Frida con Trotsky
Lev Davidovic Trotsky
era un tipo freddo, ma quando la incontrò perse la testa, tanto
travolgente era la vitalità di Frida. Una grande mostra a Roma (e in
autunno a Genova) racconta la sua vita attraverso 160 opere.
Teresa Marcrì
La perturbante dea
azteca
L' attrazione popolare
per Frida Kahlo ha del sortilegio. Nonostante la
calda e terrosa mediaticità delle sue tele
riporti in primis a una condizione di infermità
e dolore, al tempo stesso sottende a una dimensione
di riscatto morale e rimanda a un élan vital congenito.
Le sue opere trascinano in un mondo così roboante di
millenarismo azteco tanto da tingere, con
una aura fantasmatica, l’identità stessa della
artista messicana. Identità imponente,
carismatica, palpitante, talmente
ingombrante da schiacciare la sua stessa arte, sì da far
divenire Frida eroina cinematografica,
teatrale e letteraria, quasi che il mistero
della sua fama sia dovuto alla sua sventurata vita.
Eppure questa
indomita «ragazza del secolo scorso», attraverso lo
scisma del corpo, non fa che evocare la conflittualità
della storia messicana del primo Novecento e,
paradossalmente, ci avvita nelle spire di quei grandi
visionari, Marx e Freud, che si addensano/condensano, tra
conflitto interiore e conflitto esteriore,
nella sua opera nonché nella sua vita activa. Poeticamente
Carlos Fuentes la ricorda così: «Frida Kahlo era una dea
azteca.
Forse Coatlicue,
la dea madre dalle vesti di serpenti, che nascondeva il
corpo tormentato, la gamba inerte, il piede offeso,
i busti ortopedici sotto gli spettacolari
ornamenti delle contadine messicane, che
per secoli conservavano gelosamente
i gioielli protetti dalla povertà, per esibirli
solo alle grandi fiestas delle comunità agrarie.
I merletti, i nastri, le gonne, le acconciature
a forma di luna le aprivano il viso come le ali di una
farfalla notturna: Frida Kahlo dimostrava che la
sofferenza non riusciva a fiaccare, né la
malattia a eclissare, la sua infinita
versatilità».
Magdalena
Carmen Frida y Calderón nacque il 6 luglio
del 1907 da mamma messicana e da padre ebreo
ungherese, a Coyoacán, allora sobborgo di Città
del Messico. In una biografia inseminata
dalla malattia (la polio ad appena sette anni e il fatale
incidente sull’autobus nel 1925, in cui si fratturò
l’osso pelvico e la spina dorsale, che compromise
la sua intera esistenza), l’alternativa fibrillante che
ne segnò il carattere e l’attitudine fu la passione
politica.
La retrospettiva
che è approdata alle Scuderie del Quirinale
con oltre 160 opere tra dipinti e disegni, curata di Helga
Prignitz Poda, indubitabilmente ripercorre
questa costante attraverso l’intera carriera
artistica di Frida, riunendo i capolavori
dei principali nuclei collezionistici,
raccolte pubbliche e private, provenienti
da Messico, Europa e Stati Uniti. In mostra, vengono
presentati oltre quaranta ritratti e autoritratti
e una selezione di disegni, tra cui il famoso
«corsetto in gesso» che teneva Frida prigioniera
subito dopo l’incidente e che lei dipinse ancor prima di
passare ai ritratti.
Nata con quella
rivoluzione messicana in cui la sollevazione
borghese e contadina combatté l’oligarchia
latifondista e il regime dittatoriale
di Porfirio Diaz dal 1910 al 1917, Frida riflette l’evento
centrale del Messico del ventesimo secolo
schierandosi, operando e attivandosi
personalmente contro la teocrazia
azteca, che viveva un processo d’integrazione dipendente
nel quadro mondiale dell’imperialismo.
Le ferite e il
sangue che tracciano le sue tele devastanti
proiettano, attraverso l’iconografia del suo corpo
infranto, un dolore nazionale, instillato da una intera
classe sociale che si sollevò contro la scure dei
potenti. Così come il popolo si divise tra povertà
e rivoluzione, memoria e speranza,
Frida si scisse tra idealità e realtà. «La
rivoluzione — diceva Kahlo — ha lasciato Città del
Messico vuota, con un milione di messicani morti in
guerra . Era una città bella, rosea città di magnifiche
chiese coloniali, palazzi e dimore private di stile
coloniale, dolci parchi incoerenti, larghi viali
e oscure vie». Ed è la città che diviene metafora
e scenario del suo corpo martoriato.
Nel 1926 dipinge il suo
primo autoritratto Autorretrato con vestido de
terciopelo e l’anno successivo aderisce
alla Lega giovanile comunista. Intanto, benché
giovanissima, è già perdutamente
innamorata di Diego Rivera, passione distrofica
e perenne che l’accompagnerà per il resto dei suoi giorni in
un continuum emozionale che la renderà più
vulnerabile e più adorante.
Rivera è un
muralista comunista ed è una figura
rabdomantica che ingloba nell’animo ardente della
Kahlo passione amorosa e politica. Si sposano
due volte nel corso degli anni, tra abbandoni e ritorni,
a causa dell’infedeltà congenita di Rivera Frida
confessò sempre di aver subìto due incidenti nella
sua vita, quello nel tram e Diego Rivera.
I due artisti,
nelle loro differenti proposizioni
formali, filtrano attraverso i propri umori
la storia sociale e culturale dell’epoca. Nel
1936 Frida e Diego raccolgono fondi per i messicani
in lotta contro le forze di Franco nella guerra civile
spagnola, nel 37 ricevono e ospitano Leon
Trotsky giunto in asilo politico in Messico a cui
Frida offre Autorretrato dedicado a Leon
Trotsky (Entre las cortinas)). Nell’anno
successivo, André Breton conosce Frida (in
Messico) definendola irrevocabilmente
«una bomba coi nastrini».
L’arte apolide di
Frida deflagra infatti il concetto di limite: una sorta di
flusso di coscienza che assembla sacro e profano,
reale e immaginifico, pubblico e privato,
l’orrendo e il sublime, slitta tra surrealismo
e realismo magico, tra onirico e scientifico.
Sovverte le categorie e sfida la
convenzionalità della visione. Organizza
un paradigma desueto di «bellezza», filigranata
dal perturbante e dall’inquietante, solleticata
da simbologie millenarie,
sottolineata da una autoironia nera
e fomentata dall’interesse per l’inconscio e dal
ricorso all’assurdo.
Ma non solo: la sua
attenzione ai dettagli della propria
condizione deriva da studi giovanili per la
fisiologia e biologia. Le sue metafore
biologiche e botaniche e gli
insistenti ricorsi a vene, radici, tendini, nervi
divengono tutti indicatori del dolore e del
nutrimento vitale. L’autenticità pulsionale che
trasuda dalle sue tele è palpabile in una
inafferrabilità artistica tipica della
mezla: il surrealismo europeo e le origini
precolombiane.
Le sue tele più famose:
La dos Fridas del 1939, Autorretrato con pelo corto
del 1940, Autorretrato con collar de espinas del
1940, Yo y mis pericos del 1941, Autorretrato
con trenza, 1941, Autorretrato como tehuana (Diego en mis
pensamientos) 1943, La columna rota, 1944, il
bellissimo e onirico El venado herico del 1946
descrivono ostentatamente e irriverentemente
i suoi stati psichici e una sempre più
radicale trascrizione del Sé, rappresentato
attraverso quel corpo martoriato, recluso nei
voluttuosi corsetti o secretato sotto
i colorati vestiti tradizionali. Una sorta
di seconda pelle che, come lei diceva, era un modo di vestirsi per
il paradiso.
Un travestitismo
(come lo definisce Carlos Fuentes) che emerge
dall’abitudine a indossare abiti indigeni, usare
acconciature tlaconal, adornandosi di
giadeiti, oro, perline e conchiglie, che
inducono a immaginare la sofferenza
e a scoprirne i segreti. «Ricorda una delle dee
azteche della Nascita e della Terra, ma ancor più la
divinità flagellante Xipe Totec», afferma ancora
Fuentes. Fino al famoso Autorretrato del 1948, in cui
Frida appare vestita col tradizionale tocado di
Tehuana, talmente coperta dal riccio che le incornicia
il viso da apparire simile a una antica maschera di
Teotihuacán con cui venivano coperti i volti
dei morti.
Viva la vida, Sandias
del 1954 è l’ultimo e flebile suo lavoro,
realizzato nella fase della sua vita in cui il Demerol
e la morfina l’accompagnano fino a quell’estremo
11 luglio del 1954, quando si spense per embolia polmonare.
Non prima di aver partecipato (dieci giorni prima)
alla manifestazione di protesta
sull’intervento della Cia in Guatemala.
Il Manifesto – 22 marzo
2014
Nessun commento:
Posta un commento