Li vampi di S. Giuseppe
Secondo un'antica tradizione che resiste ancora nei quartieri popolari di Palermo (Il Borgo, Ballarò, il Capo, ecc.) la notte che precede il 19 marzo si dà fuoco per prepararsi alla nuova primavera. Mi piace commentare la foto di sopra con le parole del mio amico Giuseppe:
Giuseppe Oddo
Le radici agrarie del culto di San Giuseppe in Sicilia
Nell'immaginario collettivo del popolo siciliano San Giuseppe è sempre stato il Patriarca, il più premuroso padre dei giovani, protettore degli orfani e delle ragazze da marito, nume tutelare dei vinti della storia, tramite privilegiato della Divina Provvidenza. Di questa considerazione il Santo godeva soprattutto nell'Ottocento quando la cultura popolare, influenzata dal paesaggio agrario, accompagnava l'individuo dalla culla alla bara e, attraverso i suoi codici, ne orientava i comportamenti in ogni fase della vita.
Dall'alto di questo prestigio, il padre putativo di Gesù si è conquistato il protettorato di non pochi comuni della Sicilia rurale, piazzandosi al secondo posto dopo la Vergine Maria. «Gli altri santi gli vengono dietro a grande distanza, compresi San Giovanni Battista, San Niccolò di Bari, San Giorgio, San Vito, Santa Lucia»: parola di Giuseppe Pitrè. Salvatore Salomone Marino, che di campagne se ne intendeva certamente più di Pitrè, dandone ampia dimostrazione nel suo pregevole saggio Costumi e usanze dei contadini di Sicilia, non ha avuto la minima remora ad affermare più di cento anni fa: «San Giuseppe vale di più del Padre Eterno, di Cristo e della Madonna presi insieme». Il barone "dei villani" o "tra i villani" che dir si voglia, Serafino Amabile Guastella, nel presentare il Nostro ai lettori del suo capolavoro letterario e antropologico, Le parità e le storie morali dei nostri villani, ha voluto definirlo «il più simpatico fra tutti i santi, quello che è venerato dal popolo con culto e devozione più schietta, dico il patriarca San Giuseppe».
Salvo ad ammettere, subito dopo, che il vecchio santo all'occorrenza non si faceva scrupoli di andare a rubare fichi tenendo per mano il Bambino Gesù. Oh, ma era pienamente consapevole delle sue azioni il Patriarca! E sapeva pure che, bene che gli fosse andato, sarebbe stato preso a bastonate dal proprietario del fondo (cosa che si verificava puntualmente). Non per questo, però, il sant’uomo poteva restare insensibile alla voglia di fichi di una vecchietta ammalata: sua suocera, la Madre Sant’Anna! Insomma, per il contadino siciliano, San Giuseppe è sempre stato un santo singolare, un vecchio saggio di campagna ben introdotto in Paradiso, uomo tra gli uomini pronto a sposare la causa dei bisognosi, ad affrontare le situazioni più scabrose con tanta bontà e un pizzico di spregiudicatezza. Ai tempi di Guastella, in certe realtà della Sicilia sud-orientale (Ragusa, Modica, Scicli), un vecchio falegname veniva mantenuto a vita dalla comunità a condizione che impersonasse san Giuseppe. «Egli veste cotidianamente tunica e petaso azzurri, cappello gesuitico; ha sandali e porta in mano una lunga verga fiorita, colla quale dà la benedizione a chi gliela chiede».
Nella sua qualità di alter di alter ego del padre putativo del Bambinello Divino, il nostro – a detta di Alessio Di Giovanni – è un «vicario senza svizzeri, né palazzi sontuosi, né sedie gestatorie, né caudatarii. Tutt’altro. Semplice, invece, e alla buona. Tanto semplice e tanto alla buona, che non rifugge dallo stare in mezzo alla povera gente. Ama anzi indugiare, d’inverno, nelle grandi e nere cucine delle masserie per stirizzirsi alle fiammate fumose e scoppiettanti, o sull’aie, nei palmenti, nei frantoi, per far quattro chiacchiere con i villani che o battono o spulano il bel grano biondo, o pigiano l’uva, dondolando il capo in cadenza e canterellando con voce monotona e sonnolenta, o badano alla macina che gira, lucida o cigolante, traendo dalle verdi olive l’olio limpido o puro. Un vicario democratico insomma. E come non potrebbe esser tale se egli rappresenta in terra… modicana l’umile, mite santo legnaiolo di Nazareth? Figuratevi che non disdegna persino di girare al tempo della raccolta con una larga bisaccia sulle spalle curve di masseria in masseria, di podere in podere, di aja in aja, per la questua del formaggio, del mosto, dell’olio, del grano, di un po’ di tutto. E dire che di cotesta specie di cerca conventuale egli ne ha bisogno sino ad un certo punto. E sapete perché? Perché ogni giorno è ospite desiderato ed accetto ora di questo ora di quel devoto, e non ha necessità quindi né di accendere il fuoco nella sua casuccia terrana, che le comari del vicinato gli tengono pulita come uno specchio, né di darsi pensiero del pane quotidiano». Anzi, da uomo giusto e generoso, degno di tenere a battesimo una caterva di bambini, il vicario di San Giuseppe utilizzava quasi tutto il ricavato della questua per sfamare i poveri.
A Modica e nel resto della Sicilia l’immagine del Patriarca ha sempre fatto da capezzale nell’alcova del contadino: con il Bambinello in braccio o con tutta la Sacra Famiglia, sempre al centro dell’attenzione, gli occhi paterni incollati su tutti gli ospiti del lettone, la “naca” del neonato, l’asinello e la botte con il vino. A lui si confidavano (e si continuano a confidare) gioie e dolori, angosce, speranze, delusioni, gelosie, desideri inconfessabili. Farsi suo devoto era come stipulare un’assicurazione contro le avversità della vita. Malattie, fame nera, e terremoti, carcere, invasione di cavallette… per ogni disgrazia trovava una soluzione il caritatevole sposo della Vergine Maria. E quando non ci riusciva, pazienza! Voleva dire che il Padre Eterno non l’aveva potuto accontentare.
Una volta sola, che mi risulti, i contadini siciliani ci restarono male. E successero cose turche, a voler credere a James George Frazer. La primavera 1893 fu particolarmente siccitosa. Messe cantate, vespri, rosari, processioni interminabili, fuochi d'artifìcio... nulla, alla fine di aprile, era valso a muovere a compassione Giove Pluvio. Lo stesso Patriarca, a voler prendere per oro colato un servizio del Giornale di Sicilia, non aveva potuto fare nulla di concreto per accontentare i suoi devoti. «Alla fine i contadini persero la pazienza. A Palermo scaraventarono San Giuseppe in un orto perché vedesse con i suoi occhi come stavano le cose, e giurarono di lasciarlo li, sotto il sole, fino a quando non fosse caduta la pioggia».
Non c'è dubbio, però, che il Patriarca san Giuseppe ha sempre assolto a un ruolo importante nella civiltà contadina, vuoi perché i suoi momenti rituali sono strettamente legati al calendario agrario, vuoi perché (specialmente nel passato) si sostanziavano in cicliche opportunità di rifondazione dell'identità comunitaria. E continua ad assolverlo ovunque sia emersa una nuova ruralità, in tutti quegli ambiti territoriali dove l'agricoltura produttiva riesce a coesistere con altre attività (artigianato, piccola industria, turismo, servizi) che tendono a mantenersi in un equilibrio accettabile con l'ambiente naturale.
Per farla breve, con buona pace di chi enfatizza il post-moderno e le ferree regole del villaggio globale, la devozione al Santo falegname, per quanto affievolita rispetto al passato, si manifesta tuttora con sincero fervore in ogni angolo della Sicilia rurale. Ancora ai nostri giorni la sera del 18 marzo i bagliori delle luminarie in onore del Patriarca si riverberano ovunque, nelle campagne e persino in alcune borgate della Capitale. Nella sola Balestrate si accendono diversi falò, per segnalare altrettanti altari di san Giuseppe ricolmi di pani che saranno offerti l'indomani ai visitatori, benedetti dal prete. I rosari e le poesie in vernacolo dalle parole arcaiche e il significato oscuro si recitano a profusione, anche per settimane, nei villaggi e nelle città contadine, dei monti Sicani, degli Erei, dei Nebrodi e dei Peloritani...
Il 19 marzo s’inscenano processioni in costume, salutate da festanti scoppi di mortaretti, rulli di tamburo, grida di giubilo inneggianti al Patriarca e alla Sacra Famiglia. E non mancano certo le manifestazioni orgiastiche tipiche dei banchetti rituali: banchetti che si chiamano ceni, tavulati, ammiri, cummiti, a seconda delle tradizioni locali. Banchetti sontuosi, come si addice a chi vuole esorcizzare la miseria. Banchetti che, come ai tempi di Pitré, hanno avuto come convitati «i poveri, i santi, i santuzzi, gli 'nvitati, i vecchiareddi, a Sacra Famigghia... con tutto l'apparato di una teatralità che parrebbe moderna ed è vecchia quanto la devozione». E si noti bene che nella cena allestita a Pusillesi (piccola borgata di Salemi) ai santi si arrivano ad offrire anche 101 pietanze, tutte scandite da applausi (sonori quasi quanto le scoppiettate che un tempo si sparavano allo stesso scopo) e grida corali: «Viva Gesù, Giuseppe e Maria, viva!».
Non è certo questa la sede per descrivere tutto il cerimoniale festivo del Patriarca, né tanto meno di avventurarsi in maldestri tentativi di decodifica dei simboli che si riscontrano nei riti del 19 marzo. Vale però la pena di sottolineare con gli antropologi che essi hanno origine premisterica. Nel banchetto Fatima Giallombardo vede riecheggiare il noto cunzulu, istituto arcaico che il più aggiornato vocabolario siciliano definisce «quel dono di vivande che parenti e amici offrono ai familiari di un defunto nei primi tre giorni di lutto». A sostegno della sua tesi la studiosa allega un frammento del cosiddetto Testamento di san Giuseppe che le donne di Alimena recitano il 19 marzo (fìgliu miu vogliu muriri, ca cchiù ccà nun vogliu stari..) e una leggenda secondo la quale il Patriarca sarebbe morto a due ore di notte del 18 marzo. E appena il caso di ricordare che ogni anno a quell'ora sono accesi i falò (detti localmente vampe, vamparigghi, luminarie, pagghiari) forse per indicare al Santo la via del Paradiso o, forse, come direbbe Frazer, per bruciare la stessa morte, ancorché non raffigurata dal fantoccio di paglia che un tempo ponevano sulla pira i contadini di alcuni villaggi di Boemia.
Morte della natura! Che gli agricoltori di tutto il mondo paventano ogni fine anno, fin dagli albori della rivoluzione agraria.
Pippo Oddo, 18 marzo 2014
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