro sia uno tra i peggiori crimini
contro l’umanità. Un lavoro degno è un diritto umano
inalienabile e la sua mancanza porta con
sé la fame dei bambini e la distruzione delle
famiglie».
La casa di tutti noi
è in fiamme, e le nostre tane sono minuscole
e illusorie. Ma nominare la realtà è già
di per sé un atto rivoluzionario: significa
non solo uscire dall’oscurità, ma ritrovare un senso di
fratellanza. Non un chinarsi sui deboli da una
posizione di illuminata supremazia, ma un
condividere affanni e speranze. Questo
moto interiore è stato archiviato dalla sinistra
televisiva e professionale come
naïf, ciarpame di vecchie liturgie, con il
risultato di lasciare agli arringatori di piazze la
possibilità di parlare al dolore
e all’umiliazione delle persone, al senso di rivolta
contro l’ingiustizia, che ancora è la vera molla
capace di farci uscire dalle nostre claustrofobiche
e private prigioni.
L’incendio che
avanza rischia di abbattersi sui paesi mediterranei
chiamati Pigs – un acronimo che rimanda, più che a un
lapsus, all’emergere di un antico disprezzo non sopito,
benché si sia poi trasformato in Piigs, con
l’ingresso dell’Irlanda, e sia stata coniata
l’alternativa Gipsi, a dimostrazione di quanto
i fantasmi non risolti della vecchia Europa
razziale aleggino ancora nell’inconscio collettivo.
Uno spettro si
aggira per l’Europa, ed è lo spettro della povertà.
Ignorarlo, o fingere che non ci riguardi, ha
lasciato un enorme numero di uomini e di donne privi di
rappresentanza; esposti – come scriveva
Hannah Arendt a proposito delle rivoluzioni
francese e russa – a cadere dalla dimensione
della libertà a quella del bisogno, deviando verso
l’assolutismo. E il risveglio che ci attende
all’apertura delle urne europee rischia di essere molto
duro, con un’ascesa del blocco nazionalista,
razzista e xenofobo che va dal Front National
di Marine Le Pen, che potrebbe diventare il primo partito
in Francia, a Jobbik , il movimento di
estrema destra di Gabor Vona, attualmente terzo partito
ungherese, passando per il partito belga Interesse
fiammingo di Vlaams Belang e la lista Veri Finlandesi
di Timo Soini, senza dimenticare Alba Dorata e la
Lega Nord .
Veniamo da una storia
che, nel Settecento, nel cuore dell’Europa, ha
concepito l’ideologia che chiamiamo razzismo
– ovvero la «naturale» supremazia dell’uomo
occidentale, maschio, bianco, dotato di logos, nei
confronti dei «selvaggi» delle colonie,
gradualmente prossimi, in base al colore della
pelle e ai tratti somatici, alla scimmia; una
storia che, nell’Ottocento, con il darwinismo
sociale, ha teorizzato e praticato la
soppressione dei più deboli – dei malati, degli
handicappati, degli omosessuali, dei
«devianti» di ogni specie – tramite le dottrine
dell’eugenetica e le pratiche di
sterilizzazione forzata e di
eutanasia; una storia che, nel Novecento, ha
pianificato e attuato lo sterminio
su base razziale, con l’invenzione delle camere a gas
e dei campi di annientamento.
C’è una gerarchia
del disprezzo, il cui precipizio abbiamo visto in
Auschwitz, che la nostra tradizione di pensiero
ci ha addestrato a riconoscere come
«naturale», articolandola in uomo-donna,
cultura-natura, logos-barbarie. È con questa
tradizione che dobbiamo fare i conti. Non
serviranno le liturgie della memoria
a preservarci dal ritorno di quella furia omicida,
ma solo un profondo ripensamento delle radici
culturali che tutt’ora ci nutrono.
Se anche è stata
dimostrata l’inesistenza scientifica del
concetto di razza applicato agli uomini, permane un
razzismo paradossale, un razzismo
senza razze, rivolto contro i poveri, resi categoria,
destituiti di umanità, possibili da
sfruttare e da annientare. Torna attuale il
problema della schiavitù, che siamo abituati
a collocare nel mondo antico e negli Stati
sudisti del cotone, mentre, nella nostra storia
recente, un paese colto e tecnologicamente
avanzato ha progettato la sottomissione
di tutti gli altri popoli europei: una parte di essi sarebbe
stata soppressa, gli altri sarebbero stati fatti
schiavi, così da garantire la supremazia e lo
«spazio vitale» del popolo germanico.
La Lista L’Altra
Europa con Tsipras ha posto come punto qualificante
del suo programma la lotta alla xenofobia e al
razzismo, e la ricerca di politiche
fondate sui principi di giustizia,
accoglienza, solidarietà e inclusione
sociale. Perché, come ripetono le Madri di Plaza de
Mayo, «non si vince alla lotteria, d’essere poveri».
Si tratta di politiche decise dagli uomini, e il
solo modo che abbiamo per cambiarle è abbracciare
l’orizzonte continentale, costruendo un’Europa
che non sia una giustificazione metafisica
della sottomissione, un moloch che richiede il
sacrificio dei deboli, ma una garanzia di
democrazia e di inclusione. È necessario
tornare alle origini del progetto europeo,
alle motivazioni profonde della sua costituzione,
prima di essere sommersi da un nuovo fascismo.
La sola comunità
possibile, scriveva Georges Bataille, è quella
di coloro che non hanno comunità, ed è a loro (a noi)
che dobbiamo tentare con tutte le nostre forze di dare
rappresentanza.
il Manifesto – 26 marzo 2014
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