23 marzo 2014

FRIDA KAHLO: DEA AZTECA

Frida con Trotsky



Lev Davidovic Trotsky era un tipo freddo, ma quando la incontrò perse la testa, tanto travolgente era la vitalità di Frida. Una grande mostra a Roma (e in autunno a Genova) racconta la sua vita attraverso 160 opere.

Teresa Marcrì
La perturbante dea azteca


L' attrazione popo­lare per Frida Kahlo ha del sor­ti­le­gio. Nono­stante la calda e ter­rosa media­ti­cità delle sue tele riporti in primis a una con­di­zione di infer­mità e dolore, al tempo stesso sot­tende a una dimen­sione di riscatto morale e rimanda a un élan vital con­ge­nito. Le sue opere tra­sci­nano in un mondo così roboante di mil­le­na­ri­smo azteco tanto da tin­gere, con una aura fan­ta­sma­tica, l’identità stessa della arti­sta mes­si­cana. Iden­tità impo­nente, cari­sma­tica, pal­pi­tante, tal­mente ingom­brante da schiac­ciare la sua stessa arte, sì da far dive­nire Frida eroina cine­ma­to­gra­fica, tea­trale e let­te­ra­ria, quasi che il mistero della sua fama sia dovuto alla sua sven­tu­rata vita.

Eppure que­sta indo­mita «ragazza del secolo scorso», attra­verso lo sci­sma del corpo, non fa che evo­care la con­flit­tua­lità della sto­ria mes­si­cana del primo Nove­cento e, para­dos­sal­mente, ci avvita nelle spire di quei grandi visio­nari, Marx e Freud, che si addensano/condensano, tra con­flitto inte­riore e con­flitto este­riore, nella sua opera non­ché nella sua vita activa. Poe­ti­ca­mente Car­los Fuen­tes la ricorda così: «Frida Kahlo era una dea azteca.

Forse Coa­tli­cue, la dea madre dalle vesti di ser­penti, che nascon­deva il corpo tor­men­tato, la gamba inerte, il piede offeso, i busti orto­pe­dici sotto gli spet­ta­co­lari orna­menti delle con­ta­dine mes­si­cane, che per secoli con­ser­va­vano gelo­sa­mente i gio­ielli pro­tetti dalla povertà, per esi­birli solo alle grandi fie­stas delle comu­nità agra­rie. I mer­letti, i nastri, le gonne, le accon­cia­ture a forma di luna le apri­vano il viso come le ali di una far­falla not­turna: Frida Kahlo dimo­strava che la sof­fe­renza non riu­sciva a fiac­care, né la malat­tia a eclis­sare, la sua infi­nita versatilità».

Mag­da­lena Car­men Frida y Cal­de­rón nac­que il 6 luglio del 1907 da mamma mes­si­cana e da padre ebreo unghe­rese, a Coyoa­cán, allora sob­borgo di Città del Mes­sico. In una bio­gra­fia inse­mi­nata dalla malat­tia (la polio ad appena sette anni e il fatale inci­dente sull’autobus nel 1925, in cui si frat­turò l’osso pel­vico e la spina dor­sale, che com­pro­mise la sua intera esi­stenza), l’alternativa fibril­lante che ne segnò il carat­tere e l’attitudine fu la pas­sione politica.

La retro­spet­tiva che è appro­data alle Scu­de­rie del Qui­ri­nale con oltre 160 opere tra dipinti e dise­gni, curata di Helga Pri­gnitz Poda, indu­bi­ta­bil­mente riper­corre que­sta costante attra­verso l’intera car­riera arti­stica di Frida, riu­nendo i capo­la­vori dei prin­ci­pali nuclei col­le­zio­ni­stici, rac­colte pub­bli­che e pri­vate, pro­ve­nienti da Mes­sico, Europa e Stati Uniti. In mostra, ven­gono pre­sen­tati oltre qua­ranta ritratti e auto­ri­tratti e una sele­zione di dise­gni, tra cui il famoso «cor­setto in gesso» che teneva Frida pri­gio­niera subito dopo l’incidente e che lei dipinse ancor prima di pas­sare ai ritratti.

Nata con quella rivo­lu­zione mes­si­cana in cui la sol­le­va­zione bor­ghese e con­ta­dina com­batté l’oligarchia lati­fon­di­sta e il regime dit­ta­to­riale di Por­fi­rio Diaz dal 1910 al 1917, Frida riflette l’evento cen­trale del Mes­sico del ven­te­simo secolo schie­ran­dosi, ope­rando e atti­van­dosi per­so­nal­mente con­tro la teo­cra­zia azteca, che viveva un pro­cesso d’integrazione dipen­dente nel qua­dro mon­diale dell’imperialismo.

Le ferite e il san­gue che trac­ciano le sue tele deva­stanti pro­iet­tano, attra­verso l’iconografia del suo corpo infranto, un dolore nazio­nale, instil­lato da una intera classe sociale che si sol­levò con­tro la scure dei potenti. Così come il popolo si divise tra povertà e rivo­lu­zione, memo­ria e spe­ranza, Frida si scisse tra idea­lità e realtà. «La rivo­lu­zione — diceva Kahlo — ha lasciato Città del Mes­sico vuota, con un milione di mes­si­cani morti in guerra . Era una città bella, rosea città di magni­fi­che chiese colo­niali, palazzi e dimore pri­vate di stile colo­niale, dolci par­chi incoe­renti, lar­ghi viali e oscure vie». Ed è la città che diviene meta­fora e sce­na­rio del suo corpo martoriato.

Nel 1926 dipinge il suo primo auto­ri­tratto Autor­re­trato con vestido de ter­cio­pelo e l’anno suc­ces­sivo ade­ri­sce alla Lega gio­va­nile comu­ni­sta. Intanto, ben­ché gio­va­nis­sima, è già per­du­ta­mente inna­mo­rata di Diego Rivera, pas­sione distro­fica e perenne che l’accompagnerà per il resto dei suoi giorni in un con­ti­nuum emo­zio­nale che la ren­derà più vul­ne­ra­bile e più adorante.

Rivera è un mura­li­sta comu­ni­sta ed è una figura rab­do­man­tica che ingloba nell’animo ardente della Kahlo pas­sione amo­rosa e poli­tica. Si spo­sano due volte nel corso degli anni, tra abban­doni e ritorni, a causa dell’infedeltà con­ge­nita di Rivera Frida con­fessò sem­pre di aver subìto due inci­denti nella sua vita, quello nel tram e Diego Rivera.

I due arti­sti, nelle loro dif­fe­renti pro­po­si­zioni for­mali, fil­trano attra­verso i pro­pri umori la sto­ria sociale e cul­tu­rale dell’epoca. Nel 1936 Frida e Diego rac­col­gono fondi per i mes­si­cani in lotta con­tro le forze di Franco nella guerra civile spa­gnola, nel 37 rice­vono e ospi­tano Leon Tro­tsky giunto in asilo poli­tico in Mes­sico a cui Frida offre Autor­re­trato dedi­cado a Leon Tro­tsky (Entre las cor­ti­nas)). Nell’anno suc­ces­sivo, André Bre­ton cono­sce Frida (in Mes­sico) defi­nen­dola irre­vo­ca­bil­mente «una bomba coi nastrini».
 

L’arte apo­lide di Frida defla­gra infatti il con­cetto di limite: una sorta di flusso di coscienza che assem­bla sacro e pro­fano, reale e imma­gi­ni­fico, pub­blico e pri­vato, l’orrendo e il sublime, slitta tra sur­rea­li­smo e rea­li­smo magico, tra oni­rico e scien­ti­fico. Sov­verte le cate­go­rie e sfida la con­ven­zio­na­lità della visione. Orga­nizza un para­digma desueto di «bel­lezza», fili­gra­nata dal per­tur­bante e dall’inquietante, sol­le­ti­cata da sim­bo­lo­gie mil­le­na­rie, sot­to­li­neata da una autoi­ro­nia nera e fomen­tata dall’interesse per l’inconscio e dal ricorso all’assurdo.

Ma non solo: la sua atten­zione ai det­ta­gli della pro­pria con­di­zione deriva da studi gio­va­nili per la fisio­lo­gia e bio­lo­gia. Le sue meta­fore bio­lo­gi­che e bota­ni­che e gli insi­stenti ricorsi a vene, radici, ten­dini, nervi diven­gono tutti indi­ca­tori del dolore e del nutri­mento vitale. L’autenticità pul­sio­nale che tra­suda dalle sue tele è pal­pa­bile in una inaf­fer­ra­bi­lità arti­stica tipica della mezla: il sur­rea­li­smo euro­peo e le ori­gini precolombiane.

Le sue tele più famose: La dos Fri­das del 1939, Autor­re­trato con pelo corto del 1940, Autor­re­trato con col­lar de espi­nas del 1940, Yo y mis peri­cos del 1941, Autor­re­trato con trenza, 1941, Autor­re­trato como tehuana (Diego en mis pen­sa­mien­tos) 1943, La columna rota, 1944, il bel­lis­simo e oni­rico El venado herico del 1946 descri­vono osten­ta­ta­mente e irri­ve­ren­te­mente i suoi stati psi­chici e una sem­pre più radi­cale tra­scri­zione del Sé, rap­pre­sen­tato attra­verso quel corpo mar­to­riato, recluso nei volut­tuosi cor­setti o secre­tato sotto i colo­rati vestiti tra­di­zio­nali. Una sorta di seconda pelle che, come lei diceva, era un modo di vestirsi per il para­diso.

Un tra­ve­sti­ti­smo (come lo defi­ni­sce Car­los Fuen­tes) che emerge dall’abitudine a indos­sare abiti indi­geni, usare accon­cia­ture tla­co­nal, ador­nan­dosi di gia­deiti, oro, per­line e con­chi­glie, che indu­cono a imma­gi­nare la sof­fe­renza e a sco­prirne i segreti. «Ricorda una delle dee azte­che della Nascita e della Terra, ma ancor più la divi­nità fla­gel­lante Xipe Totec», afferma ancora Fuen­tes. Fino al famoso Autor­re­trato del 1948, in cui Frida appare vestita col tra­di­zio­nale tocado di Tehuana, tal­mente coperta dal ric­cio che le incor­ni­cia il viso da appa­rire simile a una antica maschera di Teo­ti­hua­cán con cui veni­vano coperti i volti dei morti.

Viva la vida, San­dias del 1954 è l’ultimo e fle­bile suo lavoro, rea­liz­zato nella fase della sua vita in cui il Deme­rol e la mor­fina l’accompagnano fino a quell’estremo 11 luglio del 1954, quando si spense per embo­lia pol­mo­nare. Non prima di aver par­te­ci­pato (dieci giorni prima) alla mani­fe­sta­zione di pro­te­sta sull’intervento della Cia in Guatemala.


Il Manifesto – 22 marzo 2014

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