22 marzo 2014

SULLE BUFALE CHE CIRCOLANO IN FACEBOOK

Perché su Facebook ce le beviamo proprio tutte





Verissimo! Su facebook (però non solo. Facebook è solo la punta di diamante della mega e-creduloneria) ce le beviamo tutte e spesso (sempre più spesso) FB fa circolare le bufale in maniera virale, nessuno che si prenda mai la briga di verificare, e approfondire prima di postare o condividere.
Clicchi un condividi e via passi nevroticamente ad altro. L’importante è indignarsi, e far indignare, in compagnia, o accettare solo tutto quello che ci piace sentirci dire, e poi subito condividerlo, capelli al vento e spensieratezza informativa, senza neppure immaginarsi il danno antropologico che stanno provocando. Si sentono tutti giornalisti e abili politici, ma nello stesso tempo sanno benissimo che stanno solo passando il tempo e giocando, quindi … nessuna traccia di senso di responsabilità o di aderenza ad uno straccio di e-codice deontologico, il che permette di far circolare tutto solo in base al ammemmipiace (georgia)


Perché su Facebook ce le beviamo proprio tutte
Maria Teresa Carbone


Internet
Il caso del fantomatico senatore Cirenga e il presunto “fondo per i parlamentari in crisi” durante il governo Monti è stato usato dalla Northeastern University di Boston per studiare il virus dei falsi sul web. “Colpa della confusione tra notizie e intrattenimento”
È passato più di un anno e forse non molti ricordano la sollevazione popolare contro il disegno di legge del senatore Cirenga.
Era la fine del 2012, e già si percepivano forti gli scricchiolii del governo Monti, quando su Facebook è apparso un appello che ha immediatamente raccolto decine di migliaia di adesioni. E come non indignarsi all’idea che, in un’Italia più che mai in crisi, il senato avesse approvato, con 257 voti favorevoli e 167 contrari, l’istituzione di un “fondo per i ‘parlamentari in crisi’ creato in vista dell’imminente fine legislatura” con uno stanziamento di 134 miliardi di euro? Peccato che fosse tutto falso: inesistente il disegno di legge, inesistente il parlamentare Cirenga, sbagliato il numero dei senatori (422 contro i reali – almeno per ora – 315, più i 4 senatori a vita), del tutto assurda infine la cifra stanziata, in base alla quale ogni senatore avrebbe ricevuto una faraonica buonuscita di 500 milioni di euro.
Forse proprio per le dimensioni macroscopiche della bufala, l’“affaire Cirenga” è stato scelto dal Laboratory for the Modeling of Biological and Socio-Technical Systems della Northeastern University di Boston come caso da analizzare per una ricerca intitolata L’attenzione collettiva nell’era della (dis)informazione. Obiettivo del lavoro, condotto dalla fisica di origine rumena Delia Mocanu, con l’aiuto – tra gli altri – di due italiani, Luca Rossi e Walter Quattrociocchi, studiare il modo in cui le informazioni vengono “consumate” dagli utenti dei social network, in margine a un dibattito politico come quello italiano. O se si preferisce usare la più cruda definizione di Joshua Keating su Slate, «capire come mai i tuoi stupidi amici di Facebook possono essere così creduloni».
Il risultato della ricerca è particolarmente interessante, e non potrà non piacere a chi ritiene che l’informazione tradizionale sia ancora la migliore, o comunque la più solida e attendibile: quello che è emerso, infatti, è che a cadere nella trappola dell’appello Cirenga, sono stati soprattutto coloro che, non fidandosi dei giornali o della televisione, preferiscono cercare le notizie da fonti “alternative”.
Per condurre lo studio, Mocanu e i suoi collaboratori hanno diviso gli utenti in tre gruppi: quelli che attingono le informazioni dai siti di organizzazioni politiche, coloro che invece hanno come riferimento quotidiani di carta o online e telegiornali, insomma la stampa mainstream, e infine i diffidenti a oltranza, che preferiscono cercare altrove le loro fonti, in pagine web che disseminano informazioni controverse, spesso prive di solide basi d’appoggio e a volte in contraddizione con la stampa “ufficiale”. Sono proprio questi ultimi a essere più inclini a condividere contenuti falsi, in una percentuale – 56 per cento – doppia e tripla rispetto a quella registrata negli altri due gruppi (rispettivamente 26 e 18 per cento).
Con una certa (fondata) perfidia Keating nota che «forse l’Italia, un paese il cui ex primo ministro possedeva tre importanti reti tv e dove un partito importante ha come leader un comico, non è il posto giusto per studiare il fenomeno», visto che da noi «la linea fra notizia, intrattenimento e propaganda è più sfumata che altrove». Ma lo stesso Keating riconosce che le bufale prosperano anche sul suolo americano e che c’è qualcosa di giusto nell’idea «che i critici più feroci dei media mainstream sono spesso i consumatori più acritici delle fonti alternative». Un’affermazione su cui i complottisti di tutto il mondo farebbero bene a riflettere almeno qualche minuto prima di condividere la loro ultima scoperta

Pagina99, 21 marzo 2014.

ripreso da   http://georgiamada.wordpress.com/

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