20 marzo 2014

VAN GOGH - ARTAUD


Nel 1947, qualche giorno prima dell’inaugurazione di una retrospettiva parigina dedicata a Van Gogh, il gallerista Pierre Loeb suggerì ad Antonin Artaud di scrivere un testo in difesa del pittore presentato come un alienato. Nacque così “Van Gogh, il suicidato dalla società”, un'opera folgorante che ora il Musée d'Orsay propone come chiave interpretativa di 45 quadri dell'artista.


Francesco Poli

Van Gogh-Artaud, dialogo tra grandi “folli”


«Van Gogh era uno squilibrato con eccitazioni violente di tipo maniacale, con scatenamenti brutali come manie rabbiose (…) La sua mancanza di ponderazione mentale si rivelava nell’eccentricità: ingoia colori, minaccia Gauguin e il dottor Gachet, esce di notte per dipingere alla luce di una corona di candele fissata sul cappello. Ossessionato da idee di autocastrazione, si mozza il lobo di un orecchio…» Queste sono alcune righe di un testo su Van Gogh dello psichiatra François-Joachim Beer pubblicato su una rivista nel gennaio 1947, quando al museo dell’Orangerie è in corso una mostra retrospettiva dell’artista.

Bisogna ringraziare Beer perché è proprio questo suo commento (uno dei tanti incentrato sulla follia dell’olandese) a scatenare l’indignazione di Antonin Artaud e a spingerlo a scrivere il memorabile saggio Van Gogh, le suicidé de la société. Il saggio è un lucido atto di accusa contro la società (e la sua «coscienza malata») che secondo lui aveva spinto Van Gogh al suicidio per impedirgli di manifestare verità insopportabili. Ed è in particolare una denuncia della violenza del sistema psichiatrico e delle pratiche «terapeutiche» dell’internamento, di cui lui stesso era ancora vittima.

A consigliargli di scrivere un testo su Van Gogh, in occasione dell’esposizione, era stato l’amico gallerista Pierre Loeb. Inizialmente Artaud rifiuta, perché sta lavorando alla sua raccolta di scritti che deve uscire da Gallimard, ma poi accetta per reagire a Beer. Visita la mostra e studia delle monografie, entrando in sintonia profonda con lo spirito dell’artista (con cui in parte si identifica). In circa un mese scrive e in parte detta (a Pauline Thévenin) il testo, che viene pubblicato alla fine del 1947.

La decisione del Musée d’Orsay di organizzare un’esposizione incentrata sul rapporto e il dialogo a distanza fra i due grandi «folli» Van Gogh e Artaud, è legata a queste significative vicende. Non si tratta certo di una trovata ad effetto, ma di un’intelligente maniera di riproporre da un lato una inedita rilettura di quarantacinque quadri del pittore, in gran parte celebri (che provengono da musei come lo stesso d’Orsay, il Metropolitan, la National Gallery di Washington, e soprattutto dal Van Gogh Museum di Amsterdam) e dall’altro lato uno straordinario gruppo di grandi disegni di Artaud, in particolare i suoi esplosivi e allucinati autoritratti (realizzati negli Anni 40).

Il percorso espositivo delle opere di Van Gogh è articolato in una serie di sezioni che fanno diretto riferimento alle considerazioni e analisi dello scrittore, tanto che si potrebbe dire che Artaud, non è solo uno dei protagonisti della mostra, ma anche, in un certo senso, il curatore. Ed è con il suo occhio, con la sua mente e con le sue appassionate interpretazioni, che il pubblico è sollecitato a riesaminare e riscoprire i dipinti di Van Gogh: gli autoritratti; la spoglia stanzetta di Arles; la sedia di Gauguin; il pacifico ritratto di Père Tanguy e quello melanconico del dottor Gachet; le vecchie e bituminose vecchie scarpe o le due struggenti aringhe su un piatto (donate a Signac); i contorti paesaggi con cipressi e i cieli stellati; i suoi fiori; e infine gli ultimi desolati campi di grano dipinti a Auvers-sur-Oise appena prima di morire il 29 luglio 1890.

Le analisi di Artaud sono di folgorante acutezza. Ecco qualche esempio. Sulla «terribile sensibilità» degli autoritratti: «Un matto Van Gogh? (…) Io non conosco un solo psichiatra capace di scrutare un volto di uomo con una forza così schiacciante, e dissecarne come con un bisturi l’essenza psicologica». E sicuramente Artaud pensava anche ai suoi autoritratti (esposti in una saletta accanto) da cui emergono con tragica verità le tracce devastanti degli elettroshock.

Il commento su Le fauteuil de Gauguin è una vera e propria poesia: «Un portacandela su una sedia, una poltroncina di paglia intrecciata/un libro sulla poltroncina,/ecco il dramma chiarito./Chi entrerà?/Sarà Gauguin o un altro fantasma?». A proposito dei girasoli, considerati come la quintessenza dell’arte del pittore, il giudizio è di solare verità tautologica: «… Sono dipinti come dei girasoli, e niente di più, ma per comprendere un girasole nella natura bisogna ormai ritornare a Van Gogh».


Quello che più colpisce Artaud nell’arte di Van Gogh, «il più pittore di tutti i pittori», è il fatto che «senza andare più in là di ciò che definiamo pittura e che è la pittura, senza andare al di là del tubetto di colori, del pennello, del motivo e dei limiti della tela, per rincorrere l’aneddoto, il racconto, il dramma, l’azione immaginata, alla bellezza intrinseca del soggetto o dell’oggetto, è arrivata a impregnare di passione la natura e gli oggetti» con un’intensità che non ha nulla di meno, sul piano psicologico e drammatico, rispetto ai racconti di scrittori come Poe, Melville, de Nerval o Hoffmann.

Da parte di uno scrittore, attore, drammaturgo come il teorico del Teatro e il suo doppio, questo elogio della sublime semplicità della dimensione espressiva di un artista che ha sempre dipinto «per uscire dall’inferno», è un insegnamento su cui meditare per cercare di comprendere almeno in parte qualche frammento dell’essenza del processo creativo.


La Stampa – 17 marzo 2014

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