Autoritratto
Frida Kahlo pone la
rappresentazione di sé al centro di una visione complessiva del
mondo e della storia. Il suo volto e il suo corpo ferito
diventano metafore della condizione umana (e femminile) in un mondo lacerato.
Quando Picasso
disse “nessuno dipinge volti come i suoi”
«Né tu, né Derain,
né io sappiamo dipingere volti come quelli di Frida Kahlo». Così
scriveva Pablo Picasso a Diego Rivera dopo aver visto una mostra
parigina della pittrice messicana. Quando l’artista spagnolo
parla di volti è molto probabile che ne abbia in mente
soprattutto uno: quello della stessa Frida. Perché per lei
dipingere è, in primo luogo, uno strumento di indagine
psicologica che ha come centro propulsore la sua faccia. Frida
Kahlo è l’interprete di un protagonismo maniacale capace di
vivisezionare la propria vita, il suo dolore, ma anche di
dimostrare al mondo una fiera resistenza a qualsiasi avversità.
Mentre il Messico si copre di pittura murale destinata al popolo,
lei, sempre controcorrente, si concentra su se stessa.
Frida si ritrae di tre
quarti con il suo sguardo scuro rivolto verso lo spettatore. Ti
inchioda, ti spia mentre guardi le gocce del sangue che fuoriesce
dalla collana di spine dipinta sul suo collo in un evidente
riferimento alla sofferenza di Cristo, destinata a essere redenta.
E per lei l’unica possibilità di riscatto è la pittura. Che
diventa un costante esercizio di sopravvivenza, un esorcismo
giornaliero, capace di lenire, di curare. A maggio per Electa
uscirà la ristampa del suo diario, ma anche i suoi quadri non
sono altro che le pagine di un racconto per immagini intimo e
sfacciato.
Si ritrae con un feto
nella pancia e un altro, molto più grande, quasi come il suo
malessere, espulso fuori di lei. E in mano tiene una tavolozza,
rivelando come la sua arte nasca da una sincera, quasi spudorata,
indagine interiore. Sul volto compaiono alcune lacrime, le stesse
che ritroviamo nella luna che assiste impotente alle vicissitudini
di questa tragica eroina. Anche il cocco delle nature morte che
dipinge negli anni Quaranta lacrima. Come se la natura non potesse
fare a meno di partecipare alla sua disperazione.
Tre lacrime, sempre le
stesse, appaiono anche nell’Autoritratto del 1948 che la ritrae
nella veste tradizionale delle spose messicane. Frida è quasi
sempre vestita con gli abiti della sua terra, ornata da ricche e
bizzarre acconciature. Propone di sé un’immagine regale in cui,
però, si autoritrae con durezza, accentuando la peluria sulle
labbra e, a volte, mostrando con baldanza il suo lato primitivo,
animalesco.
Nell’Autoritratto
con scimmia c’è una chiara identificazione tra lei e l’animale,
una vera fratellanza: il suo volto è diventato un muso, i peli
della testa della bestiola sono decorati con un nastro come i
suoi. Così il personaggio Kahlo dimostra non soltanto il suo
rapporto con qualcosa di primordiale, ma anche la conoscenza
dell’antica iconografia della storia dell’arte che riconosce
nella scimmia l’immagine stessa della pittura perché entrambe
compiono un processo di imitazione. E lei dice spesso di non
essere surrealista, ma di dipingere quello che le capita.
Le mille immagini di
Frida sono anche quelle lasciate dagli altri, le foto che le hanno
scattato. In mostra ce ne sono di bellissime, opera di Leo Matitz
e di Nickolas Muray. Quest’ultimo la ritrae con amore, come un
idolo in una foto che fu la copertina di Vogue del 1939, come una
donna di Vermeer quando la fa sedere su una sedia gialla. Frida,
neanche per lui, era soltanto una.
la Repubblica - 19
marzo 2014
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