Da Márquez a lezione di giornalismo d’allegria
Quattrocento seminari e oltre diecimila allievi dopo, il suo direttore e cofondatore è di passaggio a Madrid. Pilucca svogliatamente un’insalatina. È reduce da un bendaggio gastrico che l’ha fatto dimagrire di diciotto chili. Non deve avere ancora fatto in tempo a rinnovare il guardaroba, oppure non ha sufficiente fiducia nella sua disciplina di lungo periodo, perché nella giacca nera che ha addosso ci starebbe dentro quasi un’altra persona. «Prima che me lo chieda lei, le dico che Gabo sta discretamente bene. Ha 86 anni e si è ritirato dalla vita pubblica. È stato uno degli scrittori di maggior successo, ma circa metà della sua produzione è di natura giornalistica. Da questa passione, che aveva voglia di condividere con i più giovani, è nata la nostra scuola».
Capitolo chiuso. La realtà è che l’autore di Cent’anni di solitudine non sta bene, è sopravvissuto a un cancro linfatico e soffre di demenza. Si fa vedere poco o niente, smentisce occasionalmente il fatto di non scrivere più, ma purtroppo nessuno ha le prove per credergli. L’occasione di quest’incontro in un modesto ristorante italiano («metà dei miei nonni erano piemontesi» esordisce Abello, ancora in grado di cantare Luna rossa a memoria) accanto alla Casa de América, è parlare di uno stato di salute che alcuni precipitosi commentatori danno per non non meno compromesso: quello del giornalismo. «Le persone che abbiamo appena premiato sono la prova vivente del contrario. Il giornalismo non è mai stato così vivace, è l’industria giornalistica che sta subendo un processo di cambiamento senza precedenti. Dall’esito ancora aperto». Parla di Alejandro Almazán, che sul mensile colombiano Gatopardo ha raccontato la carneficina quotidiana della Laguna, un quadrilatero di città nell’epicentro della guerra dei narcos. O della costarichense Giannina Segnini che con le sue inchieste sulla corruzione ha fatto andare in prigione gli ex presidenti Rafael Ángel Calderón Fournier e Miguel Ángel Rodríguez Echeverría. Cita una quantità di riviste, disgraziatamente non apparse sui radar italiani se non per occasionali apparizioni su Internazionale, dove qualità della scrittura ed esattezza dei fatti convivono, a livello altissimo.
Qualche tempo fa il Venerdì si era occupato di Etiqueta negra, il New Yorker sudamericano. Ma la verità è che, pur nella sua strabiliante qualità, il mensile peruviano è molto meno eccezione di quanto pensavamo. Ma perché tante eccellenze tutte in America latina? «Perché siamo una terra estrema, dove la gente lotta ancora molto per venire a patti con la propria identità. Cerchiamo strenuamente di capirci, e lo facciamo scrivendo. Il nostro vantaggio, rispetto al Nord America, è che abbiamo un mercato meno maturo e c’è ancora spazio per buoni progetti giornalistici. Aggiungete infine la fama individuale di autori come gli argentini Martín Caparrós e Leila Guerriero, il colombiano Alberto Salcedo Ramos, il messicano Juan Villoro, tutti largamente tradotti all’estero. Più un mercato complessivo di circa 400 milioni di persone. E avrete una risposta empirica ma non troppo lontana dal vero del perché il giornalismo iberoamericano, che la nostra fondazione celebra e incita, sia così in forma».
Il vantaggio della gioventù è di essere immune dal peso del passato. Pertanto il nuevo periodismo è laicissimo anche quanto alle fonti di finanziamento. «La rivista colombiana Soho ha un modello simile a Playboy, nel senso che alterna tette e ottima scrittura: infatti pagano meglio di tutti, anche 10 mila dollari a pezzo. La brasiliana Piaui ha tra i finanziatori quattro degli industriali più ricchi del Brasile. Idem Etiqueta Negra, che prima non pagava niente, ora poco, ma ricompensa in fama e visibilità. Esistono anche esperimenti online come il salvadoregno El Faro, famoso per le sue inchieste, che riceve fondi dall’Open Society Institute di George Soros e addirittura da fondi olandesi». Il premio per l’innovazione l’hanno dato a un webdocumentario, Projecto Rosa, che parte dalla vicenda di una donna che pretende giustizia per sè e migliaia di altri colombiani per essere stati espropriati della terra da gruppi militari. Video, animazioni in Flash, tanta tecnologia che è solo il bel vestito nuovo del mestiere antico che tanto piaceva a Gabo.
Alla Fondazione non si lasciano intrappolare in discussioni di retroguardia né dalle sirene della nostalgia. C’è il buon giornalismo, che può assumere tutte le forme che la contemporaneità offre, e il cattivo giornalismo. Punto. «La vera novità strutturale di internet» insiste Abello «è averci tolto il monopolio della diffusione delle notizie che avevamo una volta. Belli o brutti che siano, ci sono i blog, i tweet, la concorrenza dei non professionisti. Invece di demonizzarli dovremmo viverli come un pungolo per metterci delle nuove pile e correre di più». Il problema vero è il cambio di paradigma economico: «La gente è abituata alla gratuità e tutta l’industria culturale deve prepararsi ad abbassare i prezzi per sopravvivere». Non è ideologia la sua, solo pragmatismo. «E i media dovranno accettare l’alleanza con la filantropia, soprattutto per i progetti a maggior quoziente civico, come il giornalismo investigativo. ProPublica è, in questo senso, un esempio». Loro non sono affatto schifiltosi. Devono pagare gli stipendi di quindici persone, hanno un budget importante («La cifra è off the record»): «Riceviamo molte donazioni. I nostri seguitissimi seminari costano da 20 a 500 dollari per partecipante. Vendiamo raccolte di articoli premiati o certe antologie di scritti di Márquez. E abbiamo prodotto anche un’edizione limitata di centomila bottiglie di rum da 40 dollari intitolate al Maestro Gabo».
Pare che non sfiguri neppure di fronte al guatemalteco Zacapa. Non sono astemi alla Fondazione e questo, magicamente ma anche realisticamente, sembra aumentare la loro lucidità: «L’ingrediente essenziale per un buon giornalismo? L’allegria, come nella vita. Essere ancora in grado di stupirsi, di pronunciare ¡Qué chévere!, che cosa super, di fronte a fatti che lasciano indifferenti chi crede di aver già visto tutto». Il cinico non è adatto a questo mestiere, ricordava Kapuscinski. Era un amico della Fondazione. E soprattutto del giornalismo eccellente che lì si coltiva.
Questo pezzo è già uscito sul Venerdì di Repubblica e oggi, 12 marzo 2014, è stato pubblicato anche da http://www.minimaetmoralia.it/
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